Agli US Open si fa la storia: come la stampa italiana celebra la finale tricolore tra Vinci e Pennetta

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Agli US Open si fa la storia: come la stampa italiana celebra la finale tricolore tra Vinci e Pennetta

È Italian Open a New York: l’impresa compiuta da Flavia Pennetta e Roberta Vinci attraverso le parole dei quotidiani nazionali, sportivi e non

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We love you – Roberta e Flavia, è Italian Open (Vincenzo Martucci, La Gazzetta dello Sport)

L’ 11 settembre entra nella storia del tennis italiano: Flavia Pennetta e Roberta Vinci portano due azzurri in una finale Slam come non era stato mai. Ritrovandosi straordinariamente insieme a festeggiare dopo il titolo di campionesse juniores di doppio del Roland Garros 1999. Ci riescono agli Us Open, dove tutto è più grande e più clamoroso, e quindi realizzando una doppia, grande e clamorosa impresa, battendo la numero 2 e la 1 del mondo, e superandosi nella formidabile staffetta di emozioni, dalle 12.19, quando la brindisina firma il dominio su Simona Halep, alle 14.56, quando la tarantina doma, niente po’po’di meno, Serena Williams, stoppandola a due partite dal Grande Slam. Cioè dal firmare anche il quarto Major nella stessa stagione, dopo Melbourne, Roland Garros e Wimbledon, come non succede da 27 anni, da Steffi Graf 1988. Per farcela, le due pugliesi dal sorriso che conquista, le due ragazze normali, senza muscoli e centimetri impressionanti, giocano un tennis delizioso, intelligente, vario, frastornando le avversarie Doc e causando la maggior sorpresa di sempre. Così riportano il tennis alla normalità, cioé a servizio, risposta, dritto, rovescio, volée. Perché quella è la leva con la quale Flavia, a 33 anni, cancella i 9 anni e 7 mesi di distanza dalla romena sottovuoto-spinta. E, soprattutto, Robertina, a 32, annulla la super-potenza di Serenona, ubriacandola di varietà con quel magico cocktail che, nel 2010, portò Francesca Schiavone a iscrivere per la prima volta il nome di un’italiana nell’albo d’oro del singolare di uno Slam, al Roland Garros. SEGRETI Ma la terra rossa è la nostra madre terra, dove crescono i tennisti, e dove la Schiavone ha giocato anche la finale del Roland Garros 2011 e la Errani quella del 2012, oltre che quella dei due trionfi Slam di Nicola Pietrangeli e di quello di Adriano Panatta. Ma il cemento, dove si disputano gli Us Open, è un campo più duro, sotto tutti i punti di vista, è un campo moderno, se vogliamo più globale. Ed è qui, coi riflettori del mondo puntati addosso che ci strappano più di una lacrimuccia, giocando tutt’e due la partita della vita, comportandosi tutt’e due da campionesse, a dispetto di una classifica bugiarda, 26 del mondo la Pennetta, 43 la Vinci. Meritandosi quello che tutt’e due definiscono «il premio alla carriera», dopo la dura routine degli allenamenti e dei viaggi, dopo gli alti e bassi, dopo i dubbi e le gioie di tanti anni di battaglie. «Venti giorni fa, il mio fisioterapista (il fido Max Tosello) mi ha chiesto se avevo mai pensato di arrivare in una finale Slam, o di vincerlo, e io gli ho risposto di no. Ma noi tutti che facciamo sport sappiamo che non si può mai dire, che devi dare sempre il massimo e che le cose migliori arrivano sempre quando meno te lo aspetti, o quando le desideri troppo. In realtà mi alleno volentieri ogni giorno, ma qualche volta faccio fatica a lottare in partita», confessa Flavia, dopo gli applausi della Halep: «Ha giocato meglio, è stata più solida, e io ero con le gomme sgonfie, ha meritato di vincere». Flavia si sorprende di se stessa: due anni fa pensava al ritiro e la sua carriera riesplose proprio con la semifinale qui a New York, quest’anno faceva impazzire papà Oronzo dicendogli che forse non sarebbe arrivata all’Olimpiade del prossimo anno a Rio ed eccola giocare addirittura la finale, e da favorita, sull’amica di