Behind the Racquet: il riscatto di Taylor Townsend

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Behind the Racquet: il riscatto di Taylor Townsend

Provvista di un tennis peculiare e vittima di infiniti pregiudizi sin dalla tenerissima età, la ventitreenne da Chicago sembra aver trovato la sua strada

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Da quando ho preso in mano la racchetta non ricordo un singolo momento in cui i pregiudizi sul mio peso mi abbiano risparmiata. Avevo due anni, poco più, e mi torna alla mente il primo barlume di reminiscenza dell’infanzia: un coach mi mandava via dal corso di tennis perché ero grassa, scostante e non allenabile“. Un talento purissimo, quello di Taylor Townsend, e una taglia fisica non adeguata al mestiere secondo schiere di allenatori, dirigenti e danti causa assortiti, tutti portatori di dolorosi e stupidissimi pregiudizi.

“Non andavo bene, mi sentivo al centro dell’attenzione per questioni che non mi piacevano proprio. L’unico posto dove mi sentivo al sicuro, dove mi sentivo felice, era il campo, perché mentre giocavo nessuno poteva dirmi nulla, lì ero veramente libera“. Chiacchiere ed esternazioni discutibili sputate da molti sedicenti portatori di verità inscalfibili non hanno potuto evitare che la debordante propensione al tennis portasse Taylor a Boca Raton, città-sede del centro tecnico federale USTA, ad appena quattordici anni.

Vincevo di tutto in doppio, ma in singolare facevo fatica. Mi ricordo un episodio particolarmente significativo: perdo un match in un evento ITF junior in singolo e prendo da parte Noah Rubin (“CEO” di Behind the Racquet, NdR) per dirgli che non sono abbastanza brava spaiata. Mi risponde di avere pazienza, perché la strada è lunga e i risultati sarebbero arrivati per forza“. La settimana dopo Townsend vinse il suo primo torneo ITF in singolare a Tulsa, Oklahoma, e il gennaio seguente addirittura l’Australian Open junior battendo in finale Yulia Putintseva.

Numero uno del mondo tra le giovanissime, Taylor passò professionista a quindici anni, ma il tratto duro del percorso, anziché arrancare alle sue spalle, l’aspettava dietro il primo tornante. “In quel periodo ho scoperto che mia madre rubava i soldi dei prize money per farsi gli affari propri, ed è stato un trauma profondissimo, ma anche una rivelazione: nessuno merita la tua fiducia solo per il nome che porta, solo per il ruolo che ricopre. Ho tenuto duro e mi sono trasferita ad Atlanta, circondata da persone che si sarebbero buttate nel fuoco per me. È stata dura ma non tornerei indietro per nulla al mondo. Sono più che orgogliosa di ciò che ho conquistato e voglio proseguire su questa strada, migliorando sempre di più“.

Taylor Townsend gioca un tennis vario e inusuale, avvolto in una scorza dura utile a proteggerla quando i risultati non arrivavano e le malelingue, mascherate da manager federali, la vessavano minacciandola di tagliarle i viveri, volendo punirla per i soliti presunti chili in eccesso. La storia è nota: nel 2012 la Federazione americana decise di non sostenerla economicamente durante la sua permanenza all’Open degli Stati Uniti qualora la ragazza “non fosse rientrata nei parametri di peso richiesti“. Il mondo del tennis si rivoltò, Taylor giocò lo stesso arrangiandosi con le spese e Patrick McEnroe, fratello di John e presidente USTA, fu costretto a una precipitosa retromarcia.

Da allora Townsend ha faticato a trovare continuità veleggiando tra alti e bassi continui, ma nella coda dello scorso anno tennistico qualche ulteriore tassello sembra essere andato al posto giusto: raggiunta per la prima volta in carriera la seconda settimana in un Major a New York con tanto di scalpo di Simona Halep (e sconfitta in ottavi dalla futura campionessa Bianca Andreescu), Taylor è tornata a occupare una buona posizione in classifica tra le prime cento (oggi è settantasettesima) e a seminare speranze per il futuro. Con quel serve and volley occorre augurarsi che vengano esaudite.

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