Prima una manciata di numeri, che non si sa mai qualche distratto si sia dimenticato di impararli a memoria. Numero 1 del mondo, ma di poco: se il secondo e il terzo (Murray e Federer, per dire) sommassero i propri punti in classifica, non totalizzerebbero quelli di Djokovic, nella cui casella campeggia un pauroso 16.540. Record assoluto di Masters 1000 vinti in carriera, a 28, con il recente successo a Miami utile per staccare Nadal di una lunghezza (Federer è ormai lontano a 24, difficile che recuperi). Il trionfo in Florida è servito anche ad eguagliare il primato di Andre Agassi di sei successi nel torneo di Crandon Park, e ancor di più per issarsi a dominatore indiscusso del prize money di tutti i tempi, scalzando sua maestà Federer: lo scarto è di poche centinaia di migliaia di dollari, ma se il ritmo rimane questo (e argomenti contrari ce ne sono pochi), il muro dei 100 milioni di dollari somiglia sempre di più ad un piccolissimo gradino. E poi 11 vittorie Slam, le 302 settimane in vetta sempre più avvicinabili, il record di successi in Australia, il bilancio vittorie/sconfitte che da anni rasenta l’imbarazzante.
Spesso sembra non esserci niente di più nuovo di un film già visto: premere play una seconda volta, e magari una terza, aiuta a cogliere sfumature non comprese in precedenza, apprezzare le scene da angolazioni e prospettive diverse (c’è anche chi imbroglia andando a leggere le recensioni su Wikipedia, per poi fare la figura dell’intenditore ripetendo “quello che il regista voleva realizzare”). Con l’aiuto dell’audio originale, aggiungendo i contenuti extra del DVD, analizzando le interviste degli attori, insomma, di modi per scovare la novità in qualcosa di già sperimentato ce ne sono eccome. Ma Djokovic sembra abbattere anche questa regola (assolutamente non scritta da nessuna parte): la trama delle riprese non cambia mai, magari qualche intruso che decide di occupare la scena per un paio di ciak in più, ma alla fine arrivano i nostri, vissero felici e contenti, e il killer è sempre il maggiordomo. Serbo, ovviamente. E non basta un occhio malandato per inficiare il dominio dell’animale da palcoscenico, perché a meno di soluzioni tipo Brandon Lee (si scherza eh, non iniziamo!), sembra non esserci spazio per conclusioni alternative.
Ultimamente vanno molto di moda le serie TV, sopratutto grazie a streaming e piattaforme come Netflix: la quasi totalità delle produzioni di maggior successo che sono terminate, a detta degli sceneggiatori almeno, avevano in programma almeno uno, se non due, finali diversi da quello che poi effettivamente è stato mandato in onda (chi non ne avesse mai sentito parlare potrebbe cercare qualcosa su “How I Met Your Mother”, il cui series finale è stato definito dagli appassionati come uno dei peggio riusciti della storia, costringendo i creatori Craig Thomas e Carter Bays a scusarsi pubblicamente e presentare appunto i finali alternativi). Possibile che il blockbuster ATP non riesca a chiudersi mai in un modo nuovo? Eppure di personaggi emergenti ce ne sarebbero, un Dominic Di Caprio di Titanic, un Nick Cruise di Risky Business, Bernard Sheen di Wall Street, qualcuno che possa creare il colpo di scena da boom di audience.
E mentre le commissioni per i vari premi si stressano a cercare nomi che non siano sempre lo stesso da insignire con statuette e globi dorati, Djokovic fa incetta di critiche, positive o negative che siano (pare che “basta che se ne parli”), rimanendo nei palinsesti in prima serata con una continuità senza precedenti. Magari con performance tecnicamente non indimenticabili, ma con un coinvolgimento fisico e caratteriale che gli vale il riconoscimento dell’Academy (premiano Di Caprio per due ore di smorfie e trascinamenti contro un orso, d’altronde). Che piaccia o no, quindi, il serbo si è da anni imposto come interprete di spicco, a volte addirittura unico, delle première tennistiche intorno al mondo; con il rischio, che a ben vedere sembra diventare sempre di più un suo diritto, di poter firmare ben più di un solo paio di impronte sulla Walk of Fame, ma addirittura di poter occupare l’intero marciapiede, a piacimento. E non basta nemmeno una simpatia che a volte sembra quasi costretta, di certo non devota come per le altre star, che il pubblico gli tributa quando deve confrontarsi con quei pochissimi eletti che possono reggere il ritmo delle sue esibizioni sulla scena.
Pure noi alla fine, siamo costretti a ripetere il solito ingeneroso cliché: la partita mai bellissima, lo stile a rete sempre rivedibile, gli unforced sempre superiori ai vincenti. Intanto, per sua fortuna, a dispetto di passatisti nostalgici che forse devono semplicemente aggiornare il calendario, il Djoker si fa beffe di loro. Se c’è da vincere vince, i fronzoli e gli orpelli sono per le attricette, Nole fa sul serio. Del resto chi è che diceva “se volete vedere uno spettacolo allora andate a teatro”?