Il crollo di Serena divide l’America. “È stato sessismo” (Gianni Clerici, Repubblica Sport)
“Te l’aspettavi la sconfitta di Serena?” mi chiede un aficionado. “No. Nemmeno che perdesse un set. Se non fossi stato impedito dal regolamento dell’Iwta (International Writers Tennis Association) avrei scommesso su di lei”. “Perché credi che abbia perso?”. “Perché, come me, deve aver sottovalutato la sua avversaria. Oppure perché non si aspettava la lite con l’arbitro Carlos Ramos. Era difficile immaginare una simile vicenda”. “Com’è andata infatti? Mai visto qualcosa di simile?”. “Mai visto”. “Vuoi ricordarla? “Ci provo”. Serena ha infatti perduto il primo set, 6-2, facendo apparire Naomi un fenomeno dei tiri veloci, soprattutto contropiede. Non in gran serata, questa Williams non meno sorprese di me, sta pian piano ritrovandosi, quando, sul 3-4, inizia una scemeggiata – non voglio chiamarla altrimenti – con l’arbitro, Carlos Ramos. Serena infatti riceva un “warning” che tradurrei ammonizione, per coaching, che chiamerei “suggerimento”. A quel che vedo in televisione, mi pare che il suo coach greco-francese, Patrick Mouratoglou non le abbia suggerito niente. Ha solo fatto un gesto con gli avrambracci, come a dire “forza”. Furiosa per l’ammonizione, Serena spacca vistosamente la racchetta, per poi iniziare, da sotto il seggiolone, una discussione con l’arbitro che sembra, da parte sua, mantenere la calma. «Non sono un’imbrogliona, non faccio queste cose, ho una figlia. Non c’è stato coaching. Sei un bugiardo, mi manchi di rispetto. È solo perché sono una donna». Frase a cui ha fatto seguito la solidarietà di Billie Jean King: «Quando una donna si lascia andare alle emozioni del momento diventa subito una “isterica” e viene penalizzata. Quando lo fa un uomo, diventa invece “schietto” e non ci sono ripercussioni. Grazie, Serena, per aver portato alla luce questo doppio standard». Va detto, al riguardo, che, dopo la partita, Mouratoglou stesso ha diversamente affermato che il suo gesto «poteva ritenersi coaching». Forse è stato troppo onesto, perché con simile affermazione ha giustificato il comportamento disumano di Ramos. Intanto alla parola ” bugiardo ” è scattato il terzo warning, che Serena vede apparire sul tabellone luminoso, e che consegna a Naomi addirittura un game, mandandola a 5-3. Serena fuori di sé continua a chiamare ladro l’arbitro Ramos, e non troverà più il modo di reagire nel gioco. Che cosa ne penso, mi chiede un amico. Interpretazione priva di umanità, di un tipo che si è sentito offeso, ha vietato a se stesso di intuire che il “coaching’ non era stato qualcosa di utile, e che aveva, lui stesso, provocato l’esplosione di Serena. Un altro amico mi ha chiesto cosa sarebbe avvenuto, senza le follie di un dubbio regolamento. Credo che una Serena normale avrebbe avuto le sue chances di rimontare e vincere. Ma come chiamare normale ciò che sfugge a regole severe, ma obiettive?
