Novak Djokovic non è per tutti

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Novak Djokovic non è per tutti

Novak Djokovic ha dalla sua un talento smisurato. Sicuramente non avrà il servizio di Sampras, la genialità di McEnroe o l’eleganza di Federer, ma nel complesso potrebbe essere migliore anche di questi tre “intoccabili” del tennis

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“Sono molto felice, perché è sempre bello quando si vince e sono orgoglioso di aver conquistato così tanti titoli. Il fatto che io abbia sorpassato Nadal è una soddisfazione in più, ma comunque secondaria. È bello battere dei record, in futuro spero di superarne tanti altri, ed è ancora più bello che sia successo proprio a Miami, un torneo che ho già vinto ben sei volte e soprattutto il primo Masters 1000 che ho conquistato nella mia carriera. Era il 2007 e quella vittoria fu fondamentale per la mia crescita, fu una grande iniezione di fiducia, che mi fece capire che potevo essere un giocatore vincente anche io”

Pensieri e parole di uno dei tennisti più vincenti al mondo, al secolo Novak Djokovic, durante la conferenza stampa post vittoria all’interno dell’impianto di Crandon Park. Come si evince dal virgolettato l’undici volte campione Slam non potrà mai dimenticare l’1 aprile del 2007: Djokovic – dopo aver travolto Rafa Nadal ai quarti e Andy Murray in semifinale – vince nettamente in tre set sul qualificato Guillermo Canas e nella sua testa balza la pazza idea che forse la sua carriera non doveva necessariamente prendere la strada dell’essere per forza il comprimario dei due campionissimi dell’epoca, Roger Federer e Rafael Nadal. Il 27 gennaio del 2008 arriva la schiacciante controprova: Novak Djokovic si aggiudica la finale degli Australian Open e durante la premiazione invece di gioire, a giusta ragione, solo ed esclusivamente per essere entrato nel ristrettissimo club dei campioni Slam quel ragazzo dall’aria un po’ frivola – che faceva arrabbiare i tennisti più grandi per delle proverbiali imitazioni – si lascia scappare: “Sono molto felice per questa mia prima vittoria Slam, ma non sarà l’ultima e un giorno vi prometto che sarò il numero 1 al mondo”. Il pubblico che attendeva l’ennesimo capitolo della saga Federer contro Nadal era incredulo. Nelle mente di ogni singolo spettatore pagante sarà balzata la seguente frase: “Ma chi è questo novellino che osa sfidare i due più grandi mostri sacri del tennis”?

Francois-Marie Arouet, comunemente conosciuto come Voltaire, diceva: “Il tempo è galantuomo, rimette a posto tutte le cose”. Quindi molto presto si sarebbe capito se Novak Djokovic era una nuova stella che stava nascendo o una semplice meteora; una mosca bianca nella tirannia del Fedal. Col senno del poi, senza ombra di dubbio i fatti hanno dimostrato come quel ragazzo cresciuto a pizza e burek, con il sogno di vincere Wimbledon – che l’aveva preso talmente tanto da farlo allenare sotto le bombe della città di Belgrado – non era uno di quei giocatori di passaggio. Tuttavia, l’ascesa è stata tutt’altro che semplice: i grandi avversari dell’epoca, i primi ritiri durante le partite che facevano irritare non poco gli avversari – Federer su tutti – e le prime dolorose sconfitte col senno del poi hanno sicuramente forgiato il carattere del serbo, ma il rischio di trasformarsi in eterno secondo fino a tre anni fa era bello e concreto.

I numerosi successi di Nole sono storia recente del tennis, ma ora si provi ad immaginare un mondo senza il serbo. Considerando gli antagonisti sconfitti nelle fasi finali dei tornei di questa e dello scorsa stagione a quest’ora Andy Murray e Roger Federer avrebbero un paio di Slam in più nel loro palmares (per lo scozzese la doppietta a Melbourne; per l’elvetico il tanto atteso trionfo a Church Road e il successo a Flushing Meadows), con il successo di Stan Wawrinka a Parigi che rimane intaccato. Stesso discorso nei Masters 1000 della scorsa stagione: difatti per Federer oltre al trionfo di Cincinnati sarebbe finalmente arrivato il primo agognato successo al Foro Italico e la vittoria a Indian Wells; per Murray oltre a Montreal altri tre prestigiosi trionfi a Miami, Madrid e Parigi-Bercy; un redivivo Rafael Nadal si sarebbe aggiudicato da tempo il nono Montecarlo in carriera, invece di dover attendere domenica scorsa, e Tsonga avrebbe trionfato a Shanghai. I due 1000 di quest’anno sono storia recente: Raonic e Nishikori ad alzare i rispettivi trofei l’uno in California, l’altro in Florida. Con questi “probabili” risultati in mano si sarebbe parlato dell’ennesima epoca d’oro del tennis con tantissimi tennisti pronti a darsi battaglia in ogni singolo torneo del globo, con Murray e Federer sopra tutti. Ma la verità dice che Novak Djokovic è almeno due spanne sopra gli altri, tanto da far sembrare – in alcuni casi – vincitori Slam o tennisti di alto livello dei semplici tennisti amatoriali che si dilettano nei tornei domenicali del proprio circolo. Il serbo, che a volte sembra giocare al 60% delle proprie possibilità, viene accusato di vincere e giocare match noiosi, ma come può essere colpa sua? Nessuno pensa che sia colpa degli avversari che sembrano aver accettato tutto ciò? Bisogna ricordare come Djokovic abbia trovato nello strapotere esercitato dal duo Roger Federer e Rafael Nadal uno stimolo a migliorarsi in maniera costante, non accontentandosi mai dei trionfi che iniziavano ad arrivare in serie. Dal canto loro i vari Murray, Nishikori, Raonic, Nadal, Berdych e tutto il resto della compagnia sembrano invece aver accettato il dominio del serbo quasi senza batter ciglio, a differenza del campione di Basilea, che spesso è riuscito a complicargli la vita. La verità è che quest’uomo sta alzando sempre più verso l’alto l’asticella, raggiungendo limiti inimmaginabili fino a qualche tempo fa e dinnanzi a un campione del genere – piaccia o non piaccia il suo stile di gioco, quello resta sempre un dato soggettivo – bisognerebbe solo alzarsi il cappello e tributargli il giusto merito.

