Peccato Roberta, niente miracolo a New York (Lopes Pegna). Vinci, i miracoli sono finiti: in semifinale va la Kerber (Piccardi). Le storie di Caroline, Anastasija e Roberta (Giua)

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Peccato Roberta, niente miracolo a New York (Lopes Pegna). Vinci, i miracoli sono finiti: in semifinale va la Kerber (Piccardi). Le storie di Caroline, Anastasija e Roberta (Giua)

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Peccato Roberta, niente miracolo a New York (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)

Si è alzata, ha messo il piede giù dal letto e ha capito subito che i dolori (tendine d’Achille e schiena) non se n’erano andati con l’oscurità della notte. Allora il primo pensiero del giorno di Roberta Vinci è andato ai suoi sostenitori, tantissimi, con un tweet dolcissimo: «Non so cosa accadrà oggi, ma so che il supporto di tutti voi italiani scenderà in campo con me». Perché i momenti di difficoltà sono quelli in cui devi scavare dentro te stessa. Sentirti simbolicamente abbracciata da chi ti vuole bene, stringere i denti, cambiare vestiti e indossare quelli da Wonder Woman. Lo farà, eccome se lo farà. Racconta: «E poi devi immaginarti cose belle. Mi sono detta: “Roberta ti vai a giocare il quarto di finale con la numero due del mondo: goditi l’attimo». Come il trionfo nella semifinale dell’anno passato qui a Flushing contro Serena Williams: la numero 43 che batte la numero uno. Epico. Da allora ha scalato 35 posizioni in classifica fino a numero otto, la ricompensa a un’intera carriera. «Il successo con Serena fu un miracolo, questo quarto un mezzo miracolo. Soprattutto per le condizioni fisiche».

Il campo è lo stadio Arthur Ashe, il catino del tennis più grande del mondo, come un anno fa. Alla scaramanzia crede moltissimo, Roberta. Ha cercato di ottenere persino l’identico numero di stanza di hotel. l’avversaria è una altrettanto tosta: Angelique Kerber, la numero due del ranking, appunto, con ambizioni da numero uno (lo sarà sicuramente se Serena non andrà in finale). Quest’anno, a parte l’eliminazione al primo turno di Parigi, ha vinto gli Australian Open battendo proprio Serena, si è spinta fino alla finale di Wimbledon (sconfitta dalla Williams) e ha conquistato l’argento olimpico. Una stagione esemplare. Ma con un difetto: la testa. Quella a volte smette di ragionare e la manda in confusione.

Roberta lo sa e alla vigilia avverte: «Le devo togliere certezze e serenità». E lo fa fin dal primo gioco, combattutissimo, in cui si procura un break con le cattive. Cede subito il servizio e si va al 2-2. Si vede che non riesce ad appoggiarsi bene sulla gamba sinistra, quella con il tendine infiammato, e il dritto patisce moltissimo. Ma il livello del suo tennis è salito di un paio di tacche rispetto alla sudata vittoria sulla Tsurenko. Al 5° game strappa la battuta alla Kerber, che piomba un po’ nello sconforto. Perché gli slice a ripetizione dell’italiana la mandano fuori giri. La tedesca ha davanti a sé un rompicapo di cui non possiede la soluzione: è il tipo di giocatrice bravissima a pizzicare le righe con le sue bordate, ma quando quelle palle finiscono fuori, allora subentra il panico. «Ero nervosissima, perché è sempre difficile affrontare Roberta», ammetterà dopo Angelique. Sembra che le manchi un piano B, quello da applicare in caso di emergenza. Basta un dato per capire: la Kerber, che aveva eliminato la Kvitova grazie anche a orto errori gratuiti, ne commetterà 22 soltanto nel primo set.