La battaglia dei sessi nella versione di Serena (Emanuela Audisio, Repubblica Sport)
Power Games. Giochi di potere. Quando Serena urla all’arbitro Ramos: «Sei un ladro, mi hai rubato un punto, non mi arbitrerai più, con un uomo non l’avresti fatto», non è solo un’atleta imbestialita e frustata, che lotta per il diritto alle donne a non polemizzare dolcemente e a manifestare la propria rabbia. È molto di più, e molto oltre la battaglia dei sessi. Cinquant’anni dopo i pugni neri di Tommie Smith e John Carlos, che protestavano per avere un podio quotidiano nella società e non solo nello sport, Serena Williams come Stephen Curry e LeBron James, campioni di basket che si oppongono pubblicamente a Donald Trump, non si ribellano a chi comanda, ma esercitano il loro potere di numeri uno, fatto di fama, soldi, social, marketing. Non sono più poveri neri che cercano il riscatto, ma ricche celebrità che pretendono rispetto per il loro status e per il loro popolo. Questo dice il sociologo americano Harry Edwards, che ieri come oggi è il punto di riferimento di chi contesta nello sport: «Non giocano a comandare la partita, ma a comandare, perché non sono più parte di un gioco, ma sono il gioco». Basta un loro tweet per influenzare l’opinione pubblica. E infatti Serena ha incassato subito l’appoggio di Billie Jean King, ex campionessa, sindacalista, fondatrice della Wta, ispiratrice del film “La battaglia dei sessi”, ricordo dello storico incontro da lei giocato e vinto nel 1973 contro Bobby Riggs, prima volta di una femmina contro un maschio. E anche dell’attrice americana Ellen DeGeneres: «Hai cambiato il mondo in meglio, questo per me vale più di una partita». Quando Serena, in una versione femminile di Buffon in Coppa Campioni, pretende le scuse del giudice, forse più fiscale che sessista, e gli urla: «Io non frego per vincere, preferisco perdere», è perché vede lesa la sua maestà per il primo ammonimento per “coaching” della sua carriera, rivolto al suo allenatore, si considera indegnamente macchiata di una lettera scarlatta che non merita. Gliela hanno data perchè donna? Difficile provarlo: quest’anno gli uomini hanno ricevuto 23 multe per violazione del regolamento contro le 9 delle donne. Segno che l’ira maschile non viene condonata. McEnroe, molto bad boy, nel ’90 agli Open d’Australia fu squalificato al quarto turno per i suoi eccessi, Fabio Fognini l’anno scorso è stato multato e cacciato dagli Us Open per insulto sessista all’arbitro donna. È vero che il giudice Ramos, abituato ad arbitrare gli uomini, è uno che guarda troppo al regolamento, che la Wta ammette il court-coaching (ma non nei tornei del Grande Slam), e che Alizé Cornet agli Us Open ha ricevuto un warning per essersi cambiata la maglietta in campo, cosa che fanno regolarmente i maschi, ma il giorno dopo ha ricevuto le scuse e la regola (sessista) è stata cambiata. Ma è anche vero che se dai del ladro all’arbitro, spacchi la racchetta, e perdi la testa perché una ventenne ti sta cacciando dal tuo regno, non puoi venirne fuori immacolata. Resta che Serena Williams non è più solo una grande tennista. A 37 anni è una regina d’America che pranza con Oprah Winfrey, partecipa al matrimonio di Harry e Meghan, balla con Michelle Obama. Nessuno le può dire come giocare, nessuno la può accusare di barare dopo quasi un ventennio di trionfi sportivi. Questo lei pensa nel momento del tonfo. E in uno sport che ormai non è un momento della vita, che passa e va, ma un posto di lavoro da mantenere e dove far valere gerarchie, pretese, e nuovi diritti per le donne. All’organizzatore Ion Tiriac che l’anno scorso aveva espresso dubbi sul fatto che Serena «a 36 anni e con 90 chili» potesse tornare numero uno, lei rispose che la ciccia era sua e le piaceva e glielo avrebbe detto di persona a quel maleducato… [SEGUE].