sempre. «Qui mi piace giocare, ma forse ce l’ho fatta perché ci provo sempre, do sempre tutto, ed è straordinario come ho giocato negli ultimi tre match, battendo Stosur (regina di New York 2011), Kvitova (due volte regina di Wimbledon) ed Halep (2 del mondo), quand’ho fatto tutto bene, non ho commesso errori (16), sono rimasta sempre concentrata e aggressiva (23 vincenti)». MIRACOLO La partita della Pennetta è talmente perfetta che termina in appena 59 minuti e due set, con l’unico brivido del contro-break ad inizio secondo set: «Ho smesso di spingere, ho pensato al punteggio, poi però ho ripreso a giocare intenso da fondo, trovando però il cambio di ritmo che in genere riesce a lei». Flavia — prima italiana «top ten», numero 10 nel 2009 — è stata già in semifinale a New York nel 2013 e quattro volte quarti (2008, 2009, 2011 e 2014). La sua finale non è una incredibile sorpresa, anche perché contro la Halep ci aveva vinto tre volte su quattro. Ma come definire altrimenti quella di Roberta Vinci che beffa Serena Williams dopo averci perso quattro volte su quattro? Prima d’ora Roberta non era mai arrivata nemmeno a una semifinale Slam. Ma la Pennetta credeva nel miracolo. «Chi ha detto che Serena ha già vinto?». Infatti, nemmeno l’avesse sentita, Robertina, con quel suo metro e 63 appena d’altezza, diventa via via sempre più grande agli occhi della Tyson del tennis. Scappa avanti per prima, si fa riprendere e superare, cede il primo set per 6-2, poi libera quel meraviglioso braccio, attiva il micidiale tira e molla, rovescio in back-fendenti di dritto, si butta a rete in controtempo, taglia il campo con sciabolate diaboliche che spezzano le gambone più famose del circuito Wta. Così guadagna il nuovo vantaggio (3-2) e non lo cede più, resistendo alle poderose spallate Williams fino al 6-4, dopo un’ora e 40 che valgono oro per orgoglio e fiducia. Con Serena già pressata all’inverosimile dalla corsa al Grande Slam, dal pronostico, dal match fratricida con Venus e quindi dai problemi che le arrivano di là della rete che, dopo troppi piagnistei e urlacci al cielo, manda in frantumi la racchetta. È il segnale del sorpasso, è il 4-3 della Vinci. «Mi ripetevo: “Divertiti, rimetti la palla in campo, non pensare a Serena, prendi le energie positive da questo game. Forza, puoi farcela. Continua a rimettere la palla in campo”. È la scelta decisiva. Perché dopo il break, con una bellissima volée di dritto e due errori di Serena, la piccoletta che non t’aspetti chiama il pubblico, portandosi le mani alle orecchie come il goleador Toni: «Non vi sento, applaudite anche me, cazzo». Meritandosi la standing ovation dei 23mila dello stadio di tennis più grande del mondo. NERVI «Con tutto il rispetto per la Vinci, Serena era in cattiva giornata, non aveva la stessa tensione che contro Venus. Ha perso lei: tatticamente, non sapeva più che fare». Tradotto, coach Patrick Muratoglou dice che il tennis vince ancora una volta, per fortuna, rispetto al fisico, perché è con la sua racchetta che Roberta pizzica Serena fuori posizione e salva due palle-break sul 4-3. Ed è sempre col fioretto che disegna due demi-volée, la seconda, di dritto, la porta in finale, dopo due ore da sogno. «È il miglior momento della mia vita, mi spiace per Serena che è una grande campionessa e poteva chiudere lo Slam, mi dispiace per voi tifosi, questo è il mio giorno. Sorry, questa sarà una finale “all italian”». Grazie ai coach, Salva Navarro e Francesco Cinà, grazie soprattutto a queste due stupende donne che offrono al tennis italiano un fantastico manifesto per un ulteriore lancio di uno sport stupendo e pieno di significati. «Sì, questa è la più grande sorpresa del tennis». Chi pensa alla finale? Flavia e Roberta vivevano a 60 chilometri di distanza,si conoscono dai tornei under 12, dove vinceva sempre Robertina. Vogliono vivere la gioia del momento. Come sempre, per costruire un altro futuro magnifico.

