Il giorno 5 agosto 1984 la maratoneta elvetica Gabriela Andersen-Schiess fa il suo ingresso nel Los Angeles Coliseum con abbondante ritardo nei confronti della medaglia d’oro Joan Benoit. Lo sforzo sostenuto e le alte temperature la portano alla disidratazione; le immagini ne mostrano la sofferta andatura a zig-zag e l’espressione stravolta del suo viso, pur semicoperto dal cappellino.
Più volte i medici intorno alla pista di atletica si avvicinano per soccorrerla, ma lei rifiuta ogni intervento, sapendo che se venisse soccorsa e aiutata a continuare incorrerebbe nella squalifica. Il suo ultimo obbiettivo è percorrere la distanza, raggiungere e superare il traguardo, non importa in quali condizioni. Il mondo si commuove e fa il tifo per lei, che impiega circa cinque minuti per percorrere il giro di pista. Nei giorni successivi sui giornali e in televisione si confrontano i favorevoli e i contrari, chi plaude all’atleta che oltrepassa i propri limiti e chi rimane perplesso quando non disgustato da uno spettacolo angosciante e (pure) antiestetico.
Sia come sia l’incedere barcollante e incerto di Gabriela, che si riprenderà nel giro di poche ore e che ci risulta essere ancora in vita (79 anni, così almeno riferisce Wikipedia), rimarrà impresso profondamente nell’immaginario collettivo e lei verrà ricordata a lungo come uno dei più fulgidi esempi di incarnazione dello spirito olimpico. Erano i Giochi del niet di Mosca, cui la Romania di Ceausescu non si allineò, e dei trionfi per noi, tra gli altri, di Alberto Cova nei 10000 metri e di Gabriella Dorio nei 1500 piani contro gli spauracchi inviati proprio da Bucarest Doina Melinte e Maricica Puica.
Il tennis rientrava proprio in quell’occasione nell’universo a cinque cerchi con la formula, vagamente ipocrita per una disciplina così popolare, di “sport dimostrativo”: i tornei di singolare furono vinti dalla quindicenne Steffi Graf e dal ventenne Stefan Edberg e ci fu gloria anche per gli azzurri con Raffaella Reggi e Paolo Cané sui rispettivi gradini più bassi del podio.
I campioni del nostro sport hanno impiegato del tempo per interessarsi al torneo all’ombra del Braciere: Lendl divenne cittadino americano nel 1992 e fino ad allora certo non pensò a gareggiare per la Cecoslovacchia e Sampras andò solo a Barcellona sempre nel 1992, uscendo al terzo turno per mano del russo Andrei Cherkasov.
Lo spirito olimpico ha però nel tempo fatto breccia nel cuore e negli obbiettivi degli eroi della racchetta, permeando con il suo innegabile fascino le loro fantasie e indirizzando parimenti i loro calendari, perlomeno ogni quadriennio. Oggi si può dire che uno dei rimpianti della carriera per Roger Federer è proprio l’aver mancato il metallo più nobile nella finale di Londra 2012 contro Andy Murray e che forse Novak Djokovic, che pianse amaramente dopo la sconfitta al primo turno a Rio nel 2016 contro Juan Manuel Del Potro, sarebbe disposto a barattare un titolo Slam per farsi immortalare mentre mordicchia raggiante il dischetto d’oro.
Ritiri e rinunce
Tutto molto bello e edificante, fino al 3 luglio 2021.
“Non è stata una decisione facile da prendere ma ho deciso di non partecipare ai Giochi Olimpici quest’anno. Rappresentare il mio paese è un privilegio ed un onore e spero di poterlo fare per tanti anni. La decisione è stata dettata dal fatto che non ho giocato il mio miglior tennis durante gli ultimi tornei e devo concentrare sulla mia crescita. Ho bisogno di questo tempo per lavorare sul mio gioco, il mio obbiettivo è diventare un miglior giocatore in campo e fuori. Sono pronto a mettermi ancora di più in gioco con l’obbiettivo di migliorare. Sono sincero con voi e spero che potrete capire il mio ragionamento dietro a questa decisione. Sento che questa sia la scelta migliore per il mio futuro.”.