Serena, gli insulti al giudice, la sconfitta. «Io vittima di una decisione sessista» (Gaia Piccardi, Corriere della sera)
«Ci sono uomini che in campo fanno ben di peggio. Perché sono una donna mi stai rubando la partita. Non è giusto!». Ambientata sul palcoscenico della finale dell’Open Usa nell’epoca del #MeToo, amplificata dal tam tam dei social e dal vocione delle pasionarie di Hollywood, la crisi isterica di Serena Williams è diventata un manifesto del femminismo. Con lo Slam di casa, la più grande di ogni tempo ha sempre avuto un rapporto controverso: sei dei 23 titoli Major sono stati vinti a New York ma parecchie delle sue sconfitte sono entrate in archivio alla voce «contenzioso con i giudici». Nel 2004 contro la Capriati, nel 2009 con la Clijsters (quando Serena minacciò la giudice di linea Shino Tsurubuchi di farle ingoiare la pallina: kappaò e multa di 82.500 dollari), nel 2o11 in finale con la Stosur e nel 2015 in semifinale con Roberta Vinci, la tarantina che fece deragliare la fuoriclasse dai binari del Grande Slam (quello vero). Sabato, sul centrale di Flushing, sembrava semplicemente una giornata storta. La pressione della folla, l’ansia di eguagliare Margaret Court nel numero di Slam vinti, l’obbligo di aderire alla strepitosa campagna di marketing avviata a Wimbledon («Sono arrivata in finale per tutte le mamme!») e vicina al perfezionamento a New York: tornare a ruggire a un anno dalla nascita, travagliata e piena di complicazioni post partum, della piccola Olympia. Ma dall’altra parte della rete la leonessa rauca si è ritrovata una 2oenne fresca e coriacea, la giapponese Naomi Osaka cresciuta nel suo mito, e sulla sedia del giudice un inflessibile portoghese, Carlos Ramos, abituato alle intemperanze degli uomini. Nel secondo set, quando Serena già perdeva 6-2, Ramos ha applicato alla lettera il regolamento: richiamo per coaching (ammesso da Patrick Mouratoglou, allenatore della divina; nota a margine: tutte si fanno consiliare dalla tribuna ma finché c’è una regola che lo vieta va usata), punto di penalità per aver spaccato la racchetta, game di penalità per «insulto udibile» all’arbitro («Sei un ladro!»). Volata sul 5-4 grazie all’incredibile zuffa tra l’avversaria nobile e il giudice pedante, l’incredula e mortificata Osaka non si è fatta più riprendere. Un match passato alla storia per i motivi sbagliati, ha titolato il New York Times, smontando le tesi di sessismo di Serena: gli interventi per violazione del codice di comportamento ai danni degli uomini quest’anno all’Open Usa sono stati 23, contro gli appena 9 delle donne (Williams inclusa, multata di 17.000 dollari). Difficile sostenere che a New York gli arbitri ce l’hanno con le tenniste in un torneo che, storicamente, ha punito McEnroe, Connors, e, più modestamente, Fabio Fognini, espulso da Flushing l’anno scorso per insulti sessisti (quelli sì) alla giudice di sedia. Ma l’evidenza dei fatti non ha fermato la crociata della Williams, che dopo aver chiamato l’applauso per la Osaka (beau geste doveroso) si è sfogata in conferenza stampa: «Non ho mai barato in vita mia: preferisco perdere. L’arbitro mi ha rubato un game. Ho visto uomini dire le peggio cose senza venire sanzionati: con un maschio non l’avrebbe fatto. Mi batto per la parità delle donne e continuerò a farlo»… [SEGUE].