Mitiche – Pennetta e Vinci, finale da impazzire (Roberto Zanni, Il Corriere dello Sport)

Non c’era storia. Chi avrebbe mai puntato su Roberta Vinci? 0-4 era il bilancio con Serena, mai era riuscita a strappare nemmeno un set E ieri, a metà del terzo set, con la partita in perfetta parità, il sondaggio di Espn dava Serena Williams vincente tra l’89% degli intervistati, appena l’ 11% per l’azzurra. Invece l’Arthur Ashe Stadium, in due ore esatte, ha regalato una delle più grandi sorprese nella storia del tennis e dello sport: la numero 43 al mondo Roberta Vinci, alla sua prima semifinale in uno Slam, che batte la numero 1, l’invincibile, la grande Serena Williams. Era la partita con un solo pronostico. Dopo il 6-2 per l’americana, a due vittorie dal completare il Grand Slam, nessuno poteva anche solo minimamente immaginare quello che sarebbe successo.”Tricky player’; giocatrice astuta: così Patrick Mouratoglu, il guru di Serena, aveva definito l’azzurra prima dell’inizio della partita. Ma non poteva bastare il primo break, al terzo gioco del set d’apertura dell’azzurra, vantaggio per 2-1, per innescare qualche dubbio su chi tra le due sarebbe sbarcata in finale: in 31′ il set se n’era già andato, tutti aspettavano solo la prassi del secondo. Non Roberta, che con il suo gioco differente da tutte le altre cominciava a mettere in difficoltà Serena. L’americana solo quando trovava gli ace, 16 alla fine, riusciva a sbrigare la faccenda come da pronostico. Per il resto le discese a rete di Roberta, la sua difesa, a volte spettacolare, la testardaggine nel continuare a lottare, imperterrita, facevano innervosire la Williams dai 21 Slam vinti. Racchette spaccate per la rabbia, cambiate per cercare di trovare una risposta definitiva al tennis della Vinci, non davano invece risultati: 3-2, poi 4-2 per l’italiana nel secondo set, fino al 6-4. Parità.. « Si, però finirà presto…» si sentiva dire all’Arthur Ashe. E il 2-0 per la Williams al via del terzo set lo confermava. Solo per un attimo, perché pur con una prima palla di servizio non eccezionale, ma con una gamma completa di colpi, la Vinci recuperava: break per 1’1-2, poi parità fino al 3-3 e al settimo gioco uno scambio spettacolare con Roberta che prima si metteva una mano all’orecchio per cercare di sentire gli applausi del pubblico e poi lo invitava a tifare per lei: «Ora applaudite anche me!» La conferma arrivava con il break del 4-3 e Serena alle corde: 5-3, 5-4, e finalmente 6-4 con un altro punto a rete, quello della storia. Per l’apoteosi e la prima finale in uno Slam personale e anche tutta italiana, come non era mai capitato prima. FLAVIA IN 59 MINUTI. Perché in precedenza Flavia Pennetta aveva commesso solo un errore: alla vigilia della semifinale aveva dichiarato che sarebbe stata tuta maratona. Niente di più sbagliato: ci sono voluti appena 59 minuti per spazzare via la numero 2 al mondo Simona Halep e raggiungere così, in maniera trionfale, la prima finale in uno Slam. Ha dominato Flavia, dall’inizio alla fine. Esiste la perfezione nel tennis? Ieri ci si è andati vicino. Dritto e rovescia potenti e precisi, drop shot deliziosi e spettacolari, mai una flessione nel servizio, una media costante nei due set di 158,4 chilometri all’ora, il 69% di prime palle, unica voce che la Halep è riuscita a impattare; poi più punti a rete (9/ 14), più vincenti (23) e meno errori non forzati (16). Addirittura 15 punti consecutivi tra il quinto e l’ottavo gioco del secondo set. Mai un calo e dopo aver dominato la prima frazione, 6-1, nella seconda sull’ l-3 per la rumena (che aveva Nadia Comaneci in tribuna a fare il tifo) è stata devastante vincendo cinque giochi di fila, annichilendo l’avversaria.

