Del Potro-Djokovic: in finale le stelle ritrovate (Scanagatta). Più forte degli infortuni: Del Potro, una finale per riscrivere la storia (Semeraro). L'autunno di Nadal, il logorio del fisico che segna il futuro (Sisti). Gioia Osaka, Serena perde le staffe e la finale (Scanagatta). Osaka regina, Williams furia e lacrime (Lopes Pegna)

Rassegna stampa

Del Potro-Djokovic: in finale le stelle ritrovate (Scanagatta). Più forte degli infortuni: Del Potro, una finale per riscrivere la storia (Semeraro). L’autunno di Nadal, il logorio del fisico che segna il futuro (Sisti). Gioia Osaka, Serena perde le staffe e la finale (Scanagatta). Osaka regina, Williams furia e lacrime (Lopes Pegna)

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Del Potro-Djokovic: in finale le stelle ritrovate (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Nella notte italiana fra venerdì e ieri, dopo che Rafa Nadal aveva ammainato bandiera sul 76 62 contro del Potro per l’ennesimo problema al ginocchio destro, una tendinite — il nono ritiro in carriera per Rafa — Novak Djokovic si era vendicato della sconfitta subita dal giapponese Kei Nishikori nella semifinale del 2014 e lo aveva battuto facilmente, 63 64 62 senza mai cedere una volta il servizio. In tutta la seconda (deludente) semifinale Djokovic aveva concesso appena due palle break. Contro del Potro che serve anche a 230 km orari, ed è una ventina di centimetri più alto del giapponese e inoltre serve con un salto tipico dei pallavolisti che gli fa scendere la palla da oltre tre metri e mezzo (al metro e 98 vanno aggiunti la lunghezza del braccio e della racchetta, più il salto), non potrà permettersi di non sfruttare le poche occasioni che gli si presenteranno. Il torneo non era cominciato bene per Novak Djokovic, il campione di Wimbledon e di 13 Slam. Nel primo turno, contro l’ungherese Fucsovics, si era sentito male per il caldo. Nel secondo turno contro l’americano Sandgren di nuovo aveva chiesto l’intervento di un medico. Ma dal terzo in poi per Djokovic sono state quasi tutte passeggiate: ha battuto tre set a zero, Gasquet, 62 63 63, Sousa 63 64 63, Millman 63 64 64, Nishikori 63 64 62. Contro del Potro giocherà la sua ottava finale all’US Open: due le ha vinte, 2011 e 2015 cinque le ha perse. Djokovic ha battuto l’argentino 14 volte su 18, ed è avanti 4-0 negli Slam: due volte lo ha battuto proprio qui, nel 2007 e nel 2012. Il serbo lo ha battuto anche nelle ultime tre occasioni, però la vittoria più importante in tempi recenti è quella che del Potro ottenne, 76 76, al primo turno del torneo olimpico di Rio. Ci si attende quindi una finale molto equilibrata.


Del potro-Djokovic, verdetto incerto (Paolo Bertolucci, Gazzetta dello Sport)

Terminato il sorteggio, tra le varie opzioni per una possibile finale dell’US Open, una delle più gettonate era sicuramente quella formata da Juan Martin Del Potro e Nole Djokovic. Non è certo un caso se a distanza di nove anni, trascorsi in buona parte a recuperare da seri infortuni, l’argentino torna sul palcoscenico che lo vide trionfare nel 2009. La ritrovata solidità dei colpi, unita all’indomito carattere e alla notevole cilindrata fisica, lo posizionavano, dopo una stagione in crescendo, tra i favoriti assoluti. Finalmente il dritto è tornato a essere una sentenza, il servizio risponde con puntualità ai comandi e il recuperato rovescio bimane disegna traiettorie precise. Per Del Potro colpire la palla è un atto creativo e, se riuscirà a limitare i gratuiti e a reggere lo scontro fisico, potrebbe scrivere una delle pagine più struggenti del nostro sport. Anche Nole quest’anno, per vari motivi, ha dovuto scalare la classifica per tornare a respirare l’aria rarefatta del vertice. Il campione serbo ha la pelle dura e spalle sufficientemente robuste per reggere la pressione e confermare i pronostici che lo danno leggermente favorito. Con il ritorno alle vecchie e sane abitudini, dopo un breve periodo di naturale assestamento, trionfando a Wimbledon ha fatto un bel pieno di fiducia che lo ha convinto a proseguire sulla strada appena intrapresa. Forte del successo sull’erba londinese, Nole ha ritrovato le energie e la concentrazione per tornare ai piani alti. Le traiettorie e la consistenza del servizio, il ripescato dritto, le perfette esecuzioni del rovescio bimane, la sicurezza del back e l’elasticità fisica sono da sempre il suo marchio di fabbrica… [SEGUE].