Mamma Serena, lacrime e nervi. “L’ho fatto per difendere le donne” (Stefano Semeraro, Stampa)
Il day after la finale femminile degli Us Open è una Guerra di Secessione del tennis, uno scontro di culture e di slogan. E dal fumo dei social e dei comunicati, come è prassi, stenta a emergere il buonsenso. Da una parte c’è chi difende senza se e senza ma Serena Williams e la sua polemica sanguinosa con l’arbitro Carlos Ramos, reo di averle affibbiato prima un avvertimento (peri suggerimenti proibiti del suo allenatore Mouratoglou), poi un punto (racchetta spaccata) e infine un game di penalità dopo essersi sentito definire «ladro», «bugiardo» e «sessista» in mondovisione. Dall’altra chi crocifigge la ex n. 1 per una sceneggiata, indegna di una campionessa che vuole proporsi come modello. «I suggerimenti dovrebbero essere permessi nel tennis», tuona Billie Jean King, pasionaria (in epoca non sospetta) dell’uguaglianza. «Se una donna mostra le emozioni è isterica, se lo fa un uomo ha carattere. Grazie Serena, per aver svelato che ci sono due pesi e due misure». Per il New York Post la Williams «è solo una cattiva perdente», secondo un altro ex n.1 come Andy Roddick «è stato il peggior arbitraggio che abbia mai visto» e anche la grande Chris Evert sta con Serena. Il premio testa nella sabbia va alla Wta: «Serena gioca sempre con classe e con grande sportività». Tirare in ballo Weistein e Asia Argento pare esagerato, dopo il match Serena ha però riacceso il lanciafiamme: «Io sono qui a combattere per le donne, le madri e le pari opportunità. Non ho visto mai uomini puniti per aver dato del ladro all’arbitro: per me questo è sessismo». Con buona grazia di chi credeva che Serena sabato stesse combattendo — anche o soprattutto – peri 3,8 milioni di dollari del montepremi (ne ha vinti solo 1,8) e il record di 24 Slam. E di chi ricorda la semifinale del 2009, sempre agli Us Open, in cui la Pantera in crisi isterica minacciò una povera giudice di linea giapponese che le aveva chiamato un fallo di piede: «vorrei ficcarti in gola questa pallina fino a soffocarti». Sessismo anche quello? Allora la multa fu di 82.500 dollari, stavolta solo di 17 mila. Come ha sottolineato l’ex arbitro e opinionista Richard Ings, il coaching c’era tutto (lo mostrano i video), il resto lo ha fatto la Williams spaccando la racchetta e perdendo la testa… [SEGUE].
Si, c’è un caso arbitri (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Alla fine, che colpa ne ha la giovane Osaka se ha vinto gli Us Open? Nessuna, ovvio, ma se ne sta in disparte, fuori dalla festa che festa non è. ll pubblico rumoreggia, fischia, la tempesta non si è ancora placata, e Naomi Osaka piange, non di gioia, ma di avvilimento. Anche Serena Williams piange, ed è la rabbia a guidarla lungo la strada della rivendicazione, che spesso procede a un tanto così dal baratro della maleducazione. Eppure, punteggio alla mano, non c’è risultato più limpido: Naomi ha giocato meglio, ha colpi che fanno male e li ha usati tutti, a cominciare dal servizio devastante. Ha dominato il primo set, ha ripreso il secondo in rimonta. Si è compiuto, nel frastuono della protesta, un passaggio di consegne che avrà bisogno di ulteriori conferme, ma che e già possibile individuare nelle cifre del match, nei gesti tecnici delle due, nei modi di fare: fra le tante che ci stanno provando, l’erede di Serena è proprio lei, Naomi Osaka La più diretta discendente. Una figlia. Se ne accorge anche Serena, che alla fine l’abbraccia «Lei non c’entra», dice rivolgendosi al pubblico, «lei ha vinto il suo primo Slam con merito. Applauditela. Io mi rifarò. Lo sapete tutti che mi rifarò». Sessismo, accusano Billie Jean King e Vika Zarenka, il giorno dopo. E pure James Blake, ex n. 4 conferma «Se quelle parole che ha detto Serena le avesse dette un uomo, nessun provvedimento sarebbe stato preso». C’è del vero, poco da fare. Nel tennis maschile volano parole ben più sanguinose, e tutti stanno zitti. Anche l’arbitro Carlos Ramos, che sabato è stato uno dei tre protagonisti sbagliati della finale. Tre, però, non uno solo. Non solo l’arbitro… Gli altri due sono Serena e il suo coach, Patrick Mouratoglou, e tutti assieme hanno rovinato la prima vittoria di una tennista giapponese nello Slam. Si era sul 2-1 del secondo set, e nel primo Naomi aveva travolto Serena. Lì