Luca Vanni, il gigante buono del tennis italiano

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Luca Vanni, il gigante buono del tennis italiano

Dopo una vita spesa tra Futures e infermeria, finalmente per Luca Vanni è arrivata la stagione della rivalsa. Trecentomila chilometri di cuore, passione e volontà e un sogno che si avvera alla soglia dei trent’anni. Ma il bello è appena cominciato

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Luca Vanni, dal pane duro dei Challenger alla prima finale ATP, per amore del tennis

Foiano della Chiana è un piccolo borgo della Toscana poco distante da Arezzo che conta si e no diecimila (più una) anime. Leggenda vuole che proprio da queste parti il Granduca Cosimo I de’ Medici sconfisse in una sanguinosa battaglia le truppe della Repubblica di Siena facendo erigere in memoria del trionfo il Tempio di Santo Stefano alla Vittoria che ancora oggi caratterizza sui dépliant turistici l’agglomerato aretino. Non è dato sapersi se il futuro gli riserverà la stessa onorificenza, noi ce lo auguriamo, tuttavia non c’è dubbio che gli odierni concittadini abbiano riscoperto con orgoglio di avere nel giardino di casa un valoroso guerriero. In questa più ludica occasione però, a mettere a ferro e fuoco il colle che si staglia sul torrente Esse, nessuna scintillante spada in acciaio ma una leggera appendice in carbonio manovrata con sapienza artigiana da un gigante buono, timido e, per dirla alla maniera di Paolo Conte, dall’espressione un po’ così. Il suo nome è Luca Vanni, di professione fa il tennista e in punta di piedi si è fatto largo nell’universo della racchetta.

La morale della storia che abbiamo il piacere di raccontare potrebbe essere riassunta in maniera esaustiva da un epigrafico “non è mai troppo tardi”. Non ce ne vorrà l’indiscusso depositario del copyright – il leggendario professor Manzi del piccolo schermo – ma è quello che deve essersi ripetuto nei lunghi momenti di sconforto, tra un crac al ginocchio e l’altro, il nostro protagonista che in barba alle trenta primavere sul groppone ha scritto una della pagine più interessanti del tennis maschile “made in Italy” della stagione testé passata in archivio. Dimenticavamo di dire poc’anzi che sempre a Foiano della Chiana, a quanto pare patria anche dello scherzo, si svolge ogni anno il più antico Carnevale d’Italia. A non essere affatto una burla è che Vanni, unico azzurro con Marco Cecchinato ad esserci riuscito nell’ultimo anno solare, ha fatto capolino per la prima volta tra i migliori cento giocatori al mondo. Davvero niente male per uno che non più tardi di due anni or sono, impelagato in una di quelle riabilitazioni la cui certezza è più l’inizio che la fine, senza più né classifica né morale si interrogava sul fatto che il treno buono potesse già essere passato. “Guardavo gli altri colleghi, gli amici che potevano giocare, mentre io lottavo, e stentavo a riprendere”, ricorda oggi Luca.

Che una delle più fresche novità della stagione azzurra sia costituita da un ragazzotto mezzo incerottato e non più di primissimo pelo, con tutto l’affetto del mondo parlando, potrebbe risuonare come un campanello d’allarme per una federazione aggrappata ormai da tempo immemore alle talentuose lune di Fognini o alla fantastica normalità di Seppi. Quando le vacche sono magre, un personaggio sui generis come quest’uomo dai modi gentili, forse un pochino sgraziato e con i poteri magici custoditi nel servizio – un goliardico Super Pippo, più da fagiolini all’uccelletto che da noccioline americane, insomma – rappresenta con tutte le simpatiche anomalie del caso una vera e propria manna dal cielo. “Lucone” non sarà della stessa genia di Roger Federer ma in un tennis che sovente dimentica le buone maniere simboleggia una bella pagina umana e sportiva dalla quale i più giovani farebbero bene ad attingere.

E deve averne fatti di chilometri su e giù per il vecchio continente a bordo della sua sgangherata Fiat Bravo – si dice oltre trecentomila – con la sacca nel baule e il cuore colmo di speranze, per racimolare punticini (pochi) e soldi (ancor meno) che potessero trasformare un adolescente ancora di quarta categoria nel centesimo giocatore più bravo del pianeta solo un paio di lustri più avanti. Ad una età che per molti altri è più questione di bilanci che di prime assolute. Anche perché a far sul serio con il tennis Vanni ci ha pensato piuttosto tardi, dopo quel diploma da ragioniere che babbo, un pragmatico ex pallavolista, ha preteso conseguisse. Niente attività juniores, dunque, ma libri di scuola e tanta gavetta: a lanciar palline al cesto, nel circolo sotto casa o nella fabbrica di famiglia, montando cucine.

