TENNIS PERSONAGGI – E’ tornato “Gattone” Mecir. Ha 26 anni ed è figlio del Mecir due volte finalista Slam. Col padre condivide il nome ma non il talento. “Sono orgoglioso di essere un Mecir”, dirà alla vigilia del Roland Garros.
È un lunedì qualunque. Un primo turno qualunque e una qualunque giornata grigia e fredda in quel di Parigi di maggio. Eppure quel nome scritto sul tabellone del campo n.4 non passa indifferente agli occhi degli spettatori nostalgici. Miloslav Mecir, un ragazzone di 26 anni approdato per la prima volta al main draw di un Grande Slam, ha la stessa età (e lo stesso identico nome!) di suo padre quando decise di ritirarsi dal circuito dopo esserne diventato leggenda.
Oggi perderà facilmente dal modesto Kamke e tornerà a casa.
Gli dicono che assomiglia a suo padre. Che il paragone è inevitabile, sia per la somiglianza fisica che per lo stile di gioco fatto di colpi piatti ma non troppo potenti e di anticipo puro. Il talento, però, quella magia che hai dentro e che un campione può esprimere solo giocando, quello forse non c’è.
Alla sua età Miloslav Senior era già passato alla storia come Gattone Mecir, secondo la felice definizione di Vittorio Selmi, tour manager dell’ATP, il quale gli affibbiò il nomignolo dopo averlo visto appisolato su un divano tra una partita e l’altra di un torneo.
Nato in Slovacchia a Bojnice nel 1964, pochi anni prima della Primavera di Praga, The Big Cat cominciò a giocare a tennis a sei anni, raggiungendo i primi risultati importanti nel 1985 quando, grazie ai successi a Rotterdam e Amburgo, uniti alle finali di Roma e Philadelphia (dove sconfisse con una certa soddisfazione Jimmy Connors in semifinale) raggiunse la top ten, dove rimase stabilmente fino al 1989.
Nel 1987 vinse sei tornei del circuito maggiore, guadagnandosi il nomignolo ulteriore di Swede killer (l’ammazza svedesi), attribuitogli per la capacità costante di far fuori i regolaristi svedesi – tranne Edberg – grazie al suo gioco brillante e pieno di variazioni. È curioso ricordare come fu proprio Mecir a negare a Mats Wilander il prestigioso Grande Slam nel 1988, infliggendogli una sonora batosta a Wimbledon nei quarti di finale (vinti col punteggio di 63 61 63).
L’anno successivo raggiunse la quarta posizione del ranking ma soprattutto centrò il suo successo più prestigioso, a Seoul, vincendo le Olimpiadi in finale su Tim Mayotte (dopo aver battuto Stefan Edberg in semifinale in cinque set) e mostrando per la prima volta tutto l’entusiasmo nascosto per anni.
Non ottenne molto di più, il Gattone, eccezion fatta per due finali slam, a Melbourne e a Flushing Meadows, perse entrambe malamente da Ivan Lendl, nonostante il suo smisurato talento promettesse faville. Come un gatto, Mecir si muoveva sinuosamente sul campo, con eleganza e l’aria sorniona, stordendo l’avversario con palleggi dolci carichi di variazioni e poi fendenti improvvisi, preferibilmente di rovescio, come dei graffi violenti e imprevedibili. Non era un attaccante alla McEnroe ma sotto rete sapeva cosa fare, dotato di grandissimo tocco e di un certo gusto felino per il “dispetto tecnico”.
Secondo alcuni non s’impegnò mai abbastanza per raggiungere la vetta ma è proprio grazie a questo “disimpegno” che forse mantenne intatta la sua originale creatività fino al ritiro dalla scena tennistica, rimanendo sempre fedele a se stesso.
Spirito introverso immerso nel suo mondo, il Gattone viaggiava senza coach, amava la libertà e nel tempo libero si dedicava alla pesca, sua grande passione. Era il 1986, vuole la leggenda, quando sotto i riflettori della Grande Mela, in occasione della festa inaugurale del Master di fine anno, gli organizzatori dell’evento si accorsero che qualcuno mancava all’appello. Qualcuno che non si era minimamente preoccupato di avvisare perché, dimenticatosi completamente del torneo, si era accampato sulle rive di un lago slovacco a pescare in beata solitudine.
Che sia vero o si tratti di fantasia, il fatto descritto ci restituisce un’immagine fedele, brillante e indolente di uno dei campioni più originali della storia del tennis, il cui erede, alla vigilia del debutto in questo Roland Garros, dichiara in un intervista “Sono orgoglioso di essere un Mecir”.
E così, quando nel tempo libero impugna con passione la chitarra, strumento a corde non troppo dissimile dalla racchetta da tennis, e canticchia chissà cosa nella sua lingua, dietro a quei capelli rossicci e i baffetti da gattino non è difficile intravedere il talento e la creatività del Gattone. Anche papà, certamente, è orgoglioso.
Gianluca Falessi