Rafael Nadal: questa è la mia vita

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Rafael Nadal: questa è la mia vita

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TENNIS – In occasione del ventottesimo compleanno di Rafael Nadal riportiamo l’intervista del’otto volte campione del Roland Garros al sito tennistopic.com. Nadal ha parlato della sua gioventù (“Volevo essere un atleta”), del sogno da bambino (e non era vincere il Roland Garros) e delle nuove generazioni nel mondo del tennis (“Se fossi un allenatore di un giovane giocatore, non gli consiglierei di partecipare ai tornei junior”).

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Qui l’intervista completa.

Che cosa volevi diventare da bambino?
Volevo essere un atleta. Tennista o calciatore; fare quello che mi piaceva come per tutti i bambini. Alla fine quando sei piccolo e appassionato in uno sport, sogni di continuare con quello che stai facendo. Nel mio caso era giocare a tennis o al calcio, vivere però lo sport in un modo speciale.

Qual è il tuo primo ricordo nel tennis?
Quando avevo tre o quattro anni e andavo al Tennis Club di Manacor, una o due volte alla settimana

Sei del parere di aver perso molto dell’adolescenza?
No. L’unica cosa che penso è di aver fatto cose meno spesso dei miei amici. Non è stato un sacrificio. Ho avuto la fortuna di fare quello che mi piaceva e riuscire a emergere. A parte ciò che ho potuto fare col tennis, tutte l’esperienze che ho vissuto con lo sport, penso che la mia vita non è solo il tennis. Ci sono persone che diventano matte e ci pensano tutto il giorno, sembra che non possano fare altre che giocare a tennis. Gioco a tennis e metto il massimo dell’impegno quando sono in campo, però ho anche giocato a calcio e trascorso il tempo con i miei amici. Studiavo e quando potevo uscire, andavo in strada coi i miei amici. La differenza sta nel fatto che i miei amici sono usciti mille volte, io duecento.

Chi è la persona che ha più influito nella tua vita?
La mia famiglia. A livello tennistico evidentemente Toni. Anche a livello personale e soprattutto mio padre. Sono le due persone che hanno trascorso con me più tempo nella mia vita.

È importante la tua famiglia come punto di riferimento?
Non solo nel tennis. La mia famiglia è molto unita. Mi piace stare con loro e sto bene quando sono a Maiorca. Non solo a livello tennistico ma anche a livello personale mi considero fortunato ad avere una famiglia così unita. Sono stato fortunato crescere con la presenza dei miei zii e nonni. Ora ho meno occasioni, sono sempre in giro per il mondo. Ma quando ritorno, trovo anche il tempo di stare con i miei cugini più piccoli.

Cosa ha Maiorca che altri posti nel mondo non hanno?
Ogni posto è diverso però la cosa più importante che ha Maiorca è che vivono le persone a cui voglio bene. È il motivo principale perché ogni volta ritorno a casa. E poi a Maiorca ci sono posti molto belli. Amo il mare. Potermi alzare la mattina e vedere il mare ogni giorno è qualcosa che mi emoziona. Mi considero una persona serena e non immagino un posto dove il tempo non mi permetta di fare le cose che desidero.

Qual è la differenza tra la felicità di un bambino col sogno di diventare un tennista e quella di essere un campione da 13 titoli slam?
Quando sei un bambino sogni spesso come continuo a farlo io. Non credo che siano diverse. Certamente quando diventi un professionista, le cose diventano più complicate. Il contorno è più ampio. Devi imparare ad aspettare a differenza dei bambini. Quando sei piccolo, giochi a tennis e tornando a casa tutto è finito. Ora ho persone che si fidano di te, s’interessano di te e che dipendono da te. Direttamente o indirettamente hai intorno persone a cui devi dare risposte ogni giorno. Bisogno essere consapevoli di fare le cose non solo per te stesso, che è la priorità assoluta, ma anche per gli altri che hanno fiducia in te, dagli sponsor al tuo team che lavorano ogni momento al fine che tutto sia il migliore possibile.