Ci vuole coraggio, inventiva e una massiccia dose di follia nel credere un giorno di poter giocare a Wimbledon, magari sul centrale e contro il numero uno al mondo (è bene ricordare che solo per una manciata di minuti ciò non si sia verificato quest’anno), quando a ventuno anni suonati raccogli nella palude di un (No)Futures qualunque il primo maledetto punto ATP della tua vita. Per un Vanni che getta il cuore oltre l’ostacolo nei tornei di Cesena o Castelfranco, dove gli avversari con tutto il rispetto si chiamano Giangrandi o Crugnola, c’è infatti una classe di coscritti per l’occasione assai poco operaia che in paradiso comincia ad andarci per davvero. Berdych fa finale ad Halle, Wawrinka infilza Djokovic e vince Umago, Bolelli a Basilea si prende a sportellate con Gonzalez. Luca invece naviga nei bassifondi della classifica dove l’opulenza economica non sta affatto di casa e solo una passione grande così – detto con il gesto che si compie allargando entrambe le braccia all’altezza delle spalle – può contrastare il desiderio di mandare tutto alle ortiche. Passione che all’aretino dagli occhi che sorridono scorre nelle vene senza soluzione di continuità e che lo fa rimbalzare da un campo di periferia all’altro a caccia di una chimera chiamata professionismo.

“Impossible is nothing”, recitava il compianto Jonah Lomu in una celebre réclame in auge di quei tempi. Vanni, il tormentone mediatico deve averlo preso alla lettera; si è rimboccato le maniche e dotandosi della miglior artiglieria possibile si è reso protagonista di un’ascesa da manuale. Tenace come la celebre formichina delle fiabe – lui, curiosamente cresciuto nel mito di un diavolo come Marat Safin che più cicala non avrebbe potuto essere – al traguardo del circuito maggiore ci arriva con tutto l’entusiasmo del mondo all’inizio di questo 2015, al culmine di un’arrampicata da far invidia a Reinhold Messner. Al punto che se lo scorso inverno il braccio non avesse comprensibilmente cominciato a tremare a tre quindici dalla gloria, la vetrinetta dei trofei di casa Vanni accoglierebbe oggi anche quello pesantissimo di San Paolo, finito solo per il rotto della cuffia nelle fauci di quel marpione di Cuevas. Oltre alla coppa di Portorose, teatro estivo del primo significativo hurrà nel Challenger Tour.

Il segreto? “Aiutati che il ciel t’aiuta”, dice il proverbio. Meglio se con quel servizio micidiale lì che scende dal terzo piano o con la spallata di diritto pesante come un comodino. E magari se al tuo fianco c’è Francesca che ti supporta. Luca è un poliedrico che sul campo si destreggia discretamente bene in tutti i settori del gioco. Efficace ed esteticamente pregevole il modo di portare il rovescio, del repertorio forse il colpo più naturale. Un fondamentale magari non ancora di estrema intraprendenza ma nel quale dimostra confidenza anche per l’uscita in lungolinea e la versione monomane con il taglio all’indietro. In questo tennis brutale e stereotipato, tutto corri-e-tira, la capacità di variare con disinvoltura angoli e rotazioni rischia di essere sempre più una rarità alla stregua del panda cinese.

In quanto a caratteristiche tecniche e fisiche, Vanni appare un giocatore scolpito ad hoc per i campi veloci, e non solo perché ne esaltano le doti non comuni da big server. Tuttavia l’indole non è prettamente aggressiva tanto che, all’uno-due sulla moquette, l’impressione è che di base prediliga i rally sul mattone tritato, nonostante colpi portati quasi piatti che non sempre vanno a braccetto con un tennis percentuale. In risposta alla diatriba su attitudini e superfici, l’aretino sembra però avere le idee chiare per il futuro prossimo: “Credo proprio mi vedrete giocare a febbraio in SudAmerica piuttosto che sul cemento indoor europeo”. Ciò, anche se per sua stessa ammissione l’acme stagionale pare proprio l’abbia raggiunto senza sporcarsi i calzini: “Con Youzhny (ad Eckental sul duro, in un match perso dopo aver nascosto la palla per un set e mezzo all’ex n.8 del mondo, ndr) ho giocato il miglior match della mia vita”, la chiosa in una sua recente intervista.

