Djokovic: «Il trionfo a Cincinnati resterà il mio orgoglio. Ora gioco sulle nuvole» (Platero). La nuova Coppa Davis è realtà. Esordio sulla terra a Madrid (Schito). Cecchinato, che succede? «Scopre il cemento» (Semeraro). Tiafoe, Zverev & Co, alla conquista dell’America. E Sascha punta su Lendl (Cocchi)

Rassegna stampa

Djokovic: «Il trionfo a Cincinnati resterà il mio orgoglio. Ora gioco sulle nuvole» (Platero). La nuova Coppa Davis è realtà. Esordio sulla terra a Madrid (Schito). Cecchinato, che succede? «Scopre il cemento» (Semeraro). Tiafoe, Zverev & Co, alla conquista dell’America. E Sascha punta su Lendl (Cocchi)

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Djokovic: «Il trionfo a Cincinnati resterà il mio orgoglio. Ora gioco sulle nuvole» (Mario Platero, La Stampa)

Tutti sappiamo che Novak Djokovic ha fatto storia domenica a Cincinnati: battendo Federer in finale, è diventato il primo tennista a vincere almeno una volta tutti i 9 Masters 1000. Ieri a New York Djokovic ha tradotto la vittoria in un evento filantropico. Ha messo all’asta la racchetta con cui ha vinto a Cincinnati, l’ha firmata e con un orologio della Seiko l’ha messa in lotto all’asta mondiale di orologi di Christie’s, «Falling for Time» che si terrà on line fra il 6 il 20 settembre. I proventi andranno in beneficenza alla sua fondazione che aiuta bambini in età prescolare. Incontriamo Djokovic, e la prima cosa che colpisce di Novak è il sorriso, la qualità di star-antistar, lo sguardo accogliente. In contrasto con l’immagine sul campo quando gioca: labbra sottili serrate, sguardo intenso, concentrazione che lo mette in un’altra dimensione. Il complimento più bello dopo la partita è di Federer: «Novak ha fatto storia. Con Rafa è il favorito a New York».

Novak, come ci sente ad aver fatto storia nel tennis?

È uno dei momenti speciali della mia carriera, anche perché uscivo da un periodo difficile sul piano fisico. A Cincinnati avevo sempre perso contro Roger. Cercavo di non pensarci. La tensione è caduta solo dopo l’ultimo punto. Ora sono al settimo cielo. Questa vittoria sarà per sempre il mio orgoglio.

Perché la donazione della racchetta?

Perché questa vittoria non deve essere solo per me. Deve incoraggiare donazioni a chi ha bisogno d’aiuto. In Europa la filantropia è meno diffusa che in America. E’ anche un messaggio per diffonderla. La mia fondazione (Novak Djokovic Foundation, ndr) nasce nel 2007, oggi, con mia moglie Jelena che la gestisce, ci occupiamo di bambini in età prescolare, il momento più importante per formare carattere e gettare il seme della speranza. Moltissimi bambini in Serbia, in comunità molto povere soffrono. Li aiutiamo a giocare, a imparare. Per me è una fortuna poter contribuire al mio paese con l’aiuto di organizzazioni come Bizzi and Partners e Christie’s. Insieme si fa di più.

C’è un elemento personale in questa missione?

Certo. A quattro anni volevo diventare campione di tennis, a cinque volevo vincere Wimbledon. Quando ero più grande lo ripetevo e mi prendevano in giro. E grazie all’affetto dei miei genitori, ai loro valori, alla possibilità di sognare quando ero piccolo che ho fatto quello che ho fatto.

La Serbia soffre ancora, negli anni difficili il Pil è crollato da 24 miliardi di dollari del 1990 a 8 nel 2000…

Le sanzioni, i bombardamenti hanno lasciato il segno. Ricordo da piccolo le code per prendere le razioni di latte e di pane. Ricordo dopo i bombardamenti. Parenti di amici uccisi. Ho visto gente morire per strada. Di nuovo ho avuto fortuna, nessuno dei miei è stato colpito. Oggi le cose sono cambiate. Ma resta il ricordo e si deve dire: mai più. Puntiamo sui bambini di oggi perché se si sentiranno più sicuri costruiranno un futuro migliore.

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La nuova Coppa Davis è realtà. Esordio sulla terra a Madrid (Francesca Schito, Il Tempo)