Nel 1998 a 12 anni hai affrontato Carlos Moya al torneo di Stoccarda. Che sensazioni hai avuto? Moya era il numero uno in quel momento.
È stata un’emozione incredibile vedere Carlos in campo. E’ stata sempre una persona molto vicina a me. Carlos è il classico esempio di bravo ragazzo e se ti può aiutare, lui lo fa, che è l’aspetto che apprezzo in lui più di tutto. Siamo nati sulla stessa isola, stesso paese ed ero un giovane che partiva dal basso. Quando sei numero uno al mondo, hai vinto il Roland Garros, sei una icona come è stato per Carlos, vedere un ragazzo che ti batte e che ti supera in termini di risultati, se non sei una brava persona ed educata, non solo non sai accettare la situazione ma anche come viverla. Durante la mia carriera ho visto Carlos cercare di vincere, un atteggiamento che non tutti hanno. E’ stato per me un riferimento continuo.

Mi sembrava molto timido. Appena lo guardavo, volgeva lo sguardo altrove. Mi sorprese la sua intensità per un ragazzo della sua età” racconta Moya di quell’incontro. Sono le due facce di Nadal? Timido fuori e aggressivo dentro Il campo.
Prima ero molto più timido. Oggi lo sono ancora. Mi è difficile entrare in un posto dove non conosco le persone. Mi è rimasto un fondo di timidezza, benché sembri impossibile.

Si dice che hai avuto molta paura durante un safari su un elefante in Sud-Africa, terminato dall’incontro di un branco inferocito di rinoceronti.
È stato nel 2003. Ho partecipato al Nike Junior Internation Tour dai 14 ai 17 anni. Io ero già nel circuito professionistico e avevo vinto quel torneo già tre volte e andai lì per la Nike e per sostenere i giovani. Era un mio sogno fare un safari su un elefante. Non ricordo se era un branco di rinoceronti, ricordo di averne visto uno o due [risate]. Quello che mi è rimasto in mente è quando la guida afferrò il fucile pronto a ogni evenienza.

Non mi accadrà nulla. Devo giocare e vincere Wimbledon”. Sei certo di averlo detto in quel momento?
No, no, si figuri. Non ho pensato a nulla di questo. Stavo pensando al rinoceronte che si stava avvicinando. Non era così importante la mia carriera tennistica in un momento così pericoloso. La vita è molto più importante del tennis. Fortunatamente non accadde nulla. Stavo sulla difensiva e la guida ci disse di non muoverci, riconoscono i gesti degli animali anche se era molto nervoso.

Wimbledon è stato l’unico slam che ha giocato da juniores?
E’ stato l’unico perché ero impegnato con la scuola. L’Australia era troppo lontana per partecipare a un torneo juniores. Giocavo i futures, non avevo bisogno di andare a Melbourne. E quando si disputava il Roland Garros, stavo finendo le superiori ed era importante finire almeno la scuola obbligatoria. Coincideva con gli esami finali. Giocavo i futures durante i primi due trimestri, rischiando di non superare l’anno. Nel terzo trimestre non giocavo praticamente nessun torneo.

È sempre stato il torneo che volevi assolutamente vincere?
Le cose sono diverse quando sei grande o quando l’hai vinto. Da piccolo tutto appare in una maniera diversa dalla realtà. Ognuno sogna un giorno di giocare a Wimbledon. Che cosa vuoi vincere quando hai 12 anni? Anche se non sei arrogante, sogni di vincere quel torneo. E giocare a Wimbledon la prima volta è stata un’esperienza fantastica. Penso che la colpa sia di mio zio. Da bambino mi parlava spesso di Wimbledon alimentando le mie fantasie. Giocare sull’erba è completamente diverso dal cemento e dalla terra, dove puoi giocare da ogni lato. Appena arrivato a Londra ho palleggiato con Francis Roig, c’era anche Feliciano Lopez quell’anno. Sin da subito mi sono trovato a mio agio. Avevo delle sensazioni positive.