Più forte degli infortuni Del Potro, una finale per riscrivere la storia (Stefano Semeraro, Stampa)

«Fa male vederlo soffrire così in campo». La chiamano empatia, Juan Martin Del Potro e Rafa Nadal ne sanno qualcosa. L’altro ieri si sono abbracciati alla fine del secondo set della semifinale, il ginocchio destro del numero uno del mondo sfilacciato per l’ennesima volta nel tentativo di stare in scia ai diritti supersonici (li senti, non li vedi) dell’argentino. Il nono ritiro in carriera in uno Slam. «Non posso dire di essere felice», ha commentato da vero hidalgo Rafa. «Ma mi fa piacere per Juan Martin. Ne ha passate tante, come me, vincere la finale per lui sarebbe davvero una gran cosa». Un mezzo remake di nove anni fa, quando Delpo ventenne in semifinale asfaltò un Nadal a mezzo servizio, e in finale pasteggiò sulle incertezze di Federer. Stasera, tanto per variare il menù, gli toccherà Djokovic, che ha spento in tre set il sole sull’Oriente di Kei Nishikori, altro campione risanato. Quel primo Slam di Delpo a New York era sembrato l’alba di un nuovo campione, capace di inserirsi come un martinetto fra i dioscuri. Sono seguiti invece quattro interventi ai polsi e quattordici — dicasi quattordici — Slam saltati fra sale operatorie, rientri e rimpianti. Anni di lunga pena culminati nel 2015, quando Delpo, con lo scafoide ridotto a un puntaspilli, lontano dai campi e vicino alla depressione, arrivò a un millimetro dall’addio. Come all’eroe di The Natural, lo splendido romanzo di Malamud, una donna malvagia, la malasorte, gli aveva sfregiato il futuro. C’è voluta tutta la sua garra di gaucho, e la testardaggine del chirurgo Richard Berger, per ricucirsi un domani da tennista. «Non credevo che avrei riprovato emozioni del genere — dice Juan Martin dei Miracoli, ormai idolo di tutti, gli occhioni blu spalancati su un giorno che pareva impossibile —. Non riesco a credere di essere di nuovo in una finale Slam, per arrivarci ho dovuto superare mille problemi. Ma quelli sono il passato, ora voglio godermi il presente». Che, purtroppo per lui, ha lo sguardo acceso e la fame ritrovata di Novak Djokovic, che dopo un anno e mezzo di sprofondo e — guarda caso — un’operazione al gomito — a Wimbledon è tornato a sbranare Slam. Al netto di bisturi e lasonil Delpo in questi anni avrebbe potuto/dovuto battersela alla pari con i Fab Four, diventare il Terzo o il Quarto Uomo, chissà. A 29 anni resta proprietario del diritto più potente del mondo; il resto del suo tennis è meno contundente, ma più saggio… [SEGUE].