La nuova Coppa Davis prenderà il via da Madrid. Manca solo l’ufficialità, ma il ballottaggio tra la capitale spagnola e Lille come sede della prossima edizione della fase finale della Coppa Davis sembra essere a favore dei madrileni. Quella della Davis sarà una vera e propria rivoluzione. Il board dell’ITF ha approvato la riforma della competizione, trasformandola radicalmente su proposta del gruppo Kosmos capitanata da Gerard Piquè, ideatore del nuovo format. A convincere la Federazione Internazionale Tennis a intraprendere questa nuova strada, poco amata per il momento dal pubblico e dai tennisti, è la sponsorizzazione del gruppo traducibile in un contratto venticinquennale da 120 milioni a stagione. La formula attuale verrà completamente stravolta, con la trasformazione in un evento simile alla Coppa del Mondo di calcio: le fasi finali si svolgeranno in un settimana in un’unica sede – nel caso dell’esordio, come detto, Madrid – dopo Atp Finals, con 18 nazioni partecipanti. Ad accedere a questa fase finale saranno le prime quattro classificate della stagione precedente e le dodici nazionali che usciranno vincitrici dal playoff che si svolgeranno indicativamente tra gennaio e febbraio, oltre a 2 squadre invitate dal comitato organizzatore. Dodici incontri, cinque match – quattro singolari e un doppio – nell’arco di due giorni e sfide che si giocheranno al meglio dei tre set con tie-break sull’eventuale 6-6 del terzo set. Addio dunque agli incontri fiume che sono il simbolo di questa competizione: nel cuore dei tifosi azzurri rimane indimenticabile una delle partite manifesto di questa competizione, quella che ha visto Andrea Gaudenzi, nella finale contro la Svezia al Forum di Milano, cedere il primo singolare a causa della rottura del tendine della spalla, quando era avanti 6-5 al quinto set e servizio. Partite come quella, l’ultima finale dell’Italia andata in scena vent’anni fa, non ce ne saranno più. Una scelta che va a discapito del pubblico ma che tutela il campione, limitando il rischio infortuni e il troppo gravoso impegno con la rappresentativa nazionale. Nel 2019 parteciperanno ai playoff le quattro squadre eliminate ai quarti nel 2018 – Italia, Francia, Belgio e Kazakistan – più le otto squadre che si aggiudicheranno il prossimo settembre i playoff del World Group, le migliori sei della regione Euroafricana e le migliori tre delle regioni delle Americhe e Asia-Oceania. «Non si dovrebbe più chiamare Coppa Davis, spero smettano di chiamarla così» è il pensiero di Severin Luthi, capitano delle nazionale svizzera che ha guidato Roger Federer e Stan Wawrinka alla conquista del trofeo nel 2014. «E una grande tradizione che si è persa ed è molto triste tutto ciò. Dobbiamo però dare una nuova opportunità a questa competizione, che non sarà più la Coppa Davis».

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 Cecchinato, che succede? «Scopre il cemento» (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

L’estate in città è la stagione dei lavori in corso, ma anche ai tennisti capita di sbattersi sul cemento. Ad esempio a Marco Cecchinato, che dopo la clamorosa semifinale al Roland Garros, i due tornei sulla terra vinti a Budapest e Umag, e la semifinale sul verde di Eastbourne, è scomparso dal radar dei grandi risultati. Sull’asfalto americano è arrivata infatti la prima vera pausa del 2018, tre primi turni di fila uno dopo l’altro: a Toronto contro il Next Gen americano Frances Tiafoe (n.41 Atp), a Cincinnati con il francese Adrian Mannarino (n.28), a Winston Salem contro il tedesco Jan-Lennard Struff «Sono stati però tre buoni match, contro tre specialisti del cemento, fra l’altro in due occasioni in tornei Masters 1000, che sono anche più competitivi degli Slam», analizza il coach di Cecchinato, Simone Vagnozzi, che ieri era già a New York dove lunedì partono gli US Open, mentre Marco è rimasto a Winston Salem per giocare il doppio con Andreas Seppi. «Tiafoe nel turno successivo ha superato Raonic, e contro Mannarino Marco ha avuto anche un match-point a favore. Certo, perdere dispiace, e battere Mannarino sarebbe stata una iniezione di fiducia, ma sono partite che servono a fare esperienza e a gettare le basi per l’anno prossimo». Un progetto confermato anche da Max Sartori, lo storico coach di Andreas Seppi, che Cecchinato lo conosce bene. «A inizio carriera il cemento Marco lo rifiutava proprio. Adesso invece ha accettato di giocare tanti tornei di fila su quella superficie, per completare il suo gioco e non limitarsi ad essere competitivo solo sulla terra». Dopo gli US Open in calendario per lui ci sono la tournée asiatica, quindi il cemento indoor di fine stagione con San Pietroburgo, Mosca, Vienna e Parigi-Bercy. Una full immersion che dovrà servirgli a padroneggiare un linguaggio tecnico diverso. «Sulla terra Marco ha delle certezze a cui aggrapparsi, sul cemento non è ancora così. Anche se contro Mannarino nel terzo set ha perso appena 5 punti sul proprio servizio, ed è stato sempre in partita anche con Struff». Il servizio sul “duro” è fondamentale. Cecchinato è in grado di battere regolarmente attorno ai 180-200 km/h. Per evitare di farsi (letteralmente) asfaltare, deve giocare di più con angoli ed effetti, utilizzando come già sa fare il servizio in “kick” (che rimbalza alto e tiene lontano dal campo chi risponde) e affidarsi più spesso allo “slice” (il servizio tagliato ad uscire). «Inoltre sulla terra Marco risponde da più lontano, mentre sul cemento deve stare più vicino alla riga di fondo, aggiunge Vagnozzi. A New York bisognerà arrivare con i compiti già fatti: «Sarebbe fondamentale vincere il primo match, ma dipende anche dal sorteggio: speriamo di non incappare in uno specialista».

