Mr. Haggerty e il delitto perfetto

Editoriali del Direttore

Mr. Haggerty e il delitto perfetto

Ad Orlando ad agosto si deciderà la fine o meno della Coppa Davis (almeno nella formula attuale). Riuscirà il presidente ITF nel suo intento? O rimedierà una nuova brutta figura come l’anno scorso?

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Abbiamo più volte scritto nell’ultimo periodo di come l’ITF nella persona soprattutto del presidente David Haggerty stia cercando di modificare a tutti i costi il format dell’attuale Coppa Davis, competizione con una storia di 117 anni e dalla grandissima tradizione e (ci permettiamo di aggiungere) fascino. Al di là delle opinioni puntualmente riportate dei vari tennisti, capitani e giornalisti, anche lo stesso direttore Scanagatta ha in un paio di occasioni detto la sua tirando scherzosamente in ballo il sottoscritto (che in redazione è soprannominato Patria-man per lo sviscerato amore verso i tennisti italiani e le competizioni a squadre, Davis e Fed, per le quali ho il piacere di essere responsabile per Ubitennis). È chiaro che avere passione per un evento e leggere di tentativi di modificarla (o forse sarebbe meglio dire stravolgerla) non fa mai piacere, anzi, ti prende un senso di ribellione. Così come è anche vero che i continui tentativi in questa direzione devono comunque far riflettere e forse comprendere che qualche accorgimento andrebbe apportato. Inoltre nell’analisi di tutto ciò andrebbe anche valutato tutto il contesto del mondo del tennis negli anni 2000 e partendo da qui fare le opportune considerazioni.

Vediamo di provarci con questo articolo. Partiamo da dove eravamo e dove siamo arrivati tennisticamente parlando. Siamo passati dalle racchette di legno e da un tennis diciamo semi-professionistico ad attrezzi fantascientifici, tecnologicamente all’avanguardia, ad un gioco supersonico rispetto a quello di soli 30 anni fa, a tornei che si susseguono senza lasciarti un attimo di tregua, a superfici nel corso del tempo modificate quasi per renderle (stiamo estremizzando) uniformi (la cosidetta “terba” o superfici veloci ma in verità molto “lente). Siamo passati da 3 slam sull’erba ad uno, siamo passati dalle finali tutte sulla distanza del 3 su 5 a finali tutte sulla distanza del 2 su 3 (eccezion fatta per gli Slam e per la Davis). L’apoteosi di questo cambiamento l’abbiamo vista nel torneo Next Gen giocatosi a Milano lo scorso dicembre: giudici di linea elettronici (altro che Var nel calcio), set a 4, no let sui servizi, no vantaggi e via dicendo. Certo era un esperimento, ma il timore e che si possa procedere in questa direzione nel futuro.

Ma perché tutti questi cambiamenti? Beh, innanzitutto perché il tennis da sport di nicchia si è evoluto in sport diffuso. Inoltre nel corso del tempo gli sponsor, gli introiti, i soldi che girano attorno a questo mondo sono cresciuti a dismisura (e non dimentichiamoci anche dell’affare delle scommesse che poi hanno di conseguenza portato altri problemi). Vogliamo poi parlare dei soldi delle TV e quindi dell’interesse delle stesse ad avere un ruolo decisivo negli orari, nella programmazione dei match e così via. Ecco allora che il tennis non viene visto più in funzione del gioco in sé per sé ma in funzione di quanti soldi in più può far fruttare a tutti i vari attori in gioco. Tutto ciò rischia però di far deragliare il sistema in nome del famoso Dio Denaro. Qualcuno potrebbe dire, bella scoperta! Vero, il problema sarebbe rendersene conto in tempo.