L’autunno di Nadal, il logorio del fisico che segna il futuro (Enrico Sisti, Repubblica)

La malinconica romanza del tendine rotuleo sfibrato e incerottato si conclude col protagonista accasciato sulla sedia e la testa fra le mani. È finita. Sipario. Il ginocchio non regge più. Tante cose non vanno più. In un sussulto d’orgoglio, Nadal si alza e applaude il pubblico dell’Arthur Ashe che non si è accorto che i suoi occhi sono pieni di lacrime, lacrime d’autore, lacrime asciutte che bruciano le guance almeno quanto l’infiammazione brucia la gamba e la rabbia brucia le budella. Fa ancora caldo ma sul jukebox di Rafa che lascia lo Us Open dicendosi «felice se Del Potro tornasse a vincere il torneo», è partita Autumn in New York. Lo spagnolo stufo di soffrire e stanco di fingersi sano rovescerebbe volentieri il significato delle parole di Sinatra: «What does it seem more exciting?». Cosa c’è infatti di meno eccitante che chiudere un torneo di tale importanza come se stessi chiudendo la carriera? Quella fascia che gli stringeva il ginocchio sembrava un cappio al collo e insieme un bavaglio per ogni fantasia futura. Più autunno di così. Nadal tornerà, questo è certo. Ma quando tornerà avrà una pagina in più sulle memorie del dolore e una macchia in più sulla risonanza magnetica. Da quanto tempo il corpo di Nadal sopporta le angherie dello strapotere fisico del suo padrone? Tanto. Quindi non sarebbe affatto sorprendente se un campione come lui decidesse di non essere più tale perché il richiamo delle articolazioni sofferenti si trasforma sempre più spesso in ansia, sempre più da vicino gli graffia il cuore e con crescente cinismo va a distruggere quell’energia vitale che il tennis produce e continua ad esaltare. Eppure c’è anche un’intima bellezza nel ritiro di Nadal. Il racconto di quei minuti, di quelle palle giocate tanto per arrivare alla fine del secondo set, è il racconto di un’improvvisa normalità che di colpo prende in mano le redini e occupa il centro della vita di un fuoriclasse di 31 anni, rendendolo stranamente (umanamente) uomo, un tennista in crisi che serve prima e seconda palla senza la spinta dei piedi, che rinuncia a spostarsi lateralmente e che chissà quante volte avrà detto basta ma senza farlo sapere in giro. Nadal tornerà perché ancora una volta si curerà, pazienterà, ricomincerà e per l’ennesima volta farà “finta” di essere ciò che non è più: un dominatore assoluto degli spazi e del tempo (su un campo da tennis). Ha dato a Del Potro un abbraccio caloroso. Poi gli ha regalato parole ancora più nutrienti. L’argentino torna in finale a New York dopo nove anni (stasera contro Djokovic alle 22 su Eurosport). Nel 2009 recuperò due set a Federer e trionfò nel quinto. Neanche lui sa come, ma c’è riuscito. È tuttora il suo unico Slam in bacheca. Dopo i drammi del polso, è tornato a tirare forte anche con il rovescio in top (per un momento si pensava che non potesse più farlo). La sua storia si incrocerà con quella del ritrovato serbo che nelle umide risacche di un possibile addio, smarrito e senza voglia, ha rinvenuto le tracce organiche sufficienti per rifarsi una vita… [SEGUE].


Del Potro, onore al merito (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Non è facile separare i fatti dell’altra notte nello stadio più pazzo del mondo, dalla storia del tennis di questi ultimi dieci anni. Si correrebbe il rischio di definire fortunata la vittoria di Del Potro, giunta per il ritiro di Nadal dopo un set sofferto e una seconda frazione addirittura simile a un calvario. E anche con tutta la faccia tosta che va di moda in questi tempi, dove in tanti sono pronti a dire tutto e subito dopo il contrario di tutto, sostenere che si sia stabilita una qualsiasi liason fra Delpo e la fortuna sinceramente sarebbe poco opportuno. Se buona sorte vi è stata, essa può apparire come un modesto risarcimento per tutto ciò che l’argentino è stato costretto a subire, a cominciare proprio da quegli Us Open di nove anni fa (era il 2009) che vinse prima di addentrarsi nel tunnel più buio degli interventi chirurgici al polso. Tre volte sotto i ferri, prima di tornare a una finale nel torneo che ama di più. Allo stesso modo Rafa ha avuto i suoi problemi (come Roger, Andy, Nole, e anche Stan…) e c’è solo da augurargli che quest’ultimo guasto al ginocchio passi in fretta e senza conseguenze. Lui non sa dire ma è preoccupato, «certo non mi va di confrontare le mie sfortune con quelle degli altri», augura però a Del Potro di giocarsi al meglio tutte le chance nella finale con Djokovic, che nell’altra semifinale non ha nemmeno avvertito le punzecchiature di Nishikori. «Juan Martin ha meritato questa finale, ha giocato un grande torneo. Avrei potuto dirlo anche di me stesso, purtroppo il dolore al ginocchio non mi ha permesso di combattere come avrei voluto. Vedremo nei prossimi giorni, certo è che il mio team è ormai esperto di simili problematiche» [SEGUE].