Pazzo tennis italiano, Flavia e Roberta regine a New York (Enrico Sisti, La Repubblica)

IMMENSE. II tennis di New York non ha ancora un tetto, cosi Flavia Permetta e Roberta Vinci sono salite sul tetto del mondo. Si sfideranno nella finale di un Major, due italiane, due di noi, due ragazze normali, che giocano un tennis d’altri tempi che ricorda l’odore del legno, esprime eleganza, non ha bisogno di deltoidi selvaggi. Se ne stanno felici lassù, nel punto più alto della loro esperienza agonistica, alla faccia dei sogni di Serena, che dovrà rassegnarsi a pensare ad altro perché, almeno per quest’anno, il Grande Slam si è spento come un televisore vecchio, e in barba alla predestinata Simona Halep. Viva l’Italia, piccola nazione dello sport capace di accendere luci tanto accecanti e regalare a uno sport alti valori tecnici e sentimenti forti. Non è mai accaduto che il giorno della finale di un Major, prima ancora di giocarla, si potesse mettere in un titolo: ‘Un’italiana ha vinto lo Us Open 2015!’. Saranno loro a decidere oggi chi prima chi seconda ( ma comunque prime entrambe ). Le nostre ragazze del muretto, degli anni Ottanta. Pugliesi. Queste ragazze simbolo del tennis delle ultratrentenni si conoscono da una vita, hanno condiviso infanzia, adolescenza, sono state amiche, insieme hanno vinto il doppio junior a Roland Garros. Avevano percentuali di riuscita minime, Flavia il 35%, Roberta il 10%. E invece hanno dominato la n.1 e la n. 2 dei mondo travestendole da comparse. La rumena ha finito per sembrare la controfigura di se stessa, l’americana, stremata, pareva una signora su con gli anni e su col peso che aveva deciso di concedersi un’esibizione nel giorno del suo compleanno, cosi, tanto per far ridere i convitati. Vittorie schiaccianti. Tre anni fa, mentre i suoi colleghi giocavano qui a Flushing Meadows, Flavia postava una foto col polso fasciato. Si era appena operata a Barcellona, era il 31 agosto del 2012: ‘Ciao a tutti, torno presto”, scrisse sorridendo, come se avesse senso mettersi li a discutere o a lamentarsi per uno “scafo lunare malandato e rimesso in sesto chirurgicamente. Non aveva specificato un particolare, Flavia, in quel post: che sarebbe tornata più forte di prima. Flavia, che vive a Barcellona, raccoglie la semina avviata 28 anni fa da papà Oronzo, chela conduce al campo a 5 anni e le promette che un giorno l’avrebbe portata a vedere gli Internazionali al Foro Italico e, una volta cresciuta, le avrebbe comprato il completino di Monica Sales. Flavia ha giocato con una pazienza geniale. Ha strappato il servizio due volte alla Halep nel primo set, è risalita dall’ 1-3 nel secondo. Rovistando fra le cianfrusaglie del suo brutto tennis di giornata, la Halep non ha trovato la forza per entrare in partita. ”Anche se alle tre di notte ero sveglia e mi rigiravo nel letto. L’atmosfera di questo posto è magica su di me». Flavia non si vede senza tennis: «Eppure inizio ogni stagione pensando che potrebbe essere l’ultima. Però amo questa vita, accidenti, non mi pesa viaggiare, e soprattutto adoro allenarmi, quindi non sento il sacrificio. E’ l’amore per il tennis che non si vede, la fatica della preparazione, che ti fa giocare bene a tennis davanti alla gente.. In ogni caso meglio vivere alla giornata . Sempre. Meglio ancora se durante la giornata c’è una finale tinta d’azzurro da giocare.

