Battaglia dei sessi

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Battaglia dei sessi

Le parole di John McEnroe su Serena Williams hanno riaperto un antico dibattito: “Serena sarebbe n.700 tra gli uomini”. Polemiche, falsi miti e la storia fin dal principio

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Periodicamente il dibattito si riapre. Spesso da angolazioni e con pretesti differenti, e tutte le manifestazioni di questo scontro condividono una certa ruvidità. Si fronteggiano due estremi. Chi sostiene in modo incondizionato la superiorità del tennis maschile su quello femminile, sia in termini di qualità che di appeal, e chi invece rivendica una parità di montepremi e attenzione mediatica tra i due circuiti.

Con buona approssimazione si può identificare un episodio per ogni stagione tennistica in grado di riattivare questo flipper di opinioni. Nel 2016 era toccato al poco cauto Ray Moore abbandonare la carica di direttore del torneo di Indian Wells. “Le donne dovrebbero inginocchiarsi davanti a Federer e Nadal” l’anatema pronunciato in una conferenza stampa dal sapore di lettera di dimissioni. Nonostante età ed esperienza dalla sua, l’ex tennista sudafricano non si era trincerato dietro la diplomazia palesata più da Djokovic che da Simon nell’affermare che sì, in effetti il tennis femminile non può essere paragonato al tennis maschile. I giocatori non si dimettono ma i direttori dei tornei in certi casi sono costretti a farlo, e Ray è rimasto schiacciato tra l’incudine e il martello di questa Battaglia dei Sessi.

Battle of the Sexes” è anche la denominazione dietro cui si celano tutti gli incroci su un campo da tennis tra un uomo e una donna. Ci sono due modi per giustificare quest’esigenza di confronto. La risposta a una provocazione o la semplice esigenza di intrattenimento. Nel 1922 Bill Tilden rifilava un bagel a Suzanne Lenglen ma il clamore dell’evento fu relativamente contenuto, anche perché la figura di Suzanne risultava ancora pienamente avvolta nel mito. Quando nel 1973 il 55enne Bobby Riggs – 22 anni già trascorsi lontani dal tennis e un paio di US Open pre-guerra in saccoccia – affermò pubblicamente che nessuna tennista in attività avrebbe potuto batterlo, la provocazione fu raccolta da Margaret Court assieme ai soli tre game che lo spietato Riggs le concesse il 13 maggio. “Mothers’ Day Massacre“, così sarebbe diventato famoso il 6-2 6-1 maturato nel giorno della festa della mamma.

IL VIDEO DELL’INCONTRO

In soccorso della sua rivale giunse però Billie Jean King, che inizialmente aveva rifiutato di affrontare Riggs. Sentitasi forse colpevole di aver mandato Margaret “al macello”, o inorgoglita dalla prospettiva di vittoria, decise di tornare sui suoi passi ma non prima di aver studiato attentamente il fallimento della sua collega e preparato per Riggs un’accurata ragnatela tattica. Era una giocatrice aggressiva, amava il gioco di rete, ma quel 20 settembre a Houston scelse di piantarsi a fondocampo e giocò con Riggs al gatto col topo, evidenziandone l’imperfetta condizione atletica. Vinse tutti e tre i set previsti (6-4 6-3 6-3) alla faccia di Jack Kramer, ormai commentatore televisivo, che la stessa King era riuscita a far estromettere dalla cronaca della partita per le sue dichiarazioni. “Kramer non crede nel tennis femminile, quindi non crede in metà di questa partita. Perché dovrebbe prendervi parte?“.

Billie Jean si portò a casa anche un assegno da 100.000$, a testimonianza del seguito mediatico – questa volta sì – dell’evento. Tanto che qualcuno si arrischiò ad avanzare l’ipotesi di una sconfitta premeditata da parte di Bobby Riggs, con l’obiettivo di guadagnare una grossa cifra scommettendo contro se stesso (era opinione diffusa che Riggs avesse da saldare dei debiti di gioco). In un clima culturale in cui tutto sommato la superiorità del tennis maschile non era ancora stata messa in discussione, il successo di King fu trasformato più nell’ovvio risultato di una “battaglia generazionale” che celebrato come l’inaspettata affermazione di una donna nella “battaglia dei sessi”. Riggs in fondo aveva 55 anni, 25 in più della sua avversaria.

È parere comune che la seconda edizione della Battle of the Sexes abbia effettivamente foraggiato una nuova consapevolezza del valore del circuito stesso nei vertici del tennis femminile. Un lungo percorso ha condotto verso una progressiva parificazione di opportunità e montepremi tra ATP e la neonata WTA, eretta proprio nel 1973 grazie all’apporto di Billie Jean King. L’inizio di questa nuova fase nei rapporti tra tennis maschile e femminile non ha certo fermato il dibattito né interrotto la genesi di certe provocazioni. A seguito di qualche esibizione senza troppo mordente, la terza editione della battaglia dei sessi andava in scena nel 1992 tra Martina Navratilova (36 anni) e Jimmy Connors (40), la prima in cui l’età dei contendenti fosse paragonabile. Un paio di vantaggi importanti per Martina: corridoi validi per lei, un solo servizio per lui. Finiva 7-5 6-2 in favore di Jimbo con annessi rumours di scommesse attorno all’evento, diventati realtà con l’ammissione di Connors nel 2013: “Ho scommesso un milione di dollari sulla mia vittoria. Il mio problema di giocatore d’azzardo era fuori controllo“. Dopo sarebbero arrivate le bizzarrie di Noah contro Henin e la sciarada Djokovic-Li Na di Pechino 2013. Robetta buona per il gossip.