Dopo l’incontro con Federer nel 2004 a Miami ha detto: “Penso di non essere fisicamente un giocatore tanto limitato”. Divertente ricordarlo adesso.
Non mi sono mai considerato un giocatore limitato fisicamente. Il mio fisico è sempre stato molto potente. In quel periodo, parliamo del 2004, il mio corpo incominciava a star meglio. Se parliamo del 2003, soffrivo a rimanere in campo e non avevo forza sufficiente. Nel 2004 sono stato sfortunato a infortunarmi al piede durante il torneo in Estoril perché venivo da una serie di vittorie ed ero 17esimo o 19esimo in classifica.

Si dice che pronosticare il favorito è una specialità della stampa che è obbligata a scriverlo. Non stiamo parlando di favoritismi. Si sentiva pronto a vincere il Roland Garros alla prima partecipazione?
Sì. Una cosa è essere realista, senza essere arrogante e un’altra essere stupido. Quando vedi che hai vinto Montecarlo, Barcellona e Roma evidentemente ti senti pronto ad affrontare i giocatori a Parigi che sono li stessi che hai già sconfitto nei tornei precedenti. Sono andato al Roland Garros deciso di vincerlo, non voglio prendere in giro nessuno. Certo dopo aver vinto la semifinale, sapevo di giocare contro Federer; non mi sentivo il favorito dell’incontro ma sono entrato in campo cercando di dare il massimo.

Come si vive la condizione di essere il vincitore di uno slam a 18 anni? Wawrinka sembra ancora non averlo realizzato.
Non credo che Wawrinka non l’abbia ancora capito. Del resto ha vinto a Montecarlo. In Australia ha giocato con un’intensità e velocità che non avevo mai visto prima da lui e dopo la vittoria ha continuato su questo livello. I giorni nei quali si sta bene, si vince, e i giorni nei quali si sta male si sbaglia e si perde. Quando sta bene Wawrinka è tra i giocatori più pericolosi nel circuito. E’ difficile fare un paragone con le nostre carriere perché lui ha vinto il primo titolo a 29 anni, io quando ne avevo 18.

È diverso?
Si possono avere diverse ambizioni. Quando senti di migliorare e vinci il primo slam a 18 anni , io volevo solo continuare a vincere, non perché avevo vinto uno slam. Logicamente quando vinsi il primo Roland Garros, non ho mai pensato che non avrei vinto ancora qualcosa di importante. Fortunatamente ho vinto altri slam; ne valsa la pena per quello che ho fatto. In nessun momento ho smesso di cercare di migliorare. La prima volta che sono andato a Wimbledon dopo aver vinto Parigi, forse tutta l’adrenalina accumulata non mi ha permesso una buona prestazione. Ho commesso questo errore solo allora. Nel 2006, 2007 e 2008 non l’ho fatto. Vinto a Parigi, ero felice ma avevo chiaro in mente di giocare bene a Wimbledon.

Che cosa è la fiducia nel tennis? In te stesso quando giochi a tennis?
Sì. È praticamente giocare senza pensare. Certamente devi pensare a livello generale, ma non a come colpire la pallina o che gesto devi fare che mandarla in un punto preciso. Semplicemente sapere che la pallina deve andare lì e mandarcela. Avere ben in mente cosa devi fare. La confidenza sono gli automatismi, quando i colpi ti riescono automaticamente.

Che cosa sarebbe diventato senza quella passione e forza interiore che ha parlato nei giorni dopo Roma?
I giornali hanno sempre amplificato il discorso sulla mia forza interiore, la lotta e il mio spirito. Sono cose che ho di sicuro ma non solo l’unico. Alla fine della giornata, se ho vinto, è stato grazie a queste cose che mi hanno aiutato, però un tennista non vince quanto a me se non si è anche tennisticamente dotato. E’ la realtà. Correndo e combattendo, se non si tira la pallina dall’altro lato del campo, se le situazioni complicate non riesci a capovolgerle e non metti la palla dove vuoi, nessuno vince quanto io ho fatto. Una della mia caratteristica è stata la forza, la lotta, la capacità di superare le difficoltà e gli infortuni e gli ostacoli che ho incontrato in carriera.

Non ti infastidisce sentire che vinci di più con la testa che con la racchetta?
Assolutamente no. È un bel complimento. Non mi dispiace affatto. Non sono uno di quelli che pensano che non ho talento. È difficile per le persone che non conoscono bene il mondo del tennis o dello sport avere l’opinione giusta. Se non suona arrogante, non lo sono mai stato, è chiaro che tennisticamente parlando sono più talentuoso di altri.

