Fra Serena e il mito solo sette partite (Azzolini). Serena, emozione da Slam. E oggi c'è Federer-Djokovic (Clerici). Federer-Djokovic, veleni e fair play. Il meglio che c'è (Marcotti). E' il secondo «Serena-Slam», aspettando quello vero (Crivelli).

Rassegna stampa

Fra Serena e il mito solo sette partite (Azzolini). Serena, emozione da Slam. E oggi c’è Federer-Djokovic (Clerici). Federer-Djokovic, veleni e fair play. Il meglio che c’è (Marcotti). E’ il secondo «Serena-Slam», aspettando quello vero (Crivelli).

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Fra Serena e il mito solo sette partite (Daniele Azzolini, Tuttosport).
Quel piatto d’oro e d’argento intorno al quale le donne del tennis si azzuffano da 131 anni, bagnandolo di lacrime non sempre gioiose, lei, Serena, deve considerarlo un oggetto di uso comune. Lo tiene in equilibrio sulla testa allo stesso modo delle donne di Calabria con le brocche di coccio riempite d’acqua, e così esce balzelloni dal Centre Court, intrattenendosi poi nei seriosi corridoi del Royal Box a dispensare bacetti a chiunque le capiti a tiro. La si può capire… E più abituata di chiunque altra a tenerlo fra le mani, il piatto della vittoria. Siamo alla sesta, in Church Road, e alla ventunesima, nel conto degli Slam, a un tiro da Steffi Graf che ne catalogò 22. «Ho un nuovo Serena Slam da festeggiare», dice, lei che di Grand Slam non vuol sentir palare. Ma il “Serena Slam” rappresenta una dimensione spazio-temporale sufficiente a metterla di buon umore. Ha vinto gli Us Open l’anno scorso, poi, di seguito Melbourne, Parigi e Wimbledon. Le mancano i nuovi Us Open per completare l’opera e agguantare proprio la Graf; che il Grand Slam lo confezionò nel 1988. « Non ne parlo; ma ci penso. Mica sono matta Ho vinto gli ultimi tre Us Open. Che volete che vi dica… Punto al poker». Sette partite da vincere, ma tutte davanti al suo pubblico. Qui, a Wimbledon, ingrati che non sono altro, i british le hanno preferito Garbine. La voglia di novità, non altro. Nessuno che abbia pensato davvero di farle un dispetto, alla Sister stravincente, strabordante e anche un bel po’ stravagante. «Mi alleno ballando», dice Serena, tanto per sorprendere. «Un tempo boxavo, ma il ballo migliora la velocità dei piedi». Sarà… Piuttosto, in tanti sostengono che Garbine diverrà la nuova Serena. Fra qualche anno, non subito. E solo quando la vera Serena avrà deciso per la pensione. Così, fra mille invocazioni e applausi, Garbine si è commossa non poco, e fra un lacrimone e una tirata su col naso, ha detto di non sapere se mai le verrà dato di giocare un’altra finale dello Slam, e di vincerla, ma «di avvertire già la voglia di riprovarci ancora, e ancora, e sempre». Ascoltatela, bambini, tennisti e non… La Storia non è mai un orpello. Quando la tocchi, la vuoi tenere sempre con te. Ma non basta qualche scaramuccia ben condotta, qualche scambio ben congegnato per battere una Williams. Non basta nemmeno condurre il gioco nei primi game, dal 2-0 al riaggancio sul 4 pari del primo set. Meno che mai tentare una disperata rimonta, dal 5-1 per Serena al 5-4 della seconda partita. Serena, oggi, la batti solo facendo gara di testa, da cima a fondo. Andando in fuga, e accumulando minuti di vantaggio. Serena ha giocato 25 finali dello Slam (ne ha perse solo 4, dunque), e conosce a memoria tutte le partiture possibili Se le offri un fianco, ne approfitta. Se le mostri un attimo di titubanza, lo trasforma in un incubo. Se le dai la mano, lei ti stende. Garbi ha preferito abbracciarla, si sa mai. «Amiche?» . «Ma sì, amiche». «Tanto lo so che a fine match i complimenti si fanno a tutte», dice Garbine, saggia e sospirosa «Mi ha detto che prima o poi vincerò un titolo importante… Che volete che vi dica. Lei è la numero uno, e io, i complimenti di una leggenda, me li tengo stretti».

