Giorno di finali al Foro: l'ennesimo capitolo della sfida Nadal-Djokovic e la sfida Pliskova-Konta (Clerici, Crivelli, Grilli, Azzolini, Cocchi)

Rassegna stampa

Giorno di finali al Foro: l’ennesimo capitolo della sfida Nadal-Djokovic e la sfida Pliskova-Konta (Clerici, Crivelli, Grilli, Azzolini, Cocchi)

La rassegna stampa di domenica 19 maggio 2019

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Il ritorno di Nadal. I colpi che azzerano le differenze d’età (Gianni Clerici, La Repubblica)

Mi rivolgo al mio consocio, che era stato domenica scorsa a Madrid, e non so trattenermi da dirgli: “Ma sei sicuro di aver visto questo stesso Nadal? Non sei stato confuso dal quadro di Goya sulla Pelota?“. Mi viene risposto con una gentilezza di certo superiore alla mia: “Ricordati che erano quattro fine settimana che gli succedeva la stessa cosa. Dal match contro Fognini a Montecarlo, interpretato in chiave nazionalistica“. Mentre sto ripensando a quel che ho scritto, appare sullo schermo Filippo Volandri che si rivolge a Nadal mentre sta eseguendo un diritto incrociato. “Come fai con una presa simile, Rafa?“. Rafa sorride e, contraendo la mano mostra una sorta di pugno, sorridendo. Oggi lo aspetta Djokovic in finale. Io penso che bisognerebbe chiedere allo zio di Nadal, Toni. Tanti anni fa ha trasformato il nipote nato destro in un mancino e, di lì, è uscito un diritto che nessuno aveva mai visto, e che oggi ha sommerso il giovane campione greco in molte occasioni. I break sono arrivati nel secondo gioco di entrambi i set e Nadal ha trovato modo con allegro humour di non poter perdere per il quarto sabato successivo. Ha ritrovato non solo il suo diritto, ma ha giocato molto più dentro il campo, mettendo anche quasi una prima su due (46 per cento) ma sopratutto utilizzando la prima che aveva smarrito, anche per l’incerta condizione fisica. “Avevo una mala – cattiva nel suo italo-spagnolo – sensazione. Sentivo il diritto passivo” ha detto a Volandri. E, ad un’altra domanda sugli “ultratrentennis”, e i giovani della Next Generation, ha preferito rispondere: “Non dobbiamo confrontare gli ultratrentenni con i minori di venti. Possiamo confrontare i giocatori di tennis, le loro qualità, ma non l’età dei giovani e dei vecchi. Tsitsipas è già numero otto, e questo è uno straordinario risultato“. E ha così concluso: “La mia energia non era alta, a Montecarlo e a Madrid. Il recupero del mio ginocchio non è stato facile, e mentalmente non è stato facile potersi allenare come riesco quando sono in buona salute. Quando stai male non puoi allenarti nel modo migliore, e quindi non puoi giocare al meglio“. Cosi parlò lo Zarathustra del Tennis.

Furia Nadal, cuore Djokovic. La finale dei soliti noti incanta Roma (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

La furia contro il cuore. Rafa e Nole ci sarebbero stati benissimo tra le pagine del duello napoleonico di Conrad che poi diventarono anche un film. Un romanzo sterminato, il loro, una rivalità che non ha eguali nella storia dell’Era Open: il Foro Italico celebrerà così la finale più attesa, che diventa il 54° episodio di un testa a testa monumentale. Il satanasso maiorchino, otto volte re di Roma, doveva percorrere la strada più impervia per tornare a giocarsi il titolo dodici mesi dopo il trionfo bagnato dalla pioggia contro Zverev, perché l’Apollo greco Tsitsipas lo aveva battuto giusto sette giorni fa in semifinale a Madrid. Ma quando ritrova un avversario più giovane e un po’ troppo spavaldo che gli ha appena graffiato l’orgoglio, Rafa moltiplica energie, ferocia, concentrazione. In poche parole: non c’è mai partita se non per quelle due palle del controbreak di Stefanos nel secondo game, annullate di prepotenza dallo spagnolo che non si volterà più indietro, ancorato a un dritto profondissimo e pesante che il biondo ateniese non può contrastare. Lotta comunque, Tsitsi, confermando tempra da campione, ma non esiste scambio in cui il Centrale strapieno possa pensare che il destino della partita muti direzione all’improvviso. Il sapore dolce della rivincita si consuma in un’ora e 42 minuti, mentre nel freddo della sera Djokovic, passate le due ore, si ritroverà a partire da capo contro quel cagnaccio di Schwartzman, ercolino con le batterie sempre cariche e una palla corta che si infila come una pugnalata una, due, dieci volte nel cuore del fenomeno serbo. Venuto a capo di Del Potro la sera prima in tre ore esatte (incontro finito all’una e un quarto) e con due match point avversi annullati, ll Djoker si sciroppa altri 151 minuti contro l’argentino minore. L’elogio della fatica per la nona finale romana (quattro successi). Ma non sarà certo il sudore a decidere, alle quattro di oggi pomeriggio, un epilogo al solito impronosticabile e che segnerà un altro passo nella leggenda di due avversari formidabili. Nadal è il nobile guerriero che ha scardinato le gerarchie fin dal primo apparire, Djokovic il soldato partito da lontano e per troppo tempo considerato l’intruso nella saga mitologica tra il maiorchino e Federer. Li unisce però un’inestinguibile sete di vittoria, il rifiuto della sconfitta, la volontà di lottare su ogni punto. Sono troppo simili per essere amici: se Rafa e Roger, uno contro l’altro, sublimano la differenza di stili, gli incroci tra lo spagnolo e il serbo si trasformano sempre in primordiali battaglie a suon di clava. Che possono durare anche 5 ore e 53 minuti, ovvero la finale di Melbourne vinta dal Djoker nel 2012, la più lunga nella storia degli Slam. [segue]