Con un post su Instagram, il ventenne Jannik Sinner, una promessa certa e già vincente (ha in quel momento al suo attivo le ATP Next Gen Finals di Milano nel 2019) salta l’ambitissimo torneo a Tokyo, semplicemente per allenarsi. Per alcuni lo snobba, per altri mortifica il sopraccitato spirito olimpico; il nostro direttore ipotizza che nella decisione possa essere entrato anche il timore della pandemia. Per un motivo o per un altro il giovane Sinner prende una decisione sicuramente spiazzante e che viene letta come superba o insensibile al dovere di rappresentare il paese. Decisione la sua, presa di concerto con lo staff, certo discutibile e impopolare. Lui se lo deve aspettare perché prova a indorare il messaggio, ma la sostanza non cambia: io resto a casa.
È la più importante di una serie di rinunce che coinvolgono per quattro volte anche la nazionale in Coppa Davis; Jannik cresce e chiude l’anno al nono posto del ranking ma nel 2022 il suo best ranking non migliora. Dopo le prime settimane dell’anno viene ufficializzato il cambio della guida tecnica con l’avvicendamento di Riccardo Piatti a favore di Simone Vagnozzi, cui viene affiancato l’australiano Darren Cahill; i risultati come detto non arrivano e le ironie sull’utilità della scelta si sprecano. Sinner vince solo il torneo di Umago, manifestazione non certo di prima fascia, battendo Carlos Alcaraz, che sconfigge anche a Wimbledon ma da cui perde dolorosamente a New York dopo aver mancato un matchpoint.
Il murciano vince il torneo e questo si riverbera anche sul ventunenne di San Candido, che deve accettare i paragoni con il prodigio iberico che vince di più pur essendo più giovane di ben due anni. Inoltre, Jannik tra rinunce e ritiri esce anzitempo in quattro tornei, per infortuni o per (eccesso di) prudenza. Insomma, sono tutti d’accordo che il ragazzo dispone di un talento immenso ma forse non sa cambiare passo, non ha personalità e probabilmente è anche fragile dal punto di vista fisico.
Il 2023 inizia meglio, nonostante l’ennesima caduta a Melbourne contro Tsitsipas: Jannik batte il greco a Rotterdam ma perde la finale al cospetto di Medvedev. Il percorso sul cemento americano lo vede in semifinale a Indian Wells e in finale a Miami (ma c’è Daniil); a Montecarlo perde in maniera rocambolesca da Rune e fa peggio a Roma con Francisco Cerundolo e a Parigi addirittura con Altmaier.
A Londra arriva una semifinale con un tabellone non troppo duro e una netta sconfitta da Djokovic, che ha la ventura di perdere la finale proprio da Alcaraz; in agosto finalmente la vittoria in un Master 1000, a Toronto, ma a Flushing Meadows gli ottavi gli sono fatali nel duello con Zverev.
Ci sono durante l’anno due walkover (Marsiglia e Barcellona) e soprattutto la rinuncia alla convocazione in Coppa Davis nell’appuntamento autunnale a Bologna per la conquista del diritto a giocare la settimana finale a Malaga in novembre. Apriti cielo.
Il commitment
Fino a quel momento Jannik Sinner continua con cortesia ma anche con fermezza a inalberare il cartello “lavori in corso” per spiegare il suo apparente gioco a spendersi meno, a sottrarre, a sottrarsi. È una strada disagevole e irta di insidie che si palesano ogni qual volta il Rosso perde un match alla sua portata o non risponde a una convocazione. Lo staff lo affianca graniticamente e lui si lascia guidare, fiducioso nei suoi mentori. Forse non è troppo empatico e ogni tanto dobbiamo sorbirci l’accenno in merito alla sua scarsa italianità. Quello che lo discosta dallo stereotipo italico in effetti non è però la preposizione semplice che saltuariamente si perde nel suo eloquio, quanto la fede inattaccabile nel lavoro, nella squadra e nel programma.
Con la motivazione del lavoro e della crescita tecnica Sinner spiega ogni scelta e a questi due concetti assoggetta ogni decisione in merito ai tornei da disputare, perché la programmazione e il committment, ossia il rispetto e la dedizione al programma, fanno la differenza. Sicuramente ben consigliato, Jannik non ha bisogno di altro e nel pubblico si rincorrono i dubbi e l’ammirazione anche un tantino sgomenta per come un teenager possa solcare imperturbato il mare di chiacchiere, molte sensate, altre meno, diverse ancora senza discernimento e volgari ma che permangono e fanno volume nel magma-social.