Non si capisce come un tennista terraiolo puro come Guillermo Vilas giocasse più di 120 partite in un anno mentre oggi si contano più tennisti infortunati che sani (soprattutto tra i migliori). Si dirà, si ma oggi gli attrezzi ed il tennis sono cambiati. Corretto, ma non è che oggi le riabilitazioni e i recuperi da infortuni vari vengano accelerati oltremodo per non perdere la possibilità di racimolare qualche dollaro in più? C’è pure da dire che una volta si giocavano tutte le finali dei vari tornei 3 su 5, oggi come scritto prima tutte (o quasi) 2 su 3. Si sostiene che questa misura è stata presa per evitare che chi giochi una finale dispendiosa 3 su 5 in un torneo non sia poi costretto a rinunciare a quello della settimana successiva, asserendo oltretutto che il pubblico sugli spalti (e anche a casa) non gradiscano di base tempi lunghi per assistere ad un evento sportivo. Ma ne siamo proprio sicuri? Sarei curioso di chiedere ad uno spettatore della finale del Foro Italico tra Federer e Nadal del 2006 se si fosse in quell’occasione annoiato. L’impressione (da parte di chi scrive) è che l’ATP sappia di rappresentare un movimento che produce tanti soldi e che faccia di tutto per tirare acqua al suo mulino. Ci sta, però poi bisognerebbe anche porsi dei limiti, perché alla fine si fa di tutto per favorire i giocatori e le loro esigenze ma poi in molti tornei i draw sono zoppi e di limitato valore tecnico ed allora tanto vale tornare al tennis di una volta.

Il ragionamento fatto per il tennis vale di conseguenza anche per la Davis. E’ vero, fino forse a tutti gli anni ’90 la competizione era onorata da tutti i migliori, poi pian piano l’interesse è andato da parte degli stessi scemando, soprattutto da parte di chi semmai l’ha vinta e quindi ha raggiunto il suo scopo. In parte ciò è corretto, fermo restando che Murray ha continuato a giocarla se in forma anche dopo averla vinta, Djokovic dopo averla vinta l’ha difesa l’anno successivo e poi ha giocato in altre occasioni (oltretutto giocando un’altra finale), Nadal è stato da poco convocato per i quarti di finale contro la Germania sulla terra di Valencia. Così come è vero che al netto di polemiche interne alle squadre i migliori francesi sono sempre presenti e lo stesso vale per i croati o per gli americani.

Il presidente Haggerty rispetto al forse eccessivo immobilismo del suo predecessore, l’italiano Ricci Bitti (che nella sua ultima audizione all’ITF pregò di salvaguardare la tradizione della manifestazione) si è votato completamente alla rivoluzione della Davis. Primo tentativo, format quasi immutato, tutti i singolari sulla distanza del 2 su 3, doppi 3 su 5, competizione su due giorni. Sicuro del fatto suo il presidente portò la proposta in consiglio ma non raggiunse il quorum richiesto (2/3 dei votanti). Tramite però una sorta di stratagemma la proposta è stata comunque adottata per i vari raggruppamenti zonali mentre non è stato toccato il World Group. Haggerty però da vero uomo business ha fiutato l’errore ed allora eccolo tornare alla carica con una proposta stavolta davvero rivoluzionaria, ma soprattutto portatrice di tanti soldi (il famoso Dio Denaro di cui sopra), da dividere tra federazioni. Fautore di questa idea la multinazionale Kosmos appoggiata dalla giapponese Rakuten. Il progetto lo sapete un po’ tutti, tutte le gare racchiuse in una sola settimana in un’unica sede, 16 nazioni partecipanti più 2 wild card e così via. Insomma, in un solo colpo, via il fattore campo, via il 3 su 5, via 3 week-end su 4 dedicati alla Davis nel calendario. Nella sostanza la fine della Coppa Davis che la tradizione ci ha fatto conoscere.

