David Ferrer: confessioni di un operaio della racchetta

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David Ferrer: confessioni di un operaio della racchetta

Dopo Federer, Nadal, Djokovic e Murray, il complicato 2016 di David Ferrer raccontato in prima persona

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È stato un anno difficile, molto difficile. Un anno di sconfitte e di delusioni. Così, in questi giorni di febbrile eccitazione decembrina, ho deciso di tornare bambino e di scrivere una lettera. Non al gaio signore vestito di rosso, né ai fan, come hanno fatto i miei illustri colleghi, ma a me stesso, per tirare un po’ le somme. Mi chiamo David Ferrer e faccio il tennista. Ho corso, sudato, lottato su ogni singola pallina che sia mai finita nel mio campo. Eppure non ho vinto molto, o meglio non ho vinto quei trofei che la gente ricorda. La mia carriera si potrebbe riassumere come un continuo Davide contro Golia, settimana dopo settimana, torneo dopo torneo. Con la differenza che il mio omonimo biblico ha ricevuto una bella mano e che non doveva affrontarne quattro di giganti ( cinque, se contiamo quel ragazzone di Losanna che ogni tanto si scuote dal suo letargo e mette in riga tutti). Io da quaggiù li ammiravo e intanto mi facevo largo tra la folla a suon di drittoni anomali e recuperi impossibili. Così sono diventato il primo dei mortali e ho preparato l’assalto all’Olimpo.

Ma sono stato buttato giù e ho provato sulla mia pelle la dura legge che quei quattro tiranni divini hanno imposto per più di una decade. Sfinito dalle eleganti e rapide stilettate del Maestro svizzero, ricacciato indietro dal gancio mancino del mio più illustre connazionale o vinto dal muro dei Gemelli Diversi di Dumblane e Belgrado; non ho mollato. E ad ogni occasione mi rifacevo sotto, sconfitto ma mai battuto. Intanto continuavo ad allenarmi e a lavorare per colmare la distanza che mi separava da quei mostri sacri. Fu così che, in una pigra domenica parigina di inizio giugno, mi ritagliai quindici minuti di gloria e la possibilità di mettere le mani su una coppa importante, di quelle che pesano nella memoria delle persone. Dall’altra parte della rete c’era di nuovo uno di loro, il padrone di casa, e anche lui aveva una bella storia da scrivere, perché, vincendo, avrebbe firmato il suo ritorno fra gli dei. Inutile dire che non fui io a sdraiarmi sulla terra nel tripudio generale e a baciare quel trofeo così bello. Ci provai con tutte le mie forze, anche quando la situazione di punteggio era ormai compromessa, ma non bastò. Tornai così al mio ruolo di campione dei normali, continuando a ignorare e a smentire quanti, anno dopo anno, pronosticavano il mio inevitabile declino.

Poi quest’anno, per la prima volta, ha bussato alla mia porta il tiranno grigio e imponente a cui tutti devono inchinarsi: Crono. A partire dall’esordio contro Marchenko a Doha, sono iniziate ad arrivare sconfitte inaspettate, a cui si sono aggiunti gli infortuni. Continuavo a uscire di scena nei primi turni, mentre il mio nome scivolava sempre più giù in classifica. Nessun titolo, nessuna finale. Addetti ai lavori e non, intonano già il “De profundis”. Ma io non ci sto e ora che questo 2016 sta volgendo al termine, voglio strappare a me stesso una promessa per l’anno che verrà. Prometto che mi ritroverete qui sul campo a gennaio, perché non sono stanco e ho ancora molte cose da fare. Non so se tornerò in top ten, non so se tornerò a vincere con continuità, non so se potrò ancora insidiare i migliori, ma so per certo che darò tutto, perché è l’unico modo che conosco per fare le cose. Sarò là fuori, sguardo fiero e testa alta, fino a che riecheggerà nell’aria un ultimo grande “vamos”.

Lorenzo Colle

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