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Tiafoe, Zverev & Co, alla conquista dell’America. E Sascha punta su Lendl (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Ammettiamolo. La Next Gen spinge, ma la «old gen» è ancora lì a spartirsi quasi tutto il bottino. Prova ne sia la riedizione, a due anni e mezzo di distanza dall’ultimo incontro, di una finale tra il 37enne Federer e il 31enne Djokovic. Va bene che il Magnifico non si discute, così come non si discutono il serbo e il 32enne Nadal numero 1 al mondo, ma l’unica eccezione tra i primi 10 è Alexander Zverev, che, con i suoi 21 anni compiuti ad aprile, guida sì la Race to Milan ma è anche numero 4 al mondo tra i «grandi». Sascha è cresciuto in fretta e sebbene manchi ancora un Slam nel suo giovane e ricco palmarès, porta da sempre le stimmate del predestinato numero 1. E in più, dopo un allenamento di prova a Orlando, Zverev ha ufficialmente ingaggiato Ivan Lendl. Un annuncio molto low profile con un semplice post su Instagram: «Benvenuto nel team, Ivan Lendl», un segnale forte di quanto il tedesco voglia togliere lo zero alla voce Slam. Con l’aiuto di Ivan, Andy Murray è riuscito a vincere l’oro olimpico a Londra e il primo Slam, proprio lo Us Open, nonché Wimbledon 2013, primo britannico a riuscirci dopo 77 anni. Le strade dei due si separarono, ma poi si riunirono per un’altra stagione di vittorie compreso il n.1 del ranking per lo scozzese. Potrebbe quindi essere Lendl l’ingrediente giusto per far fare a Sascha il grande salto. L’ultimo Slam della stagione, lo Us Open, potrebbe anche lanciare i più pronti della categoria Next Gen, quelli che in questa stagione si sono messi in mostra più di altri. Ci sono Stefanos Tsitsipas e Denis Shapovalov. Il greco allenato da papà Apostolos è già numero 15 al mondo e al secondo posto della classifica per le Finals di Milano. Quest’anno era partito da numero 91 e la sua crescita è stata costante: due finali a Barcellona e Toronto, entrambe perse contro Nadal, e le semifinali a Estoril e Washington. Denis Shapovalov, il mancino canadese che a 19 anni è numero 28 al mondo e terzo nella Race to Milan, si è arenato dopo una primavera esaltante che lo ha visto raggiungere il best ranking di numero 23 un po’ in anticipo rispetto a quanto avesse programmato. Lui, che ama l’erba e il veloce, si e scoperto con doti terraiole con la semifinale a Madrid e gli ottavi a Roma. Ora è terzo nella Race to Milan davanti al coetaneo Alex De Minaur. Il teenager australiano, che ora vive stabilmente in Spagna con la famiglia, ha iniziato bene il 2018 con la semifinale a Brisbane e la finale subito dopo a Sydney. A fine luglio un altro exploit, la finale persa con Zverev a Washington che lo ha proiettato tra i primi 50 al mondo (ora è 43). Il futuro del tennis americano è nelle mani di Frances Tiafoe, numero 42 al e quinto nella corsa alle Finals milanesi di novembre. Frances, dopo John Isner, è lo statunitense con il miglior rapporto vittorie-sconfitte della stagione. A 20 anni ha già centrato il primo titolo Atp, a Delray Beach a febbraio, e a Estoril si è fermato in finale. Frances è cresciuto con la racchetta in mano. Suo padre, scappato dalla Sierra Leone nel 1993, aveva trovato lavoro come custode del circolo tennis di College Park, in Maryland: «Si può dire che la racchetta sia stata la mia babysitter — scherza al telefono Frances, voce profonda e risata contagiosa —. Ma non è mai stata una forzatura, appena mio padre mi ha portato al club mi sono sentito a casa. Mio fratello era solito palleggiare contro il muro e così ho iniziato anch’io. Nessuno mi ha insegnato, ho imparato guardando gli altri». Il tennista che più incarna il sogno americano della nuova generazione è cresciuto col mito di Sampras: «E’ stato sempre il mio idolo quando ero bambino — racconta —e quando l’ho conosciuto qualche tempo fa e palleggiato con lui è stata un’emozione incontenibile. No, non mi ha dato consigli, se è quello che volete sapere, ma anche solo rimandare di là una sua palla è stato un insegnamento». Frances guarda e impara, senza fretta: «Vorrei essere protagonista per i prossimi 15 anni ancora, quindi non ho l’ansia di arrivare subito a grandi traguardi. A parte Milano: quest’anno voglio esserci a tutti i costi». Tranquillo Frances, ti aspettiamo.

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