“Io, la Serena in carrozza” (Pasini)

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“Io, la Serena in carrozza” (Pasini)

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Io, la Serena in carrozza” (Giorgio Pasini, Tuttosport)

«Mia mamma diceva sempre: tu nelle vene non hai sangue, ma palline gialle». Palline da tennis. Giulia Capocci da Arezzo, 24 anni, bionda con gli occhi color nocciola sempre in movimento come le mani, ce lo racconta seduti a un tavolino sotto gli alberi dello Sporting, il Circolo della Stampa torinese dove ha appena visto la tedesca Katharina Kruger, che sabato l’aveva eliminata in semifinale, vincere il 14° Trofeo della Mole. Giulia non ha bisogno della sedia: da tre anni e mezzo è un tutt’uno con la sedia a rotelle. E la versione inclinata con quattro piccole ruote davanti e dietro le serve per giocare. Tennis in carrozzina. «In carrozza», puntualizza Giulia. Pianeta disabili, fra un mese anche alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro. Lei non ci sarà. «Non ho il ranking, si qualificavano le prime 24 del mondo. Io sono 39 e ora salirò ancora, ma gioco solo da otto mesi». Nel primo torneo (Padova, dicembre) c’erano solo due donne iscritte, così l’hanno messa nel tabellone maschile: vinto, battendo in finale Francesco Zola. «Come la Navratilova? No no, io con gli uomini non ci voglio giocare. Allenarmi sì, ma partita no. Sono troppo forti». Quello della Mole era il suo 15 torneo. Ha eliminato (sempre in rimonta) la n.24 (la tedesca Spaanska) e la n.15 del mondo (la russa Lvova). A Rio ci andrà Marianna Laura, la pioniera in Italia del tennis in carrozzina, battuta una settimana fa nella finale dei tricolori, sempre a Torino (Monviso). «E’ stato il primo match in cui ho sentito di essere tornata a essere me stessa sul campo – racconta Giulia -: cattiva e fastidiosa anche nell’atteggiamento, così come quando giocavo in piedi. Capace di innervosire l’avversaria e di esaltarmi facendo il pugnetto dopo un punto o incoraggiandomi a voce alta nei momenti di difficoltà dell’avversaria. Le Paralimpiadi? Mi rifarò a quelle di Tokyo nel 2020. E se Roma 2024 dovesse farcela, sarebbe una figata»• Pensare che fino a un anno fa neanche conosceva lo sport paralimpico. «Al massimo avevo sentito la vicenda di Pistorius. Io giocavo in piedi ed ero già diventata istruttrice. Poi a marzo 2013 mi sono rotta il menisco in campo. Mi opero, tre anestesie epidurali. Dopo tre mesi perdo sensibilità della gamba, dal piede fino all’anca. Nessun medico (ben 37 consultati, ndr) riesce a darmi una spiegazione. Vado in depressione, divento apatica». La svolta un anno fa. «Un amico mi porta a vedere un torneo di tennis in carrozza, faccio amicizie e inizio a girare con qualche giocatore». Al circolo Giotto di Arezzo l’aiutano grazie ai consigli e ai video del ct azzurro Alberto Setti. «In piedi avevo bel servizio e dritto, e appena possibile scendevo a rete», racconta. «Ora la rete è il mio punto debole. Il problema maggiore, rispetto al tennis in piedi, è stato imparare a muovere la carrozzina, ma saper giocare a tennis mi ha aiutato tantissimo». Inizia una nuova vita, ma sempre con le palline nel sangue. Picchiandole, urlando. «Mi ispiro a Serena Williams. Sono cresciuta con lei. La prima partita che ho visto in televisione è stata la finale di Roma contro la sorella. Una battaglia. Lì mi sono innamorata di lei. Perché tirava forte. E per il carattere. Non molla mai. Come me. Sì, vorrei essere la Serena in carrozza». In testa ha già in mente il progetto Tokyo 2020, appunto. Ma non solo. «Vorrei aprire un’Accademia di tennis in piedi e tennis in carrozzina. Una scuola per l’agonismo sull’esempio di quelle di Riccardo Piatti o Giorgio Galimberti. Adoro stare con i bambini e insegnare, dare indietro qualcosa. Il tennis in carrozza, nella disgrazia, mi sta permettendo di vivere il tennis, la mia più grande passione. E a livelli che da in piedi non avrei mai potuto raggiungere».

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