Però si deve essere forte mentalmente, per uscire da una situazione come quella del 2011 e 2012, con sette sconfitte consecutive da Djokovic.
Devi necessariamente esserlo.

Volere è potere?
Non in tutto. Non basta solo provarci. Se ho voglia di fare una cosa, vedo lavorare molto per riuscirci. Mi rendo conto che oggi non sto vincendo come gli altri anni. Devo capire cosa devo fare per superare questa situazione, anche se è complicato e non mi piace. E allenarsi duramente in campo per risolvere la situazione.

Hai dei dubbi nella testa?
Li ho sempre avuti in tutta la mia carriera. Le persone che dicono di non averne sono profondamente arroganti.

I dubbi sono sinonimo d’insicurezza o il contrario di essere arrogante?
È vivere nel mondo reale. I dubbi sono parte della vita. Le cose non si vedono sempre chiaramente. Puoi avere una opinione quando la realtà è un’altra. Ci sono situazioni che cambiano repentinamente e non si può essere sicuro di nulla.

Dice Toni di te: “Probabilmente è il giocatore che ha vinto più partite giocando male”
Ho avuto diversi incontri in queste condizioni. Sia con Djokovic, Federer che con Murray. Il livello di gioco è talmente alto che non ti permette di fare errori. Questo ci obbliga a vincere così, giocando bene o male, o vincere in un altro modo. Devi vincere. Uno deve essere pronto a lottare e tirare la palla anche nei giorni sfortunati e vincere la partita con quello che hai a disposizione. A volte si vince anche giocando male, semplicemente rilanciando la pallina. E’ un altro modo di vincere. I giocatori più forti sono arrivati in alto perché hanno imparato a vincere anche giocando male. Accettare di star giocando male ma continuare a lottare per la vittoria.

Sei un esperto nel trovare le soluzioni durante l’incontro. Se inizia male, interpreti la partita e finisci col vincere. Perché?
Per l’educazione che ho ricevuto da piccolo. La cosa più importante è di avere la capacità di reazione e di analisi. Mantenere un sufficiente autocontrollo per evitare che il sangue ti salga in testa. Ho sempre avuto un buon autocontrollo che mi ha permesso, quando le partite iniziavano male, di trovare il modo per mettere in difficoltà l’avversario ed ho imparato a farlo in breve tempo.

Menzionavi la tua educazione.
Sì. Questo va di pari passo con l’educazione. Quando ero bambino e sbagliavo una pallina,Toni mi diceva sempre “Perché hai sbagliato? Perché hai sbagliato? Perché hai sbagliato? Perché hai sbagliato?” così tante volte che alla fine mi obbligava a pensare veramente in cosa sbagliavo. Questo mi ha aiutato molto anche nel correggere da solo i miei errori.

Sei cosciente di occupare un posto nella storia?
Ho bene in mente i risultati ottenuti e so che posto occupo nella storia. Un argomento di cui non parlo molto perché non ho bisogno di farlo. Quando l’anno scorso ho vinto a Roma, tutti sapevano che era il mio settimo titolo. Se sono il primo, il secondo, il terzo o il quarto nella storia, qualunque sia la posizione, il mondo del tennis sa già che posto occupo. Meglio che lo dicano gli altri che tu stesso. Eviti di essere considerato arrogante; le persone vedono le tue espressioni quando parli. Però quando un concetto viene compreso, il risultato è completamente diverso. Ci possono essere letture diverse, da quello che tenti di dire da quello che un giornalista recepisce. Non ho mai voluto apparire arrogante perché come le ho già detto non lo sono e di solito non parlo di questo argomento.

Parliamo dei giornalisti. Sembra che rispetto a prima con loro tu ci vada con il freno a mano tirato. Nel 2004 parlavi molto di più.
Sono sempre stato più o meno cauto e prudente. È chiaro che in quel momento ero giovane e inesperto. Ho imparato con gli anni. Non intendo proteggere me stesso ma evitare di dare la possibilità di un messaggio diverso da quello che voglio dire.

