La stampa italiana commenta l'introduzione del quinto set a Melbourne (Crivelli, De Ponti, Lombardo). Berrettini: "Sarò al top in 3 anni" (Marchetti)

Rassegna stampa

La stampa italiana commenta l’introduzione del quinto set a Melbourne (Crivelli, De Ponti, Lombardo). Berrettini: “Sarò al top in 3 anni” (Marchetti)

La rassegna stampa di sabato 22 dicembre 2018

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Tie break nel quinto set, anche Melbourne cede (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

La valanga non si arresta. E il tennis, per anni (e secoli) sempre fedele a se stesso, in pochi mesi si piega alle esigenze della velocità richiesta dalla tv e dai nuovi fruitori social, nonché ai lamenti dei giocatori, oppressi da un calendario ormai infinito e quindi propensi ad accorciare le fatiche in campo. ANTICIPO Perciò, dopo Wimbledon, anche gli Australian Open rinunciano ufficialmente al dogma del quinto set senza tie break e lo faranno già dall’edizione che scatterà il 14 gennaio prossimo. Ma siccome ogni Slam è geloso della sua unicità, la formula scelta dagli organizzatori degli antipodi introduce la quarta regola diversa per i quattro Major, prevedendo certamente il tie break sul 6-6, ma con la regola della vittoria a 10, come si usa da tempo in alcuni tornei di doppio. Insomma, il super tie break, applicato al quinto set degli uomini e al terzo set delle donne, dei doppi e del doppio misto, nonché alle partite di qualificazione (che si giocano 2 su 3). Craig Tiley, direttore degli Australian Open, la spiega così: «Abbiamo chiesto il parere a giocatori, sia in attività sia a ex, a commentatori, agenti e analisti della tv se preferissero un long set oppure no e questa è stata la loro decisione. Abbiamo optato per un tie break a 10 punti sul 6 pari del set decisivo per assicurare ai fan ancora una conclusione spettacolare, con un tie break lungo che permetta di avere ancora tante emozioni. In più si stempera un po’ il dominio del servizio. Crediamo che questa sia la soluzione migliore per giocatori e pubblico». Dopo l’annuncio del cambiamento a inizio dicembre, si pensava che la rivoluzione potesse essere applicata dal 2020, appunto dopo le consultazioni del caso. […]DIVERSITA II risultato, però, è che alla fine i quattro tornei dello Slam hanno adottato quattro sistemi diversi per chiudere una partita al quinto set. In Australia si ricorrerà al super tie break a 10 sul 6-6, a Parigi si continuerà a non giocare il tie break nel set decisivo (ma non si escludono colpi di scena da qui a maggio), a Wimbledon ci sarà il tie break normale ma sul 12-12 e negli Us Open rimarrà, come accade dal 1970, il tie break normale sul 6-6, la soluzione più lineare. Un segnale del fermento che sta percorrendo il tennis, sospeso tra storia e novità, ma anche di una certa confusione e incomunicabilità, quasi fosse più importante mostrare i muscoli che il raziocinio. Quel che è certo è che da oggi possono essere archiviati almeno due record del quinto set nell’era del tie break, in attesa di capire cosa accadrà al Roland Garros (dove il quinto set più lungo per game giocati è un 18-16, capitato due volte). Si tratta del celeberrimo 70-68 di Isner su Mahut a Wimbledon 2010 e del più modesto 22-20 del primo turno fra Karlovic, vincitore e Zeballos a Melbourne 2017. L’ultima maratona down under. ?