Donne d’oro, più forti del tifo Usa e delle big (Gianni Clerici, La Repubblica)

Stappiamo lo champagne, mi dice mia moglie. Meglio lo spumante, rispondo io, mentre mi sento curiosamente patriottico, e, nel mio europeismo, nazionalista Perché sia Robertina, sia Flavia, vengono dalle Puglia, da due città come Bari e Taranto dalle quali mai, prima di loro, era uscito mezzo tennista. Robertina ha addirittura avuto il tifo contro, forse, su ventimila persone, in tribuna, c’era una decina soltanto di chi teneva per lei, tra le quali il suo bravissimo allenatore palermitano, Francesco Cinà. Ad un punto, e che punto, ha addirittura alzato le braccia con un mimo di provocazione, contro tutti quegli americani che, contrariamente alla loro abituale sportività di baseball e football, facevano tifo contro la straniera. Serena andrebbe immediatamente accolta dall’Actors Studio, per le sue capacità di rendere quello che era dopotutto un match di tennis, una tragedia continua. Disseminata di gemiti, tensioni al viso e alla bocca che parevano crampi, rictus da far temere quantomeno un’appendicite, e improvvisi sorrisi di liberazione in uno dei pochissimi colpi riusciti. Perché la fondamentale, grande differenza tra le due, é stata che Serena ha giocato soltanto i colpi, mentre Robertina non ha mai perso di vista la partita. E, prima di lei, un’altra che era riuscita, nel mezzo di corse mozzafiato, a non perdere mai di vista il risultato, era stata la mia amata Pennetta. Mi entusiasmai la prima volta che vidi su un campo, a Bari, una adolescente bella come un’attrice tipicamente mediterranea, diciamo Antonella Lualdi, che tirava diritti e rovesci quasi fosse la Evert. Mi pare incantevole, oltre che promettente, dissi ad un mio ignoto coetaneo che seguiva sorridendo lo spettacolo. Tanto carina che, avessi quarant’anni meno, mi proporrei non solo come suo coach, ma come suo sposo. II signore si presentò, Oronzo Pennetta, papà di Flavia.. Sono passati, da allora, una quindicina d’anni. Dopo averla vista giocare una delle migliori partite della sua vita, vorrei ringraziare un mio concorrente, un tipo che invidiai sino a trovarlo antipatico, un bellone da spiaggia che si chiama Carlos Moya, e di Flavia fu fidanzato. Quel matrimonio tanto vicino non doveva verificarsi. Fui intervistato da una starlette televisiva, e tempo dopo, a Barcellona, venni a sapere che questa era stata sorpresa intimamente sdraiata fianco al famoso tennista. Senza quella sua disinvolta trasgressione forse oggi Flavia sarebbe divenuta la bellissima mamma di un paio di bambini spagnoli, e non avrebbe certo trovato la forza umana per essere la finalista degli US Open. Grazie, Carlos Moya, mi sento di scrivere.

Nella Storia (Stefano Semeraro, La Stampa)