Si torna quindi al presente. John McEnroe non è famoso per le maniere delicate e ha pungolato Serena Williams, ai box per l’imminente nascita del primo figlio. “Sarebbe n.700 del mondo tra gli uomini” ha sentenziato lui, “Ti adoro ma rispetta la mia privacy, sto cercando di avere un bambino” la replica della quasi mamma. Tutta la storia è riassunta qui, compreso il precedente del 1998 quando agli Australian Open un tennista tedesco con il vizio della birra – l’espressione sembra abbastanza familiare – frustrò le manie di grandezza delle giovani sorelle Williams, 16 e 17 anni all’epoca, convinte di poter battere un professionista attorno alla posizione 200 del mondo. Karsten Braasch era n.203 e inflisse a entrambe una severa lezione: 6-1 a Serena, 6-2 a Venus. Forse per questo Serena è particolarmente sensibile all’argomento.

Nella trattazione possono trovare spazio anche degli interessanti esperimenti che girano per il web, video nei quali vengono immortalate sfide tra una tennista professionista e un amatore. Questo è uno degli esempi. Il maschietto non è esattamente il ritratto di un fisico sportivo, lei era all’epoca (2013) la n. 737 del mondo. Vince la ragazza in un long set a otto (8-2) senza che lo spettacolo sia indimenticabile.

VIDEO: TENNISTA DONNA (PROFESSIONISTA) CONTRO AMATORE

Quali indizi si possono raccogliere da questa carrellata di aneddoti e sfide sull’orlo del dibattito sessista? Innanzitutto serve fare un distinguo. La differenza di appeal non è una macchinazione massonica, non esiste un piano scientifico che induce i tifosi ad ammassarsi per guardare il tennis maschile e poi scansarsi per (non) assistere a quello femminile. Se da un lato alcuni media e alcuni tra gli addetti ai lavori possono ritenersi “colpevoli” di dare a prescindere maggiore spazio e rilevanza agli eventi maschili, anche quando le donne offrono più qualità e incertezza di risultati, dall’altro seguire una partita maschile piuttosto che una femminile rimane una scelta consapevole dell’appassionato. Nell’epoca in cui è possibile selezionare praticamente qualsiasi match in un palinsesto, ed è plausibile dialogare quasi alla pari con chi gestisce il mondo dell’intrattenimento e dell’informazione, non si può credere che il tifoso non abbia scelta. Il fattore economico? Strangola gli organizzatori. Lo sport è intrattenimento, vive se sostentato. E spinge nella direzione in cui viene sostentato il più possibile.

L’altro aspetto riguarda la differenza “concreta” tra tennis maschile e femminile. In termini di colpi, punti, servizi. Tra i 299 vincenti tirati da Ostapenko al Roland Garros quelli di dritto andavano a una velocità media superiore a quella di qualsiasi tennista di sesso maschile eccettuati Nadal, Wawrinka e Thiem. Del resto il dato è curiosamente in linea con l’accusa principale al circuito WTA: “di là picchiano e basta”. Da fermo, insomma, c’è chi se la può giocare. Serena ha punte di velocità con la prima di servizio che alcuni top 100 non raggiungono. Eppure a ben indagare il tennis di vertice maschile anche qui una buona maggioranza dei punti si basa sull’aggressione con il servizio in vista della chiusura con il dritto. Allora perché Serena fa una manciata di punti col n.203 del mondo, e McEnroe (e altri con lui) suppone che non batterebbe un top 500?

Karsten Braasch in mezzo alle due sorelle Williams

Ci vengono in soccorso alcune dichiarazioni della stessa Serena dopo la giovane disfatta contro Karsten Braasch. “Molti dei miei colpi sarebbe stati vincenti nel circuito WTA. Lui li ha presi quasi tutti“. Probabilmente è proprio la mobilità in campo a costituire la maggiore differenza tennistica tra un uomo e una donna. Nella velocità di copertura del campo, nella rapidità necessaria per i cambi di direzione, nella capacità di spingersi in recuperi più estremi. Laddove è stato assodato come nei singoli colpi le donne possano produrre spettacolo esattamente come gli uomini, la resa complessiva di una partita maschile “media” potrebbe apparire superiore proprio in virtù delle maggiori qualità atletiche dei contendenti. Una supposizione se confrontiamo lo spettacolo offerto dai due circuiti, una certezza se vogliamo provare a spiegare come mai una donna fatica (e faticherebbe) a competere contro un professionista anche di livello molto inferiore.

Niente trucco né inganno. La dichiarazione di John magari potrebbe essere considerata inopportuna nei modi – e magari il termine di riferimento corretto non è il n.700, difficile saperlo – ma il nocciolo della questione può difficilmente essere messo in discussione. Questo ovviamente non deve influenzare in alcun modo l’atteggiamento sospettoso “a prescindere” nei confronti del tennis femminile. Si rischia di confondere mele e pere. In fondo l’obiettivo di uno sport è primeggiare all’interno della propria categoria. Mica far meglio di tutto il frutteto.

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