Già, il primo set. E’ un po’ come se fosse la linea del Piave: chi indietreggia, potrebbe non avere scampo. E l’italiana sa di avere un’autonomia limitata. I nervi della Kerber si scoprono ancora di più, quando lascia il servizio per la terza volta, questa a zero, e si trova spalle al muro sul 4-5. Ma l’incantesimo finisce lì, anzi tre punti più in là, sul trenta pari. Roberta comincia a sbagliare, anche per meriti della rivale. E’ mezzogiorno e qualcosa, non mezzanotte, e il vestitino da Wonder Woman si trasforma in una pesantissima corazza. Cede la prima partita per 7-5 con un fallo di piede («Mi sono arrabbiata molto, ma con me stessa: eravamo 040, non era una palla determinante», spiega) e nove giochi consecutivi; accumula la miseria di dieci punti nel secondo set che perde per 6-0. Si arrende, ma non è una resa. E’ la parola che non accetta: «Non ho mollato. Lei è salita e io sono calata. Certo c’era in testa il pensiero negativo che dovevo conquistare due set per vincere. Non dimenticate, Angeli-que è la numero due del mondo, è migliorata tanto e non sbaglia come un tempo». Le rimane l’onore delle armi: lo scrosciante applauso del pubblico, che nel settembre scorso si era innamorato di lei. Dice: «Se fossi stata meglio avrei potuto batterla? Chissà. Magari avrei vinto il 1° set e poi perso in tre (…)

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Vinci, i miracoli sono finiti: in semifinale va la Kerber (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

Certi miracoli (e che miracoli) riescono una volta sola. Roberta Vinci esce dall’Open Usa ai quarti con il cuore a pezzi, la schiena indolenzita e il tendine d’Achille in lacrime, come chi si era illuso che l’impresa-bis fosse possibile. C’è più tennis nel braccio destro di Robi che pesci nel mare, l’azzurra butta l’anima oltre la rete ma quello che le manca contro la tedesca Angelique Kerber, numero 2 del mondo che a fine settimana potrebbe scalzare dal trono sua maestà Serena Williams, è il corpo, fiaccato dalla stanchezza e dall’età. «Brutta roba la vecchiaia, ragazzi…». Niente semifinale (contro la vincente di Sevastova-Wozniacki) , magari con la prospettiva di una seconda finale consecutiva.

La sfida contro la tennista più bollente della stagione dura un set. Fatale a Roberta è il controbreak sul 5-4, dopo aver intelligentemente insistito con il rovescio in back sul dritto mancino della tedesca, fallosa ma più solida, più giovane (28 anni), più fresca. Il fallo di piede chiamato alla tarantina sulla seconda palla di servizio (« Mi sono arrabbiata con me stessa…») manda la Kerber 7-5 e da lì in poi, sfumata l’occasione e calata l’intensità, la Vinci assiste alla parata di colpi dell’avversaria (6-0), che sbuca nella seconda semifinale all’Us Open della carriera a cinque anni di distanza dalla prima. L’equilibrio del primo set è un’utopia nel secondo (solo 10 punti conquistati dall’azzurra), Roberta viaggia a fari spenti verso il ritiro (un bilancio verrà fatto alla fine della trasferta in Cina, con le lastre del tendine d’Achille ferito in mano: ha senso andare avanti per un’altra stagione, con il motore ingolfato da 33 anni d’età e dal logorio del tennis moderno?), zavorrata da un’autonomia limitata (…) Lunga vita all’ultima veterana del nostro tennis, la magnifica vecchietta capace di far tremare il braccio alle migliori e di far palpitare, sempre e comunque, noi.

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Le storie di Caroline, Anastasija e Roberta (Claudio Giua, repubblica.it)

Quante storie di donne. Vorrei raccontarle tutte nel giorno che vede andare a vuoto il primo attacco dei francesi finalizzato a impedire a Novak Djokovic di raggiungere la finale dello Slam d’America. Il serbo numero 1 al mondo ha infatti facilmente ragione di Jo-Wilfried Tsonga, che si ritira per infortunio all’inizio del terzo set dopo aver perso i primi due per 6-3 6-2. Venerdì il secondo blitz anti-Nole dei transalpini avrà come protagonista il veterano Gael Monfils, che nell’altro quarto di finale di ieri spegne gli entusiasmi del giovane Lucas Pouille (6-4 6-3 6-3), appagato dalla vittoria su Rafa Nadal. Per il serbo sarà la decima semifinale a Flushing Meadows in dieci anni.