Vanni ha nelle corde una certa solidità, tuttavia l’atteggiamento resta un po’ atipico per un colosso di quasi due metri e cento chili che giocoforza non può fare di mobilità e resistenza i propri cavalli di battaglia. L’ulteriore salto di qualità potrebbe dunque passare, indipendentemente dalla superficie, per una strategia di gioco maggiormente propositiva; il tennis release 2.0 su questo non fa sconti e l’esperienza insegna come l’inerzia dello scambio sia meglio averla dalla propria parte. Anche in questo frangente Luca si dimostra lucido nell’analisi: “Fa parte dell’attitudine che impari all’inizio (si riferisce al deficit di aggressività, ndr). Così attualmente spingo solo a sprazzi o quando sono disperato. Devo accettare di avere meno tempo per tirare come vorrei per dare meno tempo all’avversario”. In altre parole quello che ci si auspica è che riesca ad indossare, fatte le debite proporzioni, più i panni “avanti tutta” di uno alla John Isner che non quelli da “Speedy Gonzales” di un David Ferrer in taglia extra large.

Se il 2014 è stato l’anno della rinascita dagli infortuni e dell’assalto all’arma bianca al ranking, il leitmotiv di questa annata, ottima come il 1985 per il Sassicaia, è ben condensato nella parola “novità”. Oltre all’esordio in ATP a Chennai, la storica finale di San Paolo, l’ingresso nella Top100 e il primo successo in un Challenger di cui già abbiamo fatto cenno, Vanni si è caparbiamente regalato altre succose primizie. Basti ricordare il secondo turno nel Masters 1000 di Madrid con annesso scalpo di Tomic (per inciso l’avversario di miglior classifica sconfitto in carriera), l’ingresso nel main draw di Parigi e Londra e la convocazione come quinto uomo di Coppa Davis. La seconda parte del 2015, in quanto a qualità di risultati, potrebbe non apparire all’altezza dei primi sei mesi. Una tesi avvalorata dal fatto che dopo l’exploit in diretta pay-per-view nella capitale spagnola, Vanni non abbia più vinto un solo match in un torneo ATP mancando qua e là qualche qualificazione. Che il quarto d’ora di notorietà, così come teorizzato dal mentore della pop art, si sia chiuso con quel commovente “vi amo tutti” sussurrato alle telecamere della televisione brasiliana al culmine della settimana (quasi) da sogno? Ai posteri l’ardua sentenza.

Tuttavia ciò che fa ben sperare è che a livello Challenger, dopo un periodo estivo di comprensibile flessione dovuto anche a qualche noia fisica, Vanni con i primi freddi sia stato capace di alzare nuovamente l’asticella. Chiuso in quei palazzetti che sembrano proprio evidenziarne le doti, sono arrivate le due semifinali di Brest e Brescia e i tre quarti di Eckental, Ortisei e Andria. Per usare le parole di Coach Gorietti, Luca ha ripreso a vincere le partite da vincere “con una velocità di crociera da navigato Top150”. La consapevolezza di poter disporre con continuità degli avversari di caratura inferiore è probabilmente la miglior conquista di questa prima stagione da protagonista e non è casuale che la classifica si sia cristallizzata a ridosso di quel numero cento che rappresenta una sorta di spartiacque per il tennis che conta. Peccato che con ogni probabilità l’attuale posizione n.107 non sarà sufficiente per entrare di diritto nel tabellone di Melbourne. Questione di una manciata di punti, quelli che con un po’ di salute in più avrebbe rimediato nella non fruttuosa tournée asiatica autunnale. Una piccola delusione compensata, ne siamo certi, dall’obiettivo salvezza centrato dal “suo” TC Sinalunga alla prima partecipazione nel massimo campionato a squadre nazionale. Una bella realtà che sta al tennis come il simpatico Carpi sta al mondo pallonaro. E nessuno può apprezzare le piccole gioie che regala questo diabolico sport, che vivaddio non si nutre di soli Championships, più di chi è abituato a dare l’anima per ogni singolo traguardo.

Quando il Morandi nazionale sostiene che a farcela sia solo uno su mille forse dimentica una cosa. Non è così scontato che gli altri novecentonovantanove abbiano creduto, lottato e sofferto quanto il nostro “Lucone”. Da Foiano della Chiana a suon di ace. E non è assolutamente uno scherzo.

Matteo Parini

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