Nole-Rafa, finale Slam (Massimo Grilli, Corriere dello Sport)

Ancora loro due, Nole Djokovic e Rafa Nadal, per l’ottavo duello al sole (speriamo…) di Roma (lo spagnolo è in vantaggio 4-3), il quinto in finale (2-2), un autentico spareggio tra i giocatori che hanno vinto più tornei Master 1000 (33 a testa, terzo è Federer a quota 28). Nadal ha vinto in due set più facili del previsto la sua undicesima semifinale giocata a Roma, e oggi proverà a conquistare il primo torneo del 2019 (l’ultimo, nell’agosto scorso sul cemento di Toronto) e ad allungare a quota 9 il suo record di successi nella Capitale. Djokovic punta alla terza vittoria dell’anno e alla quinta qui, l’ultima nel 2015. Insomma, gli ultimi romantici che speravano di applaudire la prima volta di King Roger al Foro Italico, avranno comunque il modo di consolarsi con le gambe a tiramolla di Djokovic e le chele mortifere di NadaL Roma ha la finale tra il numero 1 e il numero 2 del mondo, quella che ha già assegnato il titolo in Australia, non a caso a una settimana dall’inizio del Roland Garros. Ieri Rafa (60^ vittoria da queste parti, con appena 6 sconfitte) ha tramortito le speranze di Tsitsipas di doppiare la vittoria ottenuta sullo spagnolo giusto una settimana fa a Madrid, con due set quasi simili, neanche tanto combattuti: break al secondo gioco del primo set, al terzo nella seconda frazione. Sulla terra romana, più lenta di quella spagnola, c’è stata troppa differenza tra i colpi a rimbalzo dei due, tutta a favore del numero 2 del mondo. Subito in difficoltà di fronte all’aggressività iniziale di Nadal, il greco ha avuto solo due occasioni di strappare il servizio al rivale, nel gioco più lungo del match (il terzo del primo set) ma non è mai riuscito a sfondare le difese dello spagnolo, inesorabile nei passanti quando il greco ha provato ingenuamente ad avventurarsi a rete. Se la prima palla di servizio lo ha spesso aiutato (7 ace alla fine per lui), sulla seconda è stato troppe volte aggredito dal mancino di Manacor (solo il 42% di punti vinti). Da domani però potrà almeno consolarsi con la sesta posizione in classifica, suo nuovo best ranking. Dopo le tre ore di venerdì sera, nella partita più bella del torneo, il numero uno del mondo ha dovuto sudare ieri altri 151 minuti per avere ragione della grinta e delle gambe di Schwartzman. Dopo un primo set al limite delta sonnolenza, dominato da Djokovic e deciso da un break sul 4-3, la gara è improvvisamente cambiata, quasi che il fantasma di Del Potro avesse ispirato il connazionale, spingendolo a stroncare le gambe affaticate di Nole con una serie di mortifere smorzate (alla fine saranno nove quelle vincenti). Un mese fa Djokovic avrebbe probabilmente ceduto alla distanza, la sua versione romana – che ha già trionfato una settimana fa a Madrid – non prevede invece la parola “arrendersi” nel vocabolario. E mentre si alzavano i cori per Diego, Nole, gli occhi sempre più piccoli, ha ricominciato a remare da fondocampo, mentre anche Schwamman cominciava a piegarsi sempre più spesso sulle gambe. Pur con qualche tentennamento, Djokovic chiudeva regolarmente 6-3, grazie anche al secondo ace di serata. Ma in quali condizioni si presenterà oggi al cospetto di Nadal? Oggi sapremo.