Le storie che piacciono a tutti, anche a me, raccontano di chi cade e si rialza. Come quella di Caroline Wozniacki, danese, che fu numero 1 al mondo per un anno tra il 2011 e il 2012 per poi quasi scomparire dai radar sportivi anche per colpa di una clamorosa vicenda personale: l’umiliazione mediatica globale del matrimonio saltato all’ultimo giorno con il campione irlandese di golf Rory McIlroy, annunciato via sms. Poi un lento declino che l’ha via via esclusa dal novero delle migliori, fino a farla precipitare nel limbo oltre quota 70 del ranking WTA.

La semifinale degli UsOpen (dove è stata finalista nel 2009 e nel 2014) sancisce il suo ritorno tra le Top 30. Però all’orizzonte si intravedono nuove nubi. Alla vigilia della vittoria di ieri Piotr, ex buon calciatore polacco, ha detto che a fine stagione la figlia potrebbe ritirarsi, a 26 anni. Perché? “Per iniziare una nuova carriera”, è stata la risposta. La verità sta altrove: persino al massimo livello, quello che ti garantisce milioni di euro l’anno tra premi e sponsorizzazioni, i sacrifici che il tennis pretende possono risultare insopportabili.

Lo testimonia la storia dell’avversaria di Caroline, Anastasija Sevastova, tanto sfortunata ieri da infortunarsi quando è alla prima risposta al servizio: scivola e si fa male alla caviglia destra. La partita (6-0 6-2) finisce di fatto lì. Cresciuta tennisticamente in Germania e Austria, a metà 2013 anche Anastasija annunciò il ritiro a causa “delle continue malattie, degli infortuni e di altri problemi. Non mi sento competitiva per uno sport così complesso”. Aveva 23 anni e tornò a studiare management. Un anno dopo, in sordina, riprese a giocare in Bundesliga, la ricca serie A tedesca. Poi tanti tornei da 10mila dollari in su. Quest’anno, tornata tra le Top 100, Anastasija ha giocato le finali di Maiorca e Bucarest. Prima del guaio di ieri, a New York aveva eliminato clamorosamente Garbine Muguruza al secondo turno, poi Kateryna Bondarenko e la forte australiana-britannica Johanna Konta. Sentiremo ancora parlare di lei.

Ma le storie dei vicini di casa sono sempre le più intriganti. Va raccontata quella di Roberta Vinci nelle 46 ore e mezzo trascorse tra la vittoria di domenica e il ritorno in campo ieri per il suo quarto di finale. Tormentata dal dolore alla gamba sinistra e dall’ansia di non essere al massimo della forma, la vicecampione uscente degli UsOpen s’allena poco. “Ho sognato di svegliarmi in condizioni perfette”, dice in mattinata. Invece il tendine d’Achille non le dà tregua, impedendole perfino di provare qualche soluzione tattica con il coach Francesco Cinà. Eppure quando torna nell’Arthur Ashe Arena contro la giocatrice più forte della stagione, è motivata e dà spettacolo. Una grande professionista. Perde, ma non deve angustiarsi. Se un tennista si piazza quattro volte in cinque anni tra i migliori otto degli UsOpen, merita d’essere considerato un superspecialista del DecoTurf di Flushing Meadows, che chi è cresciuto sulla terra rossa di solito odia quanto l’erba. Con un record così si diventa per definizione un campione senza se e ma.

A un anno dalla finale contro Flavia Pennetta, suo miglior piazzamento in uno Slam, Roberta lotta come sa contro Angelique Kerber. La tedesca, da lunedì – e almeno per questa settimana – numero 1 al mondo, per 54 minuti è costretta a consentire alla tarantina di sviluppare la sua trama fatta di cambi di ritmo e di peso della palla. Rischia addirittura di cedere il set quando si trova a rispondere sotto per 4-5, ma poi si prende il game spingendo come una forsennata. Un piccolo incidente chiude il set a favore di Angelique: Roberta è al servizio, sotto per 6-5 40-0, quando il giudice di linea le chiama un fallo di piede sulla seconda palla. Per quanto mi sforzi, non rammento alcunché del genere in un Slam. Il secondo set non ha storia, 6-0 in 24 minuti. L’esclusione dalla semifinale non toglie nulla alla numero 1 d’Italia, che da oggi e per sempre va considerata al livello delle coeve Francesca Schiavone, Flavia Pennetta e Sara Errani (…)

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