«Sorry, guys». Scusate ragazzi, scusa tanto America, e anche tu Serena Williams, che speravi nel Grande Slam. Scusate tutti, ma questo resterà per sempre il grande giorno dell’Italia del tennis: ieri, undici settembre. Oltre che il «più bel giorno della mia vita», come è riuscita a dire Roberta Vinci, incredula Alice fra le sue meraviglie dopo due ore di lotta, tre set pazzeschi, le lacrime, la tensione che la scuoteva anche dopo la fine di tutto. Dopo aver messo le mani alle orecchie per incitare il centrale di Flushing Meadows sotto shock per un evento che pareva irreale, la caduta della Pantera contro lo scricciolo di Taranto, una ragazzina di 32 anni capace di giocare un tennis divino, fosforo e grinta, che infilata dentro l’imbuto enorme dell’Arthur Ashe Stadium, compiuto l’ennesimo incanto a rete – Serena piegata in due sul cemento, e sull’orlo dell’isteria – chiedeva orgogliosa e confusa, metà Rocky e metà Pietro Mennea, gli occhi colmati di un’allegria folle: «Coraggio, gente, adesso tifate anche un po’ per me». Applaudi, America. Se lo è meritata. Cresciute insieme Oggi Flavia Pennetta e Roberta Vinci giocheranno la finale degli Us Open femminili. Bisogna dirlo e ridirlo, ripeterselo a voce alta. Con calma, perché non è Scherzi a parte: è la realtà. Anzi, qualcosa oltre la realtà (sportiva, s’intende). Un trionfo immane, che Flavia & Robi, le amiche di infanzia cresciute a 40 chilometri di distanza una dall’altra, fra Brindisi e Taranto, dividendosi camera e trofei per anni nei tornei juniores, come se non bastasse si sono costruite battendo la numero 1 e la numero 2 del mondo. Prima il successo da dominatrice della Penna (numero 26 Wta) su Simona Halep (6-1 6-3), la judoka del tennis, spezzata a furia di dritto avvelenati e rovesci di fuoco, poi l’impensabile impresa di Roberta (numero 43), domatrice della «più Grande Giocatrice della Storia», e per giunta in rimonta, recuperando un set e poi un break nel terzo. Finale 2-6 6-4 6-4. Fosforo e tecnica. La rivincita dell’intelligenza, di un tennis ragionato, molto made in Italy, che si è fatto strada nella tonnara di picchiatrici-urlatrici che è diventato il tennis moderno. Forse la più grande sorpresa dello sport di tutti i tempi (pensateci), probabilmente una delle imprese più esaltanti dello sport italiano, da conservare nello stesso scaffale dei trionfi del calcio, di Federica Pellegrini, di Valentino Rossi. Sicuramente la prima finale tutta italiana in uno Slam, non solo in campo femminile. Fino a ieri tutto o quasi il nostro raccolto l’avevamo mietuto sul rosso di Parigi: due vittorie e due finali di Pietrangeli negli anni ’60, una a testa di Panatta nel ’76 e di Francesca Schiavone nel 2010 (finalista anche nel 2011), poi la finale del 2012 della Errani. Per quasi un secolo New York prima che una terra promessa era stato un approdo proibito, negli ultimi anni proprio le ragazze, una generazione di fenomeni in rosa «stappata» dal successo della Schiavone a Parigi, avevano iniziato le manovre di ormeggio. I derby Errani-Vinci e Pennetta Vinci nei quarti, le due semifinali di Flavia e Sara erano il segnale che il vento era cambiato. Che l’America, un paese letteralmente costruito da tante mani di migranti italiani, anche pugliesi come Flavia e Roberta, non era più un muro di cemento impraticabile. «Brava Roberta, ha giocato la partita della vita», ha ammesso la Pantera, groggy ma onesta, con il sogno del primo Grande Slam dai tempi di Steffi Graf (1988) che le evaporava dallo sguardo. «Serena non era al massimo, ma la Vinci ha giocato in maniera fantastica», ha ribadito Mats Wilander. «Il buffo è che venti giorni fa il mio fisioterapista mi ha chiesto se pensavo di arrivare mai ad una finale di uno Slam. E io gli ho risposto di no…», ha scherzato la Pennetta, anni 33, che un anno fa di questi tempi meditava il ritiro. «Stamattina mi sono svegliata e mi sono detta: okay, c’è la semifinale con Serena, divertiti. Ma non pensavo di vincere. Nell’ultimo game tremavo tutta, ora mi sembra tutto un sogno», ha detto stremata la Vinci. Dividetelo pure, ragazze, perché non finirà più.

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