Djoker va al duello con Rafa ritrovato (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Mostra i muscoli, Rafa Nadal, con pose da tennisbuilder, fra i pochi trentaduenni a potersi permettere la canotta sbracciata. Perde il pelo, non il vizio. E offre segnali confortanti a chi ritiene che la terra, quella rossa, ancora gli appartenga, malgrado i continui attacchi ai suoi molteplici possedimenti. A Roma è l’undicesima finale, le vittorie sono otto, ma si guarda al Bois de Boulogne, dove il Roland Garros è pronto a mostrarsi nella nuova veste. Lì, a Parigi, i titoli sono già undici, e il dodicesimo apparterrebbe al tennis dei miracoli, ma Nadal ne ha bisogno più che mai. Come del titolo romano. Si sa, l’età conta, le giunture sono quelle che sono. Per questo è tornato ad arrotare i ferri del mestiere con i gesti antichi, fra le mani protettive di zio Toni, che l’ha seguito nei primi due giorni anche a Roma. Lavorando a testa bassa con i cesti di palle, come fanno i ragazzini quando devono prendere confidenza con la palla. Sotto osservazione il diritto, che nell’ultimo periodo appariva ondivago, pressapochistico, inficiato da una sorta di “shank” tennistico, termine che Rafa conosce bene da ottimo golfista qual è: un errore che prende forma quando la pallina viene colpita con il tacco del ferro e parte a novanta gradi rispetto alla linea ideale. Ma lo ha rimesso a posto, il colpo preferito del suo repertorio, con l’umiltà che non ha mai smesso di mostrare, e lo ha riproposto contro Stefano Tsitsipas dilagando negli angoli e colpendo sempre lungo e potente, un tennis che in breve ha disinnescato quello contundente del greco (avanti nel punteggio solo con il primo game del secondo set) e lo ha fatto divenire a più miti consigli. «Segnali importanti, ma rivolti a me stesso», dice Rafa, «perché sto ritrovando la strada giusta e proprio nel momento che serve. La finale è parte di questo processo. Recuperare il mio livello è più importante della finale, comunque». Poi aggiunge con quel pizzico di humor che la sua voce chioccia rende al meglio: «Finalmente ho vinto una semifinale». […] La finale è infatti fra il numero uno e il numero due del torneo, e potrebbe anticipare la finale parigina,. Nole ha dato modo all’argentino pequeno Diego Schwartzman, che gli rende 28 centimetri in altezza, di scorrazzare lungo i tre set dell’incontro, ma alla fine ha trovato il modo per tirarsi fuori dal lungo tira e molla. Già si era sentito fuori dal torneo con l’argentino “palito” Juan Martin Del Potro, che nella sfida di venerdì notte, terminata all’una, ha giocato male solo due colpi, quelli sui due match point che avrebbero messo alla porta il Djoker. Due match da oltre 5 ore di gioco complessive. Potrebbe pagarli cari.

Konta e Pliskova, le redivive. Una chance per tornare nobili (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Karolina Pliskova sta tornando. La ceca che 2 anni fa era numero 1 al mondo ha trovato la ricetta giusta per tornare in alto. Ieri è toccato a lei eliminare la prima greca semifinalista nella storia del torneo; oggi contro Johanna Konta va a caccia del Wta Premier Mandatory che le era sfuggito a Madrid. Orfani di Serena, che resta sempre una star anche quando non gioca, e con la numero 1 Naomi Osaka ritirata dai quarti per un dolore al pollice destro, la lotta per il titolo oggi sarà tra la Pliskova e Johanna Konta, due «nobili decadute», che nel 2017 erano nella top 5 e hanno avuto grossi cali di rendimento. La britannica pupilla di mamma Murray, dopo un 2018 da dimenticare, sta risalendo velocemente e oggi gioca la prima finale importante sulla terra della carriera. Un bel regalo di compleanno per lei che ha festeggiato i 28 anni venerdì battendo la Vondrousova. Ieri Johanna, prima finalista britannica al Foro da Virginia Wade nel 1971, ha eliminato una pericolosa Kiki Bertens in tre set. «Jo», che due anni fa era numero 4 al mondo e ora galleggia intorno al 40, non vuole sentire parlare di ranking: «Non mi sono mai identificata con un numero – ha detto dopo il match contro l’olandese -, e non ho nemmeno un obiettivo in questo senso. Sono sempre andata avanti cercando di vincere tornei ed essere la migliore al mondo. Solo questo ha importanza, ed è per questo che gioco. So bene però che attorno a me un bel po’ di ragazze hanno la mia stessa idea». La finale non sarà cosa facile contro una Pliskova in crescita, anche dal punto di vita mentale: «Una finale non è mai una cosa facile, soprattutto con Karolina, che ha avuto sempre un alto livello di gioco. Tatticamente è molto intelligente e serve fortissimo, quindi credo daremo un bello spettacolo». Karolina Pliskova negli ultimi mesi ha trovato la ricetta vincente: affidarsi solo ed esclusivamente a Conchita Martinez, la spagnola ex numero 2 al mondo che in veste di super coach aveva già portato Garbine Muguruza alla vittoria di Wimbledon nei 2017. Una collaborazione consolidata a febbraio, dopo il torneo di Dubai. La ceca ha fatto un lungo ritiro con la Martinez a Tenerife a fine dell’anno scorso e ha capito che il suo modo di lavorare era perfetto per lei, e si vede: «Mi piace molto il metodo di Conchita e ho deciso di non collaborare con altri coach. Non c’è motivo di essere troppi nel mio angolo. Conchita sa perfettamente che mi piace tanto lavorare con lei, mi diverto e vedo risultati. Sulla terra battuta secondo me è la migliore, data la sua storia personale, e credo che mi possa insegnare un sacco di cose nuove. Conchita era fortissima sulla terra ma anche sull’erba… il meglio deve ancora arrivare».