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Serena, emozione da Slam. E oggi c’è Federer-Djokovic (Gianni Clerici, La Repubblica).
Dopo la vittoria, prevista al 101%, di Serena, la mia comprovata sincerità, probabilmente raro difetto in simili bassi tempi, mi ha spinto al telefono, per interrogare il mio capo redattore. «Amico mio, e se mettessimo, molto in grande, soltanto il risultato?». Il poveretto mi conosce a fondo, e ha risposto: «Non hai voglia?». «Non è la voglia, sinceramente, è che non ricordo una partita più brutta». «E tu scrivi che è la più brutta». «Ma non potreste collocarla nella rubrica del wrestling femminile?». «Non l’abbiamo ancora istituita, Gianni. Dai, scrivi che era brutta». Davvero, nel corso di una simile caccia all’errore, mi era venuta più volte voglia di andarmene. Avevo avuto un bel dirmi che ero gratis davanti al Centrale, in una splendida giornata estiva, ero in una posizione invidiabile, che due spettatori britannici avevano egualmente ottenuta pagando ieri trentadue-mila sterline per un palco di proscenio. Ma non riuscivo a ritenere accettabile che la vicenda si risolvesse soltanto con un errore ogni tre tentativi di tenere la palla in campo, tentativi resi vani dall’eccessiva muscolarità delle due ragazze, che forse avrebbero dovuto, ancora meglio che nel wrestling, specializzarsi nel lancio del peso. Mentre rimanevo afflitto davanti a una birra, è passato un mio amico televisivo, e mi ha suggerito: «Vogliamo parlare del match?». «Se non ti licenziano», ho risposto. Ci hanno microfonato, ed ecco la prima domanda: «Secondo te, Serena ha sbagliato tanto perché già pensava al Grande Slam? Ti ricordi che esiste dal 1934, da quando l’australiano Crawford venne battuto dall’inglese Perry, per aver bevuto un whisky nell’intervallo del terzo set. Pensi che Serena correrà un rischio simile?». Ricordavo di aver visto una notte le Williams un poco bevute, nella hall del Cavalieri Hilton, a Roma, ma dubito che Serena fosse dedita all’alcol. «Non credo», ho risposto, e poi mi sono detto: «Forse è proprio a causa del gran parlare che si fa di Slam che Serena era nervosa più dell’avversaria, la Muguruza, che da esordiente ne avrebbe avuto maggior diritto. Non ho mai visto Serena, nelle sue 6 finali di Wimbledon, fare tre doppi falli nei primi nove punti, poi riuscire a perdere uno straccio di game di 14 punti commettendo altri quattro errori gratuiti. E non solo. Superare una simile pena nel secondo game, con altri quattro colpacci falliti, tanto che non si poteva nemmeno pensare a un suo improvviso altruismo, a un umano aiuto per un’esordiente del tutto impreparata alla finale. Per fortuna della Williams la Muguruza era veramente impreparata. In modo che l’avremmo presto vista seguire Serena nel tentativo di sventrare la palla, invece che tesaurizzarne i doni con la regolarità. Tanto che, dal suo 3 a 1, e poi dal suo 4-2, il set terminava 6-4 per Serena, mentre nel secondo la Williams giungeva facilmente a 5-1, e per dare un’altra prova di masochismo smarriva altri 15 punti prima di ritrovare un minimo di lucidità, per concludere la partitaccia 6-4. A pensarci meglio, ciò era quasi prevedibile, dopo la fortuna di aver assisisto venerdì a un match che è certo eccessivo definire il più bello mai visto, così come questa non è probabilmente stata la peggior finale femminile tra le 131 giocate, a tutte le quali anche uno scriba vecchissimo e rimbambito non è stato in grado di assistere. Ci si domanda se il Federer di venerdì sia in grado di ripetersi, ma anche se il Djokovic mediocre contro un perdente quale Gasquet non sia in grado di migliorare. Mi affascinerebbe se Federer vincesse anche la sua ottava finale di Wimbledon, ma mi domando se una vicenda simile a una carica all’arma bianca non andrà a infrangersi sullo scudo mobile del serbo. E ricordo infine un’altra finale, quella si, splendida, dall’anno passato.

