180 secondi con il Direttore: a Singapore Kerber e Halep di fronte oggi e in finale?
È che sembra siano passati vent’anni. Poi, pensandoci bene, ti accorgi che vent’anni sono quasi passati davvero. La cosiddetta Race, ossia la gara per accaparrarsi i posti ai tornei che in autunno raggruppano i migliori professionisti del settore, non li riguardava mai. Nemmeno quando, nei primi spensierati anni passati sotto i prepotenti riflettori dello star system, il loro status non era ancora consolidato. Roger e Rafa, Serena e Maria erano le sicure presenze negli eventi di fine stagione e semmai le incertezze riguardavano gli altri, gli sfidanti, che assomigliavano anche un po’ a degli sparring partner di lusso nell’immaginario collettivo della folla adorante. Ma in fondo a nessuno importava granché: quelli che contavano erano loro e loro soli e le Finals, in compagnia dei grandi tornei tutti, hanno vissuto annate grasse sugli allori di un periodo d’oro perpetuato e glorificato dalle inattingibili regine e dai Re Mida della pallina gialla.
La prima a segnare il territorio fu Serena, nel 2001, a vent’anni appena compiuti, in quel di Monaco di Baviera. In realtà la Williams giovane vantava i diritti già da un paio di stagioni, ma i primi infortuni dell’allora verdissima carriera e gli iniziali sintomi dello scarso attaccamento a tutto ciò che non profumasse di major agevolarono l’assenza di Miss 22 slam nelle edizioni del 1999 e del 2000. E Roger, oh Roger. Il premio Nobel svizzero all’eleganza ha iniziato a zampettare sul veloce indoor, che a quei tempi era carpet e dunque veloce per davvero, nell’edizione del 2002 a Shanghai. Che malinconia vedere quelle immagini. Il campo striminzito per l’assenza dei corridoi del doppio come ai tempi usava in manifestazioni di quel genere; Lleyton Hewitt dall’altra parte a difendere come un ossesso fino a battere in semifinale il Divo. Il Divo medesimo, sconfitto ma intento a preparare i futuri trionfi, sei, manco a dirlo record assoluto, che chiudeva a modo suo l’epoca lunga un secolo in cui le superfici determinavano in modo ferreo il modo di giocare al gioco del tennis: quando entrava la prima, Federer scendeva una volta sì e la volta dopo anche, per giocare volée baciate dal Dio del feltro. E poi back di rovescio eseguiti a occhi chiusi, accelerazioni sospinte da una ritorno di braccio con pochi precedenti nella storia della disciplina, il tutto a velocità supersonica. Che tempi, quei tempi. Periodi di cambiamento epocale, in cui lo spartiacque della storia veniva percepito in tutta la sua imponenza. Il campione della racchetta smetteva di essere anche un conseguente prodotto commerciale, destinato com’era a divenire di lì a poco un marchio globale che incidentalmente sapeva anche interpretare a meraviglia l’arte del diritto e del rovescio: così le folle iniziavano a muoversi per ammirare Maria Sharapova, diciassettenne campionessa di Wimbledon e regina alle Finals nell’esordio losangelino del 2004, per il semplice fatto che di Maria Sharapova trattavasi: da quel momento in avanti, che scutrettolasse sul rettangolo di gioco, passeggiasse su una passerella o sedesse dietro a una scrivania intenta a presentare un nuovo marchio di dolciumi recanti il proprio attraente nome sarebbe stato quasi del tutto indifferente.
Rafa Nadal, l’ultimo degli altissimi quattro a portare fama e soldoni alle finali, in predicato di esordire nell’edizione del 2005 fu costretto a rinviare il debutto a causa del bizzoso scafoide tarsale che lo inquietava in quei giorni, prologo di un rapporto problematico con l’evento di fine stagione che lo rende l’unico del quartetto d’oro a non aver mai sollevato il trofeo. Rafa in autunno ha sempre tentennato, e al chiuso boccheggia per tradizione. Egli lamenta da tempo immemorabile l’irrispettoso trattamento riservato ai draghi della terra battuta, e in effetti le geremiadi del maiorchino potrebbero non essere del tutto peregrine, perché “la superficie su cui si elegge il maestro dell’anno non può essere sempre la stessa“. Un concetto su cui è sempre aleggiata l’accusa di vittimismo, ma su cui forse mai si è riflettuto abbastanza.
Sia come sia, gli atenei dove si distribuiscono i diplomi novembrini, nel frattempo traslocati a Singapore e Londra, paiono vuoti. Per la prima volta in quindici anni, Roger, Rafa, Serena e Maria saranno contemporaneamente assenti, e la sensazione di nulla esistenziale angustia un po’ tutti. Prede a deliquio mistico, molti affezionati provano a lenire il dolore dell’anima chiamando in causa il destino, generoso nel metterci alla prova; nel prepararci al momento in cui, vicino e irremeabile, il tempo e gli acciacchi porteranno via per sempre gli indiscutibili fari di un movimento che solo gli inguaribili ottimisti reputano in grado si sopravvivere a perdite tanto dolorose. Questi ultimi sottolineano come in oriente la nuova regina venuta da Brema sia intenta a puntellare la rivoluzione dopo il colpo di stato che a New York ha destituito la tiranna Serena, peraltro parsa disinteressata a restaurare checchessia, e non mancano di far notare che a Londra potrebbe andare in scena l’atteso duello finale per il trono del ranking ATP tra l’esausto Nole e il genius loci Andy. Tutto vero, ma qualcosa manca. Certo, in nessun campo dello scibile come nel tennis la sentenza “morto un re se ne fa un altro” ha valore assoluto e inattaccabile: ci affezioneremo a Zverev, alla nuova tribù australiana e a CiCi Bellis, ma prima che i riflettori tornino a illuminare con la stessa intensità il nostro sport dovrà forse passare del tempo. Non è detto che sia un male, peraltro. Non ci crediamo molto, ma nell’attesa del giorno in cui nascerà il nuovo messia in grado di rapire l’immaginario collettivo sovrapponendo la propria immagine a quella del prodotto-tennis, e per questo in grado di vendere da solo il prodotto medesimo, chissà che i comandanti della nave non decidano di perseguire strade diverse per rendere il vecchio feltro parimenti appetibile. Un’idea potrebbe essere proprio quella di variare le superfici di gioco delle Finals, sparigliando così le carte e facendo finalmente felice l’abbacchiato Rafa. Peccato che per Rafa, a quel punto, potrebbe essere troppo tardi. Sempre che non sia già tardi ora.