E invece la realtà, purtroppo per Nole, dice tutt’altro: ogni qualvolta l’undici volte campione Slam si ritrova a giocare una finale, in certi momenti del match i fischi superano di gran lunga gli applausi. Però se nelle fasi iniziali della sua carriera Nole sembrava esserne colpito in maniera negativa – mostrandosi nervoso in campo e perdendo match decisamente alla portata – ora Djokovic sembra ricavarne maggiore forza per dominare in maniera sempre più netta e decisa il proprio avversario. La finale dello scorso anno a Flushing Meadows ne è l’esempio più lampante. Buona parte del pubblico che occupava gli spalti dell’Arthur Ashe era palesemente schierato dalla parte di Federer e in certi frangenti dell’incontro sembrava più di stare in un match di Coppa Davis, che in una finale Slam. L’incontro è già stato consegnato alla storia: lo svizzero fallisce una quantità industriale di break point e solo una smisurata concentrazione permette a Djokovic di conquistare il personale decimo Slam. Successivamente in sala stampa il serbo ha parlato molto tranquillamente dell’accaduto: “Non mi ha dato alcun fastidio. È normale, prima del match mi immaginavo una cosa del genere. Roger è un campionissimo sia dentro che fuori dal campo. È un ragazzo molto simpatico e gioca a questo livello da molti anni prima di me. Più o meno ogni qualvolta che lo incontro accade sempre la stessa cosa, ma ho imparato ad accettarlo. Devo lavorare sempre di più per guadagnarmi, forse un giorno, la maggior parte del supporto”.

Nel corso degli anni Djokovic ha dimostrato come non abbia particolari punti deboli in tutte e tre le superfici. È agile, esplosivo, tatticamente impeccabile e tecnicamente riesce a migliorarsi di giorno in giorno. Chiunque sia un vero appassionato di questo sport non può non esaltarsi per i recuperi incredibili su palle che sembravano perse, sul muoversi sempre in maniera perfetta per arrivare a colpire con precisione la palla, quando riesce ad aprirsi angoli che sembravano impossibili o ancora quando in spaccata riesce a tirare dritti o rovesci inumani. Non per niente molte leggende del passato lo indicano come il “tennista perfetto” e nonostante sia dentro che fuori dal campo si sia sempre dimostrato un tennista signorile, senza ombra di dubbio non è amato come meriterebbe, con Italia, Australia e il continente asiatico a fare da uniche eccezioni.

Ma di questo Djokovic sembra non curarsene più di tanto. Dopo la batosta rimediata lo scorso anno, sulla terra rossa del Philippe Chatrier, da uno Stan Wawrinka in giornata di grazia solo in pochissimi, per non dire quasi nessuno, avrebbero scommesso sulla terza vittoria nei giardini di Wimbledon, per di più battendo in finale il Re di Church Road. Ma, “ladies & gentleman”, questo è Novak Djokovic, un campione con la racchetta tra le mani e la testa solidissima, forgiata da anni e anni di battaglie, con tante – forse troppe – finali Slam perse. E questo non è talento? Sembra doveroso ricordare come in questo fantastico gioco chiamato tennis vince chi porta a casa l’ultimo punto, dell’ultimo set dell’incontro. Ovviamente vedere un bel vincente esalta tutti, dal giocatore al pubblico sugli spalti e da casa, ma la differenza la fa sempre quel maledettissimo ultimo punto. Djokovic può anche permettersi di giocare certe partite sotto il suo standard, perché lui avrà sempre quel qualcosa in più di chi non sbaglia mai uno smash (ecco servito l’unico punto debole del cosiddetto robot Made in Serbia), di chi serve sopra la soglia dei 230 km/h e chiude almeno con venti ace a partita, di chi accarezza a rete con la stessa leggiadria usata da Michelangelo per impugnare un pennello, piaccia o non piaccia lui è “di più”. L’ultimo quindici del match è il suo unico obiettivo e per questo non è meno artista di altri. Lui mira esclusivamente alla completezza dell’opera, a differenza di altri che magari si concentrano su particolari sicuramente belli a vedere, ma che a volte sono fini a se stessi. Per vincere applica contro ogni singolo avversario una tattica in gradi di metterlo alle corde e quando il Piano A non funziona, si opta per il Piano B, ovvero alzare ancora di più il livello del proprio tennis e sfruttare al massimo ogni singola risorsa che madre natura e il duro allenamento gli hanno conferito. Anche questo si chiama talento, forse meno da applausi rispetto a quello di un Federer o un McEnroe, ma altrettanto da lodare. Un talento che oggi l’ha portato a vincere ben sessantatré tornei ATP, tra cui undici vittorie Slam e ben ventotto – leggasi ventotto – Masters 1000 vinti.

Lo sport è fatto anche da grandi e incontrastati domini, da campioni che vincono tutto, lasciando solo le briciole agli avversari. Il tennis in tutto ciò non fa differenza, vince sempre il più forte, non chi vuole quello o quell’altro e al momento il più forte ha un nome e cognome di chiare origini slave: Novak Djokovic!

(un particolare ringraziamento, per il suggerimento inconscio alla lettrice “ellei”. Con tante scuse per il ritardo)

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