Gioia Osaka, Serena perde le staffe e la finale (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Pazzesco. Serena Williams non ha vinto questo US Open. Il record di Margaret Court, 24 Slam, resiste. La giapponese Naomi Osaka, di padre haitiano e mamma nipponica, alla prima finale Slam l’ha vinta 62 64 contro il suo idolo di gioventù alla fine di una partita nella quale nel secondo set è successo di tutto. Liti furibonde fra l’arbitro Carlos Ramos e Serena che ha subito un primo “warning” per coaching — Serena furiosa negava di aver ricevuto alcun consiglio: «Io non rubo! Nessuno mi ha fatto da coach!» — poi un penalty point per aver fracassato una racchetta quando la rivale l’aveva rimontata dopo il primo break messo a segno nel match. Serena ha detto all’arbitro «Bugiardo… e ladro!». Fatto sta che di lì a poco, Ramos ha annunciato il game-point penalty. Cioè sul 4-3 per la Osaka la ragazza giapponese, che aveva peraltro giocato un primo set assolutamente straordinario senza il minimo timore reverenziale, non ha dovuto nemmeno servire. Si è ritrovata sul 5-3 senza giocare. Serena, furibonda, se lo sarebbe mangiato. Ha preteso l’intervento del giudice arbitro Brian Early, ma questi non poteva certo smentire l’arbitro. Serena ha tenuto il successivo game a zero, mentre la folla ‘buheggiava’ pesantemente l’arbitro (che dovrà uscire scortato dal campo). La Osaka ha tenuto l’ultimo servizio a 30 ed è diventata la prima giapponese, uomini e donne, a vincere uno Slam. La Osaka, 16 anni e 20 giorni più giovane di Serena, vince il suo primo Slam. Ne vincerà ancora altri. Serena piangeva, Naomi anche, molti spettatori anche. Sul campo Serena al momento della premiazione ha detto: «Non sciupiamo questa festa, Naomi congratulazioni!». Tre milioni e 800.000 dollari il premio per la Osaka. Stasera alle 22 la finale Djokovicdel Potro (14-4 nei confronti diretti).


Osaka regina, Williams furia e lacrime (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello Sport)