Berrettini: “Sarò al top in tre anni” (Christian Marchetti, Il Corriere dello Sport)

II piumino verde di Matteo Berrettini spicca in un nebbione che sembra importato dalla Transilvania. Altro che Bel Poggio, Salaria. Più o meno Roma, perché il luogo dove sorge la Rome Tennis Academy ricorda più la location di un raduno precampionato in quota. Quattro campi in terra, «superficie su cui sono nato e cresciuto», altrettanti in veloce, «superficie dove invece le mie caratteristiche migliori vengono fuori», sotto i capannoni. Sotto uno di questi, l’Academy ha organizzato la presentazione della struttura organizzativa, guidata dai tecnici Vincenzo Santopadre e Stefano Cobolli. C’è anche Giovanni Malagò, che sveste i panni di presidente del Coni per indossare quelli di ex presidente del Circolo Canottieri Aniene. Club con cui il 22enne Matteo ha di recente vinto un altro scudetto a squadre. Lo guardi (Matteo, non lo scudetto) e pensi che sia proprio il prototipo del campione a chilometri zero: romano, che si allena nella sua città, per giunta nella struttura creata dal padre Luca assieme al produttore televisivo Massimiliano Lancellotti e dove c’è anche il fratello Jacopo. CAPODANNO. «Sono talmente a casa che devo stare attento a non presentarmi al campo in pantofole. Mi alleno qui con Vincenzo da quando avevo 14 anni», informa Berrettini, numero 54 del mondo dopo un 2018 da applausi. «In realtà, conduco una vita piuttosto movimentata. Non so quanti voli prendo e, anche solo per una cena con gli amici, oramai devo fissare un appuntamento. Sto poco a casa», e Lavinia, la giovanissima girlfriend conosciuta durante una lezione di tennis tenuta dal nostro all’Aniene, quando era infortunato, fa “sì” con la testa. Serata ideale quando si trova a Roma? «Netflix e divano», risponde lei. «Le discoteche le lascio ad altri», rifinisce freddo lui. Natale a casa, il 27 su uno di quei voli. Il 31 si riattacca con il 250 di Doha, poi l’altro 250 ad Auckland il 7 gennaio e, la settimana successiva, gli Australian Open. «Sto svolgendo una preparazione piuttosto lunga. Molto lavoro sul fisico ma anche molto sul rovescio e sul servizio. Devo migliorare la seconda palla. I miei obiettivi per il 2019? La classifica non fa parte di questi. Mi sto dando da fare, ma in un progetto a lungo termine. Probabilmente, il miglior momento della mia carriera arriverà tra due o tre anni, ma devo anzitutto colmare il gap fisico». HEMINGWAY. Adriano Panana, Umberto Rianna ed Ernest Hemingway. Il primo non fa altro che usare superlativi per il più giovane tennista italiano tra i primi cento e rammaricarsi per lo stato del tennis romano. «Strano che una città grande come questa trovi difficoltà a esprimere giocatori di primo piano. Mi fa piacere che Adriano spenda delle belle parole per me. Ricordo ancora quando da ragazzino mi disse che avrei raggiunto i 220 km/h col servizio. Io scoppiai a ridere. E i 220 li ho raggiunti». Il tecnico federale Rianna rientra invece nella filosofia dell’imparare dalle sconfitte che Matteo ha praticamente tatuata. «Del 2018 ricordo la vittoria al “Pietrangeli” contro Tiafoe (al mio angolo saranno stati in venti…), il debutto sul Centrale del Foro Italico, ovviamente il mio primo titolo a Gstaad, ma anche un suo discorso dopo l’eliminazione a Bastad». Infine lui, Hemingway. «Nel tempo libero mi piace leggere. Per la grande gioia del mio mental coach, ho finito da poco, ammetto con molta fatica, “Per chi suona la campana”. Altrimenti mi piacciono molto i fumetti». La campana di Matteo è già suonata. Tre esempi. Il primo: «Voglio partire forte in questo 2019, consapevole tuttavia che le cose vanno fatte passo dopo passo». ll secondo: «Dovrei anche andare in Davis. Le nuove regole? Saranno secondarie». L’ultimo: «Devo essere consapevole che tutte le settimane saranno importanti, ma che non ce n’è una più importante delle altre. È fondamentale per la continuità». Il nebbione della Transilvania? Bello che diradato


Melbourne, svolta tie break (Diego De Ponti, Tuttosport)