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Federer-Djokovic, veleni e fair play. Il meglio che c’è (Gabriele Marcotti, Il Corriere dello Sport).
Meno di un mese fa, a metterli contro, ci aveva pensato Boris Becker con dichiarazioni maldestre in occasione dell’uscita della sua ultima biografia.  Non l’aveva presa bene Roger Federer nel leggere di presunti screzi e rapporti tesi con il campione serbo. «Becker non perde occasione per stare zitto, ma dovrebbe parlare solo di cose che conosce», la risposta stizzita dello svizzero che si era ben guardato però dal tirare in ballo Djokovic. Tra i due il chiarimento c’è stato, lontano dai taccuini, privatamente. Anche così si spiegano le ultime dichiarazioni zuccherose . «E’ il più forte sull’erba, forse il più forte di sempre», dice Djokovic di Roger. «E’ stato il migliore in questi ultimi anni, prima era fortissimo sul cemento ora lo è dappertutto» risponde Federer. «Vinrcere contro Roger, qui a Wimbledon, è stato speciale perché venivo da diverse finali Slam perse, e quella vittoria mi ha dato una fiducia particolare» aggiunge Novak. «Arrivare in finale a Wimbledon è sempre un risultato incredibile, affrontare il numero uno al mondo è un plus». Conferenze stampa simili nei contenuti, così come gli ultimi due match che li hanno condotti fin qui, entrambi a senso unico. A conferma della netta superiorità che separa in questo momento i primi due del ranking mondiale dal resto del gruppo. Ecco perché le quote dei bookmakers sono molto simili, con una leggera predilezione però per Djokovic ma solo per ragioni anagrafiche. Anche perché il Federer ammirato in semifinale pareva irridere la propria carta d’identità, disputando una delle migliori partite della sua carriera. Per sua stessa ammissione. Oggi va in scena la sfida n.40 tra i primi due del ranking mondiale: conduce di misura lo svizzero (20-19), mentre sono in parità gli scontri diretti sull’erba di Church Road, 1 a 1. Sei pari sono i match in tornei dello Slam, 9-5 a favore di Djokovic le finali. Una rivalità seconda solo, per numero di incontri, a quella tra lo stesso Djokovic e Nadal, che vanta 44 episodi. Per il n. 1 al mondo si tratta della quarta finale a Wimbledon (due successi, nel ’11 e ’14), la 17′ in uno Slam (8 vittorie), grazie al successo su Gasquet, il 51 match vinto sui prati londinesi, che gli consente di raggiungere Bjorn Borg, sesto nella classifica di tutti i tempi. Nel trentesimo anniversario dal primo trionfo a Wimbledon del suo coach, Becker appunto. E siamo convinti che se Nole ci riuscisse, il buon Boris non se ne dispiacerebbe più di tanto. In fondo, meglio il serbo che chiunque altro. Insegue invece l’ottavo squillo sui prati di Church Road Federer, alla decima finale nel tempio del tennis, la 26a in uno Slam (17 trionfi), la vittoria n.79 all’All England Club, a -5 dal record di Jimmy Connors (84). Djokovic è ormai da diversi anni il migliore. «Una finale a Wimbledon ha sempre un significato particolare ma ovviamente sfidare il numero uno al mondo è un valore aggiunto. Spero di riuscire a giocare all’altezza di come ho fatto fin qui». Una speranza che potrebbe trovare nel tempo un insperato alleato. Perché oggi su Londra è prevista pioggia tutto il giorno, dunque con ogni probabilità si giocherà una finale indoor, con il tetto chiuso. Un vantaggio, non da poco, per l’elvetico, che oltre alla condizione psico-fisica eccellente può contare anche sul sostegno dei 18mila del Centrale, suo devoti tifosi. Che si augurano compatti che Roger sia in grado di ripetere anche contro Djokovic la partita perfetta esibita ai danni del povero Murray, in modo da regalare un senso di completezza al sacrificio “nazionalista” sull’altare dell’idolatria per Federer.

