Lamento per Fernando Verdasco

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Lamento per Fernando Verdasco

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TENNIS – Secondo racconto di un’impresa quasi sfiorata. Da Madrid ci traferiamo a Londra, dove un ritrovato Fernando Verdasco stava per spezzare il sogno del Regno Unito. Daniele Vallotto

 

«Non voglio vederlo!
Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo!»

Federico García Lorca, Lamento per Ignacio Sánchez Mejias 

Dicono che sono stato fortunato ad arrivare fin qua, che il verde non fa per me e che mi dovrò inchinare al prossimo Re d’Inghilterra. Beh, tutti i favoriti si sono fatti fuori e sull’erba non combino granché. Però contro di lui ho vinto qualche tempo fa e non era un match da poco. Ah, che torneo! Se ci ripenso… Ma meglio che non ci ripenso, sennò mi vengono i lucciconi. Sembrano passati vent’anni da quella partita. Invece ne son passati quattro e mezzo e tutti mi ricordano sempre e solo quel torneo. Io, che non ho più rivisto un solo secondo di quella partita, devo sempre combatterci, con quella partita. Roba da Lacuna Incorporated.

Pronti via e doppio fallo. Come a dire: se non vi ricordate come terminò quella battaglia, ve lo ricordo io. Figurati se non se lo ricordano. Gli spalti non sono esattamente pieni ma tra il pubblico vedo Fergie e penso che lo scozzese sarà pure anglosassone ma ha una scaramanzia tutta mediterranea. Dopo due game comincio già a sentire la tensione: un paio di errori, facciamo anche tre e quello può già scappar via. Ma quando servo da sinistra faccio male (ti ricordi il match point a Melbourne?) e con un bolide metto le cose a posto. Quell’altro comunque non sbaglia un accidente quando batte. Però commette l’errore di sottovalutarmi. Sul quattro pari, visto che io non mollo, il principe ereditario prende l’iniziativa, mi fa girare come una trottola e comincio a sentire un principio di emicrania. Ma la mia aspirina si chiama dritto sulla riga. Un coro di “ooooh” tra l’affranto e lo stupefatto accoglie il trenta pari. Il doppio fallo mi fa tornare l’emicrania anche perché la mia testa si riempie di quel dannato match. Per fortuna che c’è l’aspirina dei bei tempi, il servizio da sinistra che mette ancora a posto le cose.
Cinque a quattro. Lui parte con un ace, io ribatto con un nastro fortunato. Poi mi apparecchia una seconda da azzannare e gli stampo un rovescio comodo comodo. Ora mi serve solo un po’ di fortuna. Adocchio il prato in cerca di quadrifogli. Eccone uno! È un bel dritto comodo che lui spara fuori. Io mi fermo. Nessuno chiama l’out. È dentro. Riguardo la linea. In effetti non era un quadrifoglio. Poco male. Sul 30-30 mi arriva una seconda che è una mozzarellina mentre i miei dritti sono delle forme di queso curado che fanno impallidire il Fantasma Formaggino. Set point. Lui ormai è diventato di ricotta, gli tremano le gambe ed è doppio fallo. Mi ricorda qualcosa. Ma non ci penso. Uno a zero. Mi avvio alla panchina spalmandomi il fantasma. Grazie Lacuna Inc.

Con me non si sta mai sicuri. Prima tengo a zero. Poi metto in fila un paio di errori ed è 0-30. Trovo due prime delle mie che lo fanno ammattire. Ma poi ritorno a sbagliare e mentre lui urla “Yeeeeeeeeeees” io scendo dall’ottovolante. L’emicrania è tornata, i capogiri si fanno sempre più forti e lo scozzese mi sta per scappare via. 0-30. Ritrovo il dritto e il consueto asso da sinistra. L’emicrania si attacca. Ed è quella che viene al mio toro quando deve servire una seconda. Mi procuro due palle break. Una l’annulla ma sulla seconda vede rosso e spedisce il dritto a Pamplona.
Il toro comincia a sbuffare. Io danzo elegantemente e comincio a scagliare dritti che sembrano dei dardi assassini. Il rovescio che mi dà il break sbatte sul nastro, il quale modifica la sua traiettoria e lo trasforma nella beffa. Alzo la mano per scusarmi e vado a servire per il due a zero. Il toro parte alla carica e io tremo un po’. Adesso tocca a me attaccare. Uno, due, tre dritti. Lui recupera tutto. Perdo il conto dei dritti e allora attacco col rovescio. Il toro è messo all’angolo invece trova il dritto buono, quello che è mancato a me. Sembra in grado di girarla, la partita, perché torna a girarmi la testa. La corrida piace al pubblico, che stavolta tifa per il toro. Zero-quaranta. Sembra finita, invece io non mollo. Faccio tre punti di fila e lui torna a balbettare. Il drop shot con cui mi regala il set point sembra quasi una parolaccia, da quanto è brutto descriverlo. E la parolaccia alla fine arriva davvero perché alla prima occasione mi prendo anche il secondo set e il toro non può far altro che imprecare contro di sé. A las cinco de la tarde il toro sembra al tappeto. Ah, la tauromachia!