Mouratoglou ha inviato un messaggio alla Williams, sapendo che lei non lo avrebbe visto e non lo avrebbe raccolto, perché Serena – ha ragione a dirlo, anzi, a urlarlo – non bara, non l’ha mai fatto. Però il consiglio è stato lanciato, e l’arbitro l’ha visto. Scatta il warning per coaching. Serena non c’è stata e l’ha messa sul piano personale: «Lo sai che non faccio cose del genere, mi stai dando dell’imbrogliona davanti a tutto il Paese. Se guardo il mio box è per vedere le facce di chi mi vuol bene, non per ricevere consigli». Sul 3-1 Naomi fa scattare la rimonta Serena commette due doppi falli e spacca la racchetta. Altro warning ed è penalty point: il game successivo comincerà da 0-15 per la Osaka. Serena torna a lamentarsi: «Dovevi togliermi quel primo warning, sai che non sono colpevole. Ora mi hai tolto anche un punto, sei tu l’imbroglione, sei tu il ladro, non io. Fai così perché sono una donna, con un uomo non ti saresti permesso». Scatta il terzo warning e il penalty game. 114-3 della Osaka diventa 5-3. Serena chiede il Supervisor, è una furia, piange. Ma la partita è persa Niente 24° Slam, niente prima vittoria da mamma. Tre colpevoli: il coach per aver dato un consiglio inutile, a beneficio delle telecamere. Serena per le esagerazioni di cui è capace. Ma anche l’arbitro, che da regolamento ha preso tutte decisioni giuste. E questo il punto più spinoso della vicenda. Sta al giudice capire quando può farsi strada a colpi di regolamento, e quando – presa la decisione che deve prendere – è giusto preoccuparsi che la gara non vada in frantumi. Sarebbe bastato spiegare, far capire a Serena che cosa era accaduto, tranquillizzarla… [SEGUE].
Immenso Djokovic: è lui il re di New York. Gli bastano tre set per battere Del Potro (Gaia Piccardi, Corriere della sera)
New Djoker a New York. La città che non dorme mai incorona il tennista che non molla mai. Nemmeno nel secondo set, quando la finale dell’Open Usa sembra rapita dal fascino latino di Juan Martin Del Potro, capace di riaprire un incontro che s’innalza su vette d’intensità notevoli. Ma c’è troppo Djokovic in campo per lo spilungone argentino, sbucato sul centrale di Flushing nove anni dopo il primo e ultimo titolo Slam (Us Open 2oo9) anche grazie al ritiro di Nadal e costretto dal muro serbo a una partita ad inseguimento, sfinente e a tratti bella, ripagante del piccolo spettacolo delle donne, condizionato dalla crisi isterica della Williams. Novak Djokovic è di nuovo Djoker, secondo Major stagionale e terzo a New York, il record di Pete Sampras (14 titoli Slam) è eguagliato e adesso gli Immortali tremano davvero: Federer a quota 20 e un maestro con la data di scadenza incorporata, apparso improvvisamente vecchio sia a Londra che negli Usa; Nadal che lo tallona a quota 17 è tenuto insieme dai cerotti: ogni volta che s’infortuna (cartilagini del ginocchio all’Us Open) non sai quando — e se — lo rivedrai. Dietro, fresco dei suoi 31 anni e di un’usura per forza inferiore, incalza l’uomo di Belgrado, definitivamente uscito dalla profonda crisi personale e tecnica, re di Wimbledon e dell’Us Open in una stagione che ha distribuito ai tre grandi (Federer in Australia, Nadal a Parigi per l’undicesima volta) i suoi quattro tesori più preziosi. Del Potro ci mette cuore, drive, borotalco usato in profusione per tenere salda nella manona di pietra la clava con cui martellare il rivale però Djokovic è di gomma e arriva dappertutto: 6-3 con un break dolorosissimo (nell’ottavo game l’argentino era 40-o), senza strafare. Sale la torcida per Del Potro, sale il suo tennis. Il Djoker s’innervosisce, sbaglia un dritto e regala il break del 4-3 nel secondo, poi quell’ottavo eterno game (22 punti) che decide la partita: il serbo annulla tutte le palle break e rimane agganciato, 4-4, sarà il tie break a spezzare l’equilibrio. E li Del Potro è tradito dal suo colpo migliore, il drive, due errori fatali mandano il serbo 5-4 e 6-4, chiudere il secondo 7-6 è una passeggiata. Delpo è stanco, avvilito, trascina il corpaccione di due metri per il campo arrancando dietro a un Djokovic ormai imprendibile che rimanda tutto, fa il break sul 3-1, subisce il controbreak, chiude sul 6-3 e vola a prendersi uno Slam meritato che, ancora una volta, respinge l’arrembaggio della Next Gen per mettersi nelle mani dell’usato sicuro… [SEGUE].