Gli Australian Open sdogano il tie break nel set decisivo. Sign of the times direbbero gli artisti, ma il vento dei cambiamenti che sta investendo il tennis soffia sempre più forte ed investe anche le cattedrali più inviolabili di questa disciplina Agli Australian Open quello decisivo non sarà più un long set. Già dalla prossima edizione dello Slam Down Under, in programma dal 14 al 27 gennaio 2019, sul 6 pari del set decisivo – il quinto per gli uomini, il terzo per le donne – si giocherà un super tie-break a 10 punti (come quello che già da qualche anno si disputa nel doppio). La decisione è maturata al termine di una delle consultazioni più capillari nella storia del tornea «Abbiamo chiesto il parere a giocatori, sia in attività che ex, a commentatori, agenti e analisti della tv se preferissero un long set oppure no e questa è stata la loro decisione», ha dichiarato Craig They, direttore degli Australian Open. «Abbiamo optato per un tie break a 10 punti sul 6 pari del set decisivo per assicurare ai fan ancora una conclusione spettacolare a queste battaglie epiche, con un tie break lungo che permette di avere ancora tante emozioni. In più si stempera un po’ il dominio del servizio che ha un ruolo prevalente nel tie break tradizionale. Noi crediamo che questa sia la soluzione migliore per giocatori e pubblico». […]. La decisione degli organizzatori di Melbourne segue quella recente di un altro Major, Wimbledon, che ha stabilito di introdurre il tie break (classico, a 7 punti) ma sul 12 pari del set decisivo. Per quanto riguarda gli altri Slam, al Roland Garros non si gioca il tie break nel set decisivo mentre agli Us Open sì (classico, a 7 punti)


Il lento suicidio del tennis che ha fretta (Marco Lombardo, Il Giornale)

All’inizio lo chiamarono sudden death, la morte improvvisa. E il significato era che il suo inventore, Jimmy Van Alen, in realtà avrebbe voluto uccidere (sportivamente, s’intende) Pancho Segura, che vinceva e vinceva giocando e rigiocando. E infatti dopo il 22-24, 1-6, 16-14, 6-3, 11-9 con cui Pancho battò Pasarell nella finale di Wimbledon 1969 in 5 ore e 12 minuti, quello che diventerà tie break entrò in vigore l’anno dopo a New York. E cominciò la sua storia. Da allora ad oggi il tennis è un’altra cosa, e soprattutto è finito in mano ai giocatori, che lo vogliono al loro totale servizio: più ricco, più uguale e – soprattutto – più veloce. Così adesso il tie break è diventato l’arma con cui accontentare tennisti e televisioni (quelle che portano i soldoni), per far correre in fretta le partite e abolire quell’inutile romanticismo che faceva tanto sport. La lunghezza annoia, il business invece mai. Per questo nel 2019 anche gli Slam si adegueranno al diktat, ma per mantenere un minimo di faccia alla fine ci si è coperti di ridicolo. In pratica: gli Open di Australia introdurranno il tie break sul 6-6 del quinto set ma ai 10 punti e non ai 7 in vigore dappertutto; Wimbledon se lo inventa sul 12-12 del quinto set alla faccia di John Isner, l’americano «colpevole» di aver portato Anderson a vincere 26-24 dopo 6 ore la semifinale più lunga della storia (2018) e già detentore con Mahut del record di 11 ore e 5 per un match durato tre giorni e finito 70-68 al quinto (2010); Parigi invece resta com’è, senza tie break e senza punteggio in inglese, come richiede la grandeur; New York, come sempre, ammazzerà il gioco in tutti i set. E il tennis? «Resterà l’epica» cantano in coro gli organizzatori, come se nessuno avesse capito che la fretta consacra la mediocrità. D’altronde è cambiato tutto: campi, racchette, campioni che sembrano tali ma che invece hanno la personalità divisa in parti uguali che non fa mai un intero. E quindi via alle sperimentazioni, ai no ad, ai set a 4 punti, ai tie break appunto in vari formati, a una coppa Davis che più che un’insalatiera sembra un barattolo con partite in confezione spray. Il tennis è dunque anch’esso il segno dei tempi: tutto e subito, quel che resterà dopo, pazienza. Il problema è che alla fine, più che improvvisa, la sua sta diventando una morte lenta.