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E’ il secondo «Serena-Slam», aspettando quello vero (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport).
Serena è l’imperatrice di un’epoca che segnerà la storia: prima e dopo Williams. Più del sesto Wimbledon conquistato contro la stella nascente Muguruza, più del personal Slam (quattro consecutivi in due stagioni diverse), più delle sette partite che le restano per completare il Grande Slam ed eguagliare Connolly, Court e Graf, il dominio su questo inizio di secolo è sancito da quel 21, il numero di Major conquistati, che sono gli stessi, messi insieme, di tutte le altre giocatrici in attività. Dunque, Serena è il tennis femminile, oggi e chissà per quanto. Eternamente giovane, quasi che la morte vista in faccia in quel tremendo inverno 2011 dell’embolia polmonare ne abbia fortificato lo spirito e i muscoli. Da allora, ha vinto otto Slam e ha messo insieme un record di 249 vittorie e 20 k.o., il 92.5%. Una sua sconfitta è più rara di due settimane senza pioggia a Wimbledon. Questo era lo step più ostico sulla via del sogno Grande Slam, ma dopo i brividi contro la Watson, Serena non poteva più perdere. Ed ecco allora le braccia al celo, il bacio alla folla, l’inchino e poi la danza sfrenata del trionfo. Meglio della Connolly, capace di vincere Slam a distanza di 15 anni e 9 mesi: la sorellona l’ha battuta di un mese, anche se il primo Us Open, nel 1999, adesso sembra di un’altra epoca. E lei ne è cosciente: «Mi sento meglio ora rispetto a 10-12 anni fa, più in forma fisicamente, perché ho reinventato me stessa in termini di allenamento e di gioco». Un’araba fenice, a tratti per fortuna umana, che avverte la pressione del momento, commettendo due doppi falli nel game d’apertura che offrono il break alla Muguruza, accompagnato da un boato che indica da quale parte battono i cuori del Centrale. Garbine, che doveva essere travolta dalla belva, uscirà invece travolta dall’ovazione che si deve a una grande giocatrice e a una fiera avversaria, capace di risalire dal 5-1 sotto del secondo set fino al 5-4 e servizio con la forza del coraggio e del gioco, fino a un nastro beffardo che nel decimo game dà lo 0-30 alla regina, porgendole in pratica il trofeo. Eppure, dietro quelle lacrime spagnole, appare la luce di un futuro radioso: «Da questa partita ho capito che anche lei è nervosa, ho capito che se le concedi due punti lei si prende la partita, ho capito che sono pronta per uno Slam». Anche Serena le riserva complimenti sinceri («Non si è mai arresa, ha lottato per vincere e questo dice molto su cosa potrà diventare») e poi, con il piatto dorato in mano (e anche sulla testa, scherzando con i membri del Club, mentre raggiunge gli spogliatoi), finalmente si scioglie: «Dopo aver vinto gli US Open l’anno scorso, mai avrei pensato di fare un’altra volta il Serena Slam (ci era già riuscita tra il 2002 e il 2003, ndr). E’ molto eccitante, soprattutto dopo le fatiche di Parigi. Mi è servito staccare, prendermi la settimana in più che concedeva il calendario per rilassarmi e allenarmi». Ora si tratterà di gestire la pressione, di avvicinarsi agli US Open senza l’assillo di un traguardo da brividi: «Là fuori ci saranno 127 giocatrici pronte a sbranarmi, fa parte della vita. Ma se sono riuscita a completare il Serena Slam, vuol dire che posso fare il Grande Slam, non ho nulla da perdere». Con il solito segreto per restare concentrata: «Durante i match, canticchio una canzone. E quando smetto, mi capita sempre di perdere punti. Quindi ricomincio. E’ una cosa un po’ pazza, lo so». Solo che pazze diventano le altre.

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