Comincia il terzo e lui comincia con un doppio fallo. Io già pregusto la preda ma quella si scuote e si ribella. Uno a zero per lei. La Plaza de Toros aumenta i boati ad ogni punto della mia preda. Il mio sesto doppio fallo viene accolto con britannico contegno ma quando sbaglio uno smash facile facile neanche il bon-ton anglosassone può far nulla. Due palle break. Lui azzecca una risposta, corro indietro e colpisco in equilibrio precario e l’incornata fa effetto: due a zero. Provo a mescolare le carte. Non funziona, anzi il sesto doppio fallo per poco non mi inguaia ulteriormente. Il toro ha il sangue negli occhi, lo vedo e lo sento. Trovo un po’ d’ossigeno e mi salvo. Ma la doppia benedizione è rimandata di poco. Decido di mollare. In un amen siamo sei a uno. La folla applaude soddisfatta. Vogliono il loro Ignacio Sánchez Mejias.

Decido di prendermi una pausa. Mi rinfresco i capelli e le idee. Funziona, per un po’. Siamo trenta pari, serve lui. Trovo una buona risposta e poi comincio a picchiare di dritto ma mi torna tutto indietro. Allora mi faccio aiutare un pochino dal nastro. Break point. Il pubblico non apprezza. Mi arriva una prima di quelle d’acciaio, metto la racchetta ma non serve a molto. Ne trovo un altro, di break point, e mi arriva un’altra prima inox. Sul suo vantaggio lui azzecca il drop shot, ci arrivo con la punta della racchetta e la rimetto di là, lui dà un colpo di reni e la ributta nel mio campo. A quel punto mi basta un rovescio slice per prendermi il punto. Anzi, no, quello ci si avventa indemoniato, la incorna e la uncina in un modo che mi ricorda un vecchio incubo. Mi tuffo nel verde ma non la riesco a mettere di là. La Plaza è tutta per lui. Sento la pressione salire.
Sul tre a due ho un break point che pesa come un macigno. Il suo algido angolo comincia a sudare. Sbaglio la risposta e si alza un sospiro di sollievo che si ritrasforma in un gemito d’ansia quando trovo un rovescio lungolinea vintage. Serve da sinistra, perfettamente. Ancora parità. Mi aggancia, di nuovo. Le sue corna cominciano pericolosamente a puntarmi. Io lo evito, poi cerco di colpirlo con un dritto che spazzola la riga. Lui quasi non ci crede. Tento di approfittare dello smarrimento e vado a rete, dopo un po’ di latitanza. All’improvviso mi ricordo il motivo di tale latitanza e se lo ricorda anche lui, che mi passa agile col rovescio. Allora gli sparo sul rovescio, insisto su quel lato ma al terzo affondo la butto fuori. Il principino alza il pugnetto mentre io alzo il sopracciglio perché il match mi sta scappando di mano. Le cinque della sera sembrano maledettamente lontane. Lo mando a servire per il set, sperando in un regalo. Lui però ha già dato e chiude a zero. Tutto da rifare. Il mio drappo rosso mi ricorda che anche la spia delle energie non è esattamente di colore verde.

Batto per primo. Qualcuno mi incita “C’mon Fernando” e quasi non mi par vero di avere qualche tifoso. A ben pensarci, credo sia qualcuno che voglia distrarmi. Benissimo, non ci riesce. Uno a zero. Il quinto set è questione di dettagli, di nervi e anche di fortuna. Inutile che vi ricordi quando l’ho imparato. L’ha imparato anche lui, però, e da me, per giunta. Voglio bissarla, lo desidero così tanto che mi vien voglia di gridare al cielo. Mi trattengo, però, quando indovino l’ace sul tre pari. L’adrenalina sale. Ottavo game. Sono avanti 4-3 e la pressione è tutta su di lui, il favorito, l’incompiuto, il campione, il fabolous meno fab. Il sole ha già abbandonato il Center Court e così fa il servizio del mio nemico. Lo aggredisco prendendolo per le corna. 0-30.  Gli serve una prima e la trova. Tremiamo entrambi, trema il pubblico, trema perfino l’aria, irrespirabile. Altro aggancio. Tocca di nuovo a me. Tutti si aspettano il mio crollo. Il pubblico comincia a chiedere insistente l’ultima incornata. La corrida è così: sai già chi vincerà, devi solo scoprire come. Sfortunatamente per me, oggi deve vincere il toro. Siamo all’undicesimo game. Mi arrampico disperato sul 30-30. Lui azzecca qualche rovescio di troppo e alla fine cedo, sfinito. Quest’ultima carica mi ha risucchiato le energie, metto una seconda troppo fiacca che diventa facile preda della sua furia taurina. Il boato annuncia la fine, sono stato matado. Ma le regole della corrida vanno rispettate: lo so io, carnefice diventata vittima e lo sa lui, vittima diventata carnefice. Lo sa anche il pubblico, che tributa al suo eroe il giro trionfale intorno all’arena. L’ultimo game è pura esibizione. Mi accascio ripensando a quell’inverno caldissimo di quattro anni fa.

 

 

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