Johanna ora Konta di più (Massimo Grilli, Corriere dello Sport)

La ragazza dai tre passaporti ha forse ritrovato la strada per la gloria. Non è stata semplice fin qui la carriera di Johanna Konta, 28 anni compiuti venerdì, attuale numero 42 del mondo (ma è stata 4 due anni fa). Nata in Australia da genitori ungheresi, è nipote di Tamas Kertesz, nazionale ungherese di calcio negli anni Cinquanta. Quattordicenne, Johanna è volata in Spagna, nell’accademia di Barcellona dei fratelli Sanchez, ma la vera svolta è arrivata nel 2012, quando ha preso il passaporto britannico (adesso ne ha tre: australiano, ungherese e inglese) perché i genitori si erano trasferiti da tempo a Eastbourne, in tempo per giocare l’Olimpiade di Londra. I giornali l’hanno spesso accusata di non conoscere l’inno inglese, ma Johanna – cresciuta nel mito della Graf, in possesso di due robusti fondamentali e soprattutto di tanta grinta – è riuscita a rinverdire le glorie britanniche, che in campo femminile erano piuttosto polverose. E così nell’ottobre del 2016 è sbarcata tra le prime dieci della classifica, grazie anche alla semifinale raggiunta agli Open d’Australia, piazzamento ripetuto l’anno dopo addirittura a Wimbledon, cosa che non succedeva alle suddite della Regina dai tempi di Virginia Wade, 39 anni prima. La Wade è stata anche l’ultima finalista britannica a Roma nel 1971, il che potrebbe essere di buon auspicio per la Konta, che ieri ha battuto l’olandese Bertens, andata vicino a vincere in due set prima di cedere velocemente al terzo. «E’ un grande risultato, tra i migliori della mia carriera. Non ho mai dubitato della mia abilità sulla terra, da junior era la mia superficie preferita». Dopo un 2018 da dimenticare e un tourbillon di allenatori, si è affidata da poco al francese Dimitri Zavialoff, ex-coach di Wawrinka, che le sta facendo prendere atto delle sue potenzialità sulla terra battuta, dove quest’anno è stata già finalista a Rabat. Rispetto a quello della Konta, più regolare il successo della ventisettenne Karolina Pliskova (n.7 della Wta) sulla rampante greca Sakkari (39), un doppio 6-4 senza tante emozioni dopo che nel primo set aveva dovuto annullare una palla del 2-5. Particolare curioso: chiuso il match-point, non aveva capito di aver vinto e si è rivolta al raccattapalle per farsi dare l’asciugamano. «Sentivo il mio staff urlare, ci ho messo un po’ a capire perché…». Nel 2018 Karolina era stata battuta qui nel secondo turno proprio dalla Sakkari, e a fine partita aveva sfondato la sua racchetta sul seggiolone del giudice di sedia, reo di non aver corretto una chiamata sfavorevole alla ceca. Un anno dopo si è ripresentata con all’angolo Conchita Martinez, la spagnola che al Foro Italico ha vinto quattro volte di fila, tra il 1993 e il 1996. Evidentemente la sua nuova allenatrice – che nel 2017 aveva aiutato la Muguruza a trionfare a Wimbledon – è stata decisiva nei progressi sulla terra della Pliskova, che se oggi dovesse vincere salirebbe al secondo posto della classifica, dietro solo alla Osaka.

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