L’applicazione senza concessioni al Programma lo ha condotto a rinunciare a eventi importanti, a bagni di folla e a momenti di popolarità spicciola che, una volta scansati si sono ritorti nei suoi confronti in varie forme e gradazioni di critica, dalle più circostanziate a quelle più becere. Davanti a tutte queste esternazioni non ha mostrato tentennamenti e quando ha sentito di non poter più migliorare con la precedente guida tecnica, di sicuro e certificato valore, ha guardato avanti e si è comportato di conseguenza. Voltando cioè pagina.
Jannik Sinner numero uno è questo e altro. La sua storia ci suggerisce infatti che nella realtà di oggi, dove tutti, quale che sia il livello di conoscenza di una materia, abbiamo il diritto di pontificare, dare consigli e dismettere a parole carriere altrui, essere professionisti e lavorare percorrendo le tappe di una programmazione studiata meticolosamente è ancora la condizione non sufficiente ma necessaria per aspirare ai massimi livelli.
Tornando al caso particolare è come se i frutti di una scaletta declinata molto prima giungessero da quei giorni di fine estate a maturazione, come se un canovaccio incomprensibile ai più fosse lentamente mutato in una sceneggiatura da Oscar. Il commitment di Sinner è quello dei grandi campioni e per lui diventano calzanti e persino doverosi i paragoni con Djokovic ma anche con Federer, che ha creduto di poter ritornare a essere il numero uno ed è riuscito nell’intento nel 2018.
La svolta dopo il settembre di Davis
La polemica tra innocentisti e colpevolisti infuria dopo l’ennesimo sgarro dell’altoatesino alla maglia azzurra e si parla anche di amore mai nato tra L’Italia (intesa come squadra ma volutamente in bilico con il significato più ampio di patria) e il freddo altoatesino. Gli verrà ricordato come il suo atteggiamento di giocatore sconfitto negli ottavi di finale allo US Open contrasti con quello di Djokovic, capace di vincere a New York e di vestire la maglia della nazionale serba pochi giorni dopo.
L’Italia, come è noto, passa il turno contro avversari non impossibili (Canada senza Aliassime e Shapovalov, Cile e Svezia) ma rischiando moltissimo e ringraziando in primo luogo la determinazione di Matteo Arnaldi e Lorenzo Sonego. Chissà cosa avrebbe dovuto leggere Jannik in caso di eliminazione, ma anche così le polemiche divampano per diversi giorni.
L’incendio è però di breve durata e le stazioni del percorso vincente di Sinner, già riportate su questo sito, si completano come tutti rammentiamo: nel febbraio di quest’anno vince la semifinale di Rotterdam e si assicura la terza piazza, che diventa seconda con la vittoria di Miami. In questo elenco non entrano due frangenti indimenticabili come la conquista della Coppa Davis e la vittoria in singolare con Djokovic nella semifinale dei tre matchpoint annullati e lo Slam di Melbourne con i due set rimontati a Medvedev in finale.
Nel breve volgere di otto mesi circa Sinner ribalta tutto e dal fine settimana di Malaga sono solo elogi al tennista e alla persona, allo stile di chi non cerca rivincite, di chi regge l’ombrello alla ballgirl, di chi da ragazzo è diventato uomo, Jan The Man. E che non dimentica, solo perché ora i risultati arrivano, come ci si deve comportare. in nome del target non si partecipa a nessuna sagra, red carpet o Festival, le concessioni sono nulle o comunque misurate. Si può pensare che ci sia esagerazione, che ogni tanto qualcuno del suo entourage gli possa dire “e fattela ogni tanto una risata”, ma è pur vero che ognuno di noi è in pace con sé stesso come meglio gli aggrada, e Jannik pare proprio esserlo.
Sinner numero uno, quanto durerà il ventottesimo leader del computer ATP? Se vogliamo considerare la storia dei suoi ultimi due anni, non pare davvero destinato ad essere una meteora. Anche perché sembra essere, molto più di qualche nome che fa parte del club di cui è divenuto membro, padrone del proprio destino tennistico. C’è da fidarsi, insomma, del suo committment.