Djokovic sbrana Delpo: New York è sua (Massimo Lopes Pegna, Gazzetta dello sport)
Novak Djokovic raddoppia e dopo Wimbledon porta a casa anche gli Us Open, il suo terzo titolo qui a Flushing con cui raggiunge Ivan Lendl e Rafa Nadal… [SEGUE]. Conquistare due Major nello stesso anno solare non gli riusciva dal 2016, mentre nel 2015 aveva addirittura centrato una tripletta. Insomma, i bei tempi. Prima che arrivassero quelli cupi dell’amaro ritiro nei quarti di Wimbledon dell’anno passato con conseguente lunga convalescenza causa infortunio al gomito. Perché questo trionfo è come se fosse il simbolo della sua resurrezione: dopo l’erba inglese, il cemento Usa. Djoko non ha pietà del suo grande amico Juan Martin Del Potro («Come si fa a non voler bene a un gigante buono come Delpo»), lui pure una sorta di superstite, con una lista di malanni lunga nove anni. Ma alla vigilia aveva smorzato la tensione: «Non avrei mai creduto di poter tornare a un’altra finale di un grande torneo. Anche se dovessi perdere vado a casa felice: è stato un anno straordinario». Nole gioca in trasferta dentro l’Arthur Ashe, con il tetto chiuso per la pioggia, camuffato da Bombonera con i canti degli ultrà venuti da Tandil al seguito dell’idolo Delpo. E il serbo gradisce poco, perché spesso si sbraccia verso chi lo disturba. Però conquista il primo set di prepotenza per 6-3 in 42′. C’è equilibrio, ma Djoko sembra sempre padrone del campo, soprattutto quando gli scambi si allungano. L’equilibrio resiste fino al 7° game. La svolta di questo parziale è all’8° e psicologicamente pesa molto nella testa dell’argentino. Perché Delpo va 40-0 e si fa rimontare con una serie di errori, l’ultimo dei quali è un dritto in rete proprio dopo un palleggio interminabile. Il secondo sembra destinato a essere la replica del primo, perché il ragazzone argentino, che da bambino s’incollava al televisore per vedere l’amato calcio e le dirette da Flushing, si salva da due break point con due bei dritti e grazie a un errore del rivale. Ma continua a essere eccessivamente falloso e infatti al terzo game capitola nuovamente. L’aveva detto alla vigilia Nole: «Lui è un grande battitore, sarà fondamentale rispondere in modo efficace al suo servizio. Anche per non subire pressioni sul mio». E sul tema, Djoko si è preparato bene: fino a quel momento risponde al 97% delle palle di servizio di Delpo. Ma poi Juan Martin estrae dal cilindro il suo tennis migliore con cui ha abbattuto in carriera un bel drappello di numeri uno e si procura le prime palle break dell’incontro e pareggia. È ancora l’ottavo game a ruotare il destino della sfida: dura 17′ e 22 scambi. Juan Martin fallisce tre palle break, mentre Meryl Streep si mette le mani sugli occhi come fosse un horror… [SEGUE]. Il cannibale è tornato.