Considera l’aragosta, Einaudi, Torino, 2006, tr. A. Cioni e M. Colombo, (2005)
Pochissimo tennis in un gran libro. Appena sedici pagine su Tracy Austin su un monte pagine di quasi 400. A metà tra un saggio divertito e un’esperimento di scrittura acrobatica, “Considera l’Aragosta” è un viaggio di sola andata nel ventre molle dell’America. Un’eccezionale radiografia di una superpotenza, decadente, grottesca e lanciata a tutta velocità verso una felicità suicida, fatta dal suo figlio più candido e intelligente.
Il libro è composto da dieci pezzi che vanno dal mondo del porno all’11 settembre (visto da casa della Sig.ra Thompson), passando per la campagna elettorale del senatore McCain (5), dalla biografia tennistica di Tracy Austin e davvero molto mooolto altro[1].
Ma rimaniamo nel perimetro del tennis. “Come Tracy Austin mi ha spezzato il cuore”, (da pag 153 a 168) è una biografia di, e su, Tracy Austin, la prima baby prodigio del tennis moderno. Wallace riflette sul perché una storia così eccezionale si traduca in pagine così banali (come la maggior parte delle biografie dei grandi sportivi). Per chi è troppo giovane per ricordala, Tracy Austin fu una specie di terremoto nel mondo del tennis. Quando vinse, a soli 14 anni, un torneo professionistico fu per Wallace una specie di choc irreversibile. Aveva capito, con la dolorosa violenza dei pensieri adolescenziali, che là fuori, nel mondo, c’era qualcuno davvero bravo e che lui semplicemente non lo era, e non lo sarebbe stato mai. La parabola di Tracy Austin bruciò poi davvero in fretta, vinse uno US Open all’età di 16 anni e 9 mesi, arrivò addirittura al numero 1 in classifica l’anno successivo per poi smettere per problemi fisici a soli 21 anni. Sarebbe già una buona storia se non fosse che all’età di 26 Tracy cercò di rientrare nel tennis ma venne investita da un pirata della strada che mise fine per sempre alla sua carriera.
Bene, com’è possibile che una storia così tragica, e gravida di destino, risulti poi così banale? È questa la domanda attorno a cui gira tutto il pezzo. La risposta che ci dà Wallace, al di là delle mere logiche editoriali, è che “coloro i quali mettono in pratica il dono del genio atletico debbano, di necessità, essere ciechi e muti al riguardo, non perché la cecità e il mutismo siano il prezzo di quel dono, ma perché ne sono l’essenza”. In sintesi siamo noi, solo noi, che apprezziamo fino in fondo quel dono, non loro. È paradossale ma in quest’ottica i grandi tennisti sono praticamente dei medium inconsapevoli. Per Federer esplodere quei colpi è normale, è la cosa più semplice del mondo, è solo per noi che li vediamo, e che mai potremmo farli, che risultano così eccezionali e che ci suscitano tante emozioni. La celeberrima riflessione su “Federer come esperienza religiosa[2]” trova in queste poche pagine il primo nucleo argomentativo ed è a posteriori la più grande qualità del pezzo. “Jordan sospeso a mezz’aria come una sposa di Chagall, Sampras che assesta una volée a un’angolatura che sfida Euclide. Negli atleti di livello mondiale c’è una bellezza trascendente che rende manifesto Dio nell’uomo. Sono profondità in movimento…”. Ma la magia è più una qualità negli occhi di chi guarda che nei loro. In fondo è Federer stesso a dare ragione a Wallace. Davanti ad una domanda su come facesse a rispondere ai servizi bomba di Ancic, lui rispose candidamente che dal campo non vedi la velocità, vedi solo la pallina. La questione del talento gira tutta intorno a questo piccolo paradosso.
[1] Per una recensione dell’intero volume, con adeguato spazio ai vari temi vedi https://ubitennis.com/sport/tennis/2011/03/12/453656-verso_antropologia_presente.shtml. Il reportage sugli oscar del porno è da applausi.
[2] https://www.ubitennis.com/blog/2014/11/24/wallace-federer-sampras-tennis-come-esperienza-religiosa/
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