Una volta reso noto il progetto tutti gli attori hanno provato a dire la loro. C’è chi è favorevole, chi invece invoca il rispetto della tradizione della manifestazione e disapprova questa rivoluzione. Non ultimo il buon Lleyton Hewitt (“i soldi non possono essere tutto”). Più volte anche noi della redazione abbiamo discusso sulla Davis, sul suo Format, su eventuali cambiamenti da apportare. E’ chiaro che se la inseriamo nel contesto del mondo del tennis odierno qualcosa va cambiato, soprattutto sul calendario. Servirebbe una collocazione più concentrata dei vari turni, anche se giova dire che a suo tempo furono proprio i big a chiedere in una lettera all’ITF di giocare due turni della Davis nelle settimane immediatamente seguenti gli Australian Open (gli ottavi di finale del World Group) e gli US Open (semifinali e play-off). Ma ciò implicherebbe un dialogo incrociato ITF-ATP che come tante volte il buon Gibertini ha sostenuto non ci sarà mai e poi mai. E già qui emerge la prima crepa. In seconda battuta, al di là di assegnare punti ranking a chi la gioca si dovrebbe prevedere (visto l’andazzo che ha preso il sistema) anche dei montepremi da dividere ai giocatori, perché come sosteneva a suo tempo il nostro Direttore, la possibilità di percepire (non dalle proprie federazioni ma dall’ITF) denari forse smuoverebbe anche gli entourage degli stessi tennisti che oggi sono con ogni probabilità i primi a disincentivarne la partecipazione. Purtroppo sono lontani i tempi in cui si giocava per l’amor patrio e per la gloria.

Chiudiamo questa ampia parentesi riprendendo le dichiarazioni in esclusiva raccolte dai nostri inviati a Miami dal giornalista Jon Wertheim. Soprattutto il passaggio “in un mondo dove oggi si corre a 300 all’ora e impensabile chiedere a uno spettatore di assistere per oltre 3 ore ad un match di tennis tra un Cilic ed un del Potro (il riferimento è al singolare della finale di Davis di due anni fa, ndr). 90 minuti potrebbero bastare...”. Ecco, pensare che un bel match, ricco di colpi di scena, con il tifo acceso sugli spalti, debba avere per motivi commerciali una durata contenuta è un limite che secondo chi scrive stiamo dando a questo sport. In Davis (o in uno Slam sia ben chiaro) un match palpitante, emozionante, può durare anche 4 ore e più. Certo, tra i tanti incontri capiterà anche un Higueras-Barazzutti (per citare due giocatori che proprio non ispiravano il pubblico) o un Bemelmans-Fucsovics (singolare di uno degli ottavi della Davis di quest’anno), ma se in ballo c’è un punto decisivo in un match tra due nazionali si fa fatica a pensare che la partecipazione degli spettatori non ci sia. Anche perché in campo si difendono i colori nazionali ed il pubblico di casa a prescindere tifa (al contrario di ciò che può avvenire in un torneo). Riprendendo l’esempio precedente, un Bemelmans-Fucsovics di Davis ha ben altro seguito che un Bemelmans-Fucsovics in un qualsiasi torneo.

Come la chiudiamo allora la questione? Innanzitutto va condiviso pienamente il pensiero di Lleyton Hewitt, “se Haggerty non raggiunge la maggioranza richiesta con la nuova proposta farà bene a dimettersi”, perché se il presidente ITF nemmeno con l’appoggio dei soldi riesce a convincere la maggioranza del board vuol dire che se ne deve fare una ragione e che ha fallito. Al tempo stesso sarebbe il caso che se si decide di salvaguardare la tradizione della Davis nei suoi aspetti essenziali bisogna mettersi tutti attorno ad un tavolo e capire quali modifiche si possono apportare per facilitare la partecipazione dei migliori. Fermo restando (opinione di chi scrive) che non è detto che se non giochino Djokovic o Nadal una sfida di Davis non regali emozioni, colpi di scena o pathos. Certo sarebbe sempre meglio vedere i migliori in campo, ma il fascino di una competizione a squadre in uno sport tipicamente individuale non ha pari e la Davis ce lo insegna in ogni week-end che il calendario le dedica. Ma poi, siamo sicuri che con il nuovo progetto i cosiddetti “big” ci saranno sempre? Ci pensi signor Haggerty, ci pensi bene.

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