Quanti amici si sono presentati al momento del tuo massimo successo?
Sono luoghi comuni. Ho vissuto la mia carriera con naturalezza e le relazioni le ho vissute allo stesso modo. Si possono avere amici di passaggio, momentanei. Se stai bene con loro e ti diverti, non ci vedo nulla di male. Come non è strano che le persone ti vengano a cercare in dato momento. Non ci vedo malizia. A loro fa soprattutto piacere essere amico di una persona celebre o che hanno visto in televisione. Penso che sia comprensibile al 100%. Dal mio lato, ho sempre cercato di trattare le persone con naturalezza. Non sono uno che tende a nascondersi. Parlo e non ho problemi a parlare, però ho ben presente dove sono i miei veri amici e quelli che si fidano di me. Frequento amici che ho conosciuto alla scuola o da solo 4 anni. Con un gruppo di amici ci vediamo il venerdì sera per una cena o il sabato per andare a una festa. Siamo sempre gli stessi: sei, sette, otto, nove, dieci, undici o dodici. Dipende da dove siamo, però siamo lo stesso gruppo.

Come possiamo spiegare agli appassionati che non avremo una generazione di tennisti come l’attuale?
Chi lo sa. Non sembra ma nessuno può dirlo. È complicato. Sono il più giovane e ho 28 anni. Dopo c’è Pablo Carreno; nella nostra generazione sono comunque il più giovane. Sono entrato nel circuito a 12 anni. Pablo ha un buon gioco e un ragazzo fantastico. Gli auguro di migliorare. Ha solo 22 anni e vedremo come saranno i prossimi. Abbiamo un ragazzo di 16 anni, Munar, che gioca molto bene. La verità che non si vedono altri giovani in Spagna o in altri posti, paesi che hanno avuto Djokovic, Federer, Hewitt, Safin, Ferrero o io stesso hanno la stessa situazione. E’ questo quello che noto.

Perché sta accendendo questo?
Si dovrebbe partire a livello educativo. I bambini s’impegnano di meno rispetto a prima e assimilano i fondamentali più tardi. Sicuramente c’è dell’altro. È  stato costituito il circuito juniores dell’ITF. Se fossi un allenatore di un giovane giocatore, non gli consiglierei di partecipare. Qualcuno sì, ma che senso ha seguire un circuito simile in tutto il mondo? Che mi ritorna a livello tennistico? Bisognerebbe agevolarli nei contratti perché servono soldi per continuare ad allenarsi e giocare. Se non hai altre opzioni, va bene giocare questi tornei. Ma è molto più conveniente partecipare ai futures che ci sono in Spagna ogni settimana durante l’anno che ti forgiano come giocatore. Confrontarti con giocatori più grandi, ti obbliga a cercare altre soluzioni. Ti adatti a giocare un altro tennis molto prima. Al giorno d’oggi, i bambini chiedono di raggiungere il successo più facilmente e immediatamente. Questa condizione implica avere dei ragazzi che non hanno vinto nulla rispetto a quando avevamo la stessa età.

“Ho quasi 28 anni e a questa età Borg faceva ben altro” hai dichiarato. A cosa ti riferivi?
Non ricordo la domanda. Mi dissero di non essere abituati nel vedere Nadal soffrire sulla terra battuta già nel primo turno. Ho risposto che si sarebbero abituati. Ho 28 anni e non 21 e gli avversari giocano bene. Presi l’esempio di Borg perché è stato il giocatore che ha segnato un’epoca sulla terra battuta. Si ritirò a 26 anni. Era un giocatore completo ma con la testa non ce la fece già a 26 anni. E’ normale che uno non può rimanere al top tutta lavita. Arriva un momento che le condizioni cambiano. Le cose hanno un inizio e una fine. Nove finali a Montecarlo, novi finali a Roma e per anni senza mai perdere. Mentalmente e fisicamente è un impegno enorme. La verità è che nella carriera sportiva bisogna mettere diverse cose sul piatto della bilancia. Ho però sempre detto che vincere mi piace di più di perdere.

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