Il richiamo del campo, l’idea impossibile di Rios sulla scia di Borg (Paolo Rossi, La Repubblica)

Nessuno vuole prenderlo sul serio. «Sono stato morso dal verme del desiderio di ritornare». Nessuno gli crede, a Marcelo Rios. Anche se lui ha continuato, ha ribadito: «Voglio essere in grado di vincere, fare nuovamente la storia e cercare di diventare il giocatore più anziano in assoluto a vincere un torneo professionistico». Chi ricorda il tennista cileno? Mancino, con il codino, assolutamente talentuoso, una sorta di McEnroe del Sudamerica. A Santo Stefano compirà 43 anni, essendo un classe ’75, ed ora ha fatto ventilare questa ipotesi, riprendere la racchetta. Ha chiesto (ma non ancora ottenuto) una wild card, un invito, per il Challenger di Columbus, Ohio, al via il prossimo 7 gennaio. Una boutade? Molto possibile, conoscendo e ricordando il personaggio, non proprio esempio di disciplina e regolatezza. Che, comunque, è stato numero uno del mondo nel 1998 e ha anche giocato la sua ultima partita Atp nel 2004. «Ma dai, non ha nulla da fare» dice scherzando Riccardo Piatti. «Il tennis di oggi è tutt’altra cosa rispetto ai suoi tempi…». E l’opinione del coach dell’Accademia di Bordighera è confermata anche da Filippo Volandri, che di anni ne ha 37. «E di tornare a giocare non ci penso proprio! Però lo capisco, Rios: ci pensi da morire, a rigiocare. Ma se non sei allenato non vai da nessuna parte». La storia del tennis è piena di tentativi di ritorni, finiti tutti nell’ambito della tristezza: «Forse non vi ricordate Thomas Muster, e stiamo parlando dell’austriaco la cui abnegazione era nota: al suo ritorno la pallina non viaggiava, si fermava a metà campo. E giocava contro giovanissimi. Sono figure barbine, che poi rovinano i ricordi» spiega ad esempio Massimo Sartori, che è l’allenatore di Andreas Seppi. Andando a ritroso, ecco le immagini di Bjorn Borg sulla terra rossa del Country Club di Montecarlo. Lo svedese aveva deposto la racchetta nel 1983 e, nel ’90, annunciò la sua intenzione, che avvenne nel 1991. Quella partita fu un colpo al cuore per i suoi fans: impegnato contro lo spagnolo Jordi Arrese, Borg racimolò soltanto cinque giochi. Eppure il grande rivale di Mac s’era allenato con Ivanisevic e Becker in gran segreto, ma fu costretto ad accettare la sentenza: non era più competitivo, con la Donnay di legno. «Eppure fisicamente c’era, ma era il suo tennis il problema, senza pressione» . Per questo l’idea di Rios viene presa con le pinze: «Ma dai, non ci credo: davvero ha detto così?». Vincenzo Santopadre, anche lui mancino, di anni ne ha 47. «Se la deve vedere prima con me…». Santopadre si diletta ancora con la Serie A (con l’Aniene), ma palleggia anche con Matteo Berrettini, il suo pupillo. Il coach romano si sforza di voler prendere sul serio le intenzioni di Rios: «Dovrebbe allenarsi tanto, dare continuità. Io non me lo ricordo per essere un giocatore di questo tipo, tutti gli riconoscevamo questo talento che lo aveva portato in cima al mondo. Io dico che magari ha detto questa cosa con cuore, con sincerità. Perché ha davvero ancora amore per il tennis, perché vorrebbe giocare qualche partita, ma io penso sporadicamente. Alla sua età forse è verosimile vederlo impegnato nel doppio, non in singolare». Per questo Nicola Pietrangeli insiste sempre nel suo assunto: «Ognuno è campione nella propria epoca, è inutile che insistete, sono inutili i paragoni». Ma anche i ritorni, a questo punto.

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