Come a Wimbledon, Serena capitola anche nell’ultimo atto degli Us Open. Lì era stata la tedesca Kerber a farle la festa, qui è la prima giapponese a giocare una finale Slam, la ventenne Naomi Osaka. La ragazzina conquista il primo set di prepotenza, ma quello che accade nel secondo è folle. Serena perde la testa. Prima un warning per coaching aveva innescato la rabbia, poi dopo aver spaccato la racchetta sul 3-4 e aver beccato un 15 di penalità, la vincitrice di 23 Slam sbotta: «Non sono un’imbrogliona, ho una figlia, non faccio queste cose. Non c’è stato coaching, mi sta mancando di rispetto. Mi deve delle scuse, lei è un bugiardo». L’arbitro è il portoghese Ramos. Alla parola bugiardo scatta il terzo warning e quindi il game di penalità che la condanna al 3-5. Serena si mette a piangere, chiede l’intervento del supervisor. Continua a singhiozzare, a parlare di ingiustizie: «Le ho dato del bugiardo, perché lei mi ha dato della ladra. Ho lottato tanto per giocare questo match, non posso essere trattata così». E poi rincara: «Mi hai rubato il game, sei un ladro». In mezzo a questo caos, non è facile neppure per Naomi mantenere freddezza. Sul 5-4 si trova due palle match che sfrutta alla seconda opportunità con un servizio vincente. La peperina nipponica (con papà haitiano, mamma giapponese, emigrata negli Usa a tre anni e con doppia cittadinanza) abbatte il suo idolo. Ma l’epilogo forse l’aveva immaginato in modo differente. Serena la stringe a sé, come per farle capire che lei è stata brava, che non c’entra nulla. L’Arthur Ashe, coperto dal tetto come una pentola a pressione per la minaccia di acqua nelle prossime ore, si intristisce per l’occasione sfumata e fischia. Infatti ciò che le era sfuggito a Wimbledon, Serena non riesce a ottenerlo neppure sul campo di casa: non ce la fa a mettere il settimo sigillo sugli Us Open (con cui staccherebbe Chris Evert per un nuovo record) e a salire a quota 24 vittorie negli Slam, eguagliando il primato di Margaret Court, che continua a rimanere irraggiungibile. A fine partita, c’è spazio solo per i complimenti e i ringraziamenti: «So che avete fatto il tifo per me, è stato grandioso. Ma è anche il momento di congratularmi con Naomi, era la sua prima finale Slam e ha giocato benissimo». Del resto la grande motivazione di Naomi era stata proprio lei, Serena: «La gente stava con lei, lo so, ma questa vittoria significa tanto per me». Contro la Williams salva 5 palle break su 6. Come tante sue coetanee è cresciuta con l’avversaria che ha appena sconfitto nel cuore: un idolo. Ma quando l’idolo te lo trovi davanti in una finale, c’è il rischio di paralisi alle gambe e alle braccia. A lei non accade: «Come quando l’ho battuta a Miami, ho cercato di pensarla come un’avversaria qualunque e ci sono riuscita» E aveva ribadito: «L’ho vista giocare in tv da quando ero una bambina: sono onorata». Onorata di affrontarla: frasi di altri tempi… [SEGUE].


Serena al tappeto. La giovane Osaka regina in due set (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

Era una partita di tennis, passerà alla storia come un’ingiustizia nei confronti di Serena Williams. Naomi Osaka, prima giapponese nella storia, è la regina di un Open Usa dal finale a sorpresa, pronto ad accoccolarsi ai piedi della padrona di casa, quella Serena Williams che inseguiva il 24esimo titolo Major (come Margaret Court), e invece deragliato all’improvviso verso territori inesplorati. Serena è concentrata, tesa, imprigionata dentro il tutù nero e dentro la sua stessa leggenda, subisce il break, Osaka vola 4-1 nel primo set e chiude 6-2 senza far tremare il braccio. Mamma Tamari, che l’ha partorita a Osaka prima che tutta la famiglia si trasferisse negli Usa, è in tribuna; papà Leonard, haitiano, le ha regalato i geni di colore e un talento innato per il tennis; coach Sasha Bajin è stato per anni il palleggiatore di fiducia di Serena, e la conosce a memoria. Nel secondo set, quando si attende la reazione della leonessa ferita, comincia il wrestling tra la Williams e Carlos Ramos, il giudice di sedia portoghese. Una prima ammonizione per coaching manda Serena su tutte le furie («Non ho mai barato in vita mia! Mi devi delle scuse!»), un penalty point per aver rotto la racchetta è doveroso, ma è il game point che manda Osaka sul 5-3 che fa esplodere il centrale e avvia un drammone mai visto su questi schermi. Ramos accusa la Williams di avergli dato del «ladro», e la punisce. Serena non ci sta: chiama in campo il giudice arbitro, piange, si sfoga: «Succede ogni anno che gioco qui! Non è giusto!» [SEGUE].

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