London Calling, Raonic: il bombardiere mite con la testa oltre le nubi

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London Calling, Raonic: il bombardiere mite con la testa oltre le nubi

I profili degli otto qualificati, il n.4. Ha alternato momenti di tennis debordante a lunghe fasi di transizione. L’ennesimo infortunio ne mette in pericolo la partecipazione alle Finals. Eppure, nonostante un carattere da preda, Milos Raonic può deflagrare in qualsiasi momento

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Milos Raonic è alle Finals, di nuovo. Secondo sbarco sulla luna insieme agli altri sette migliori tennisti del globo terracqueo per l’astronauta di Podgorica; una gita premio che in realtà è ancora a forte rischio, visto l’ennesimo infortunio – stavolta al quadricipite – intervenuto a complicare una stagione in bilico tra lusso e singhiozzi. Rischia d’aver chiuso, in anticipo, come aveva aperto: benedicendo la scalata al Nanga Parbat del tennis mondiale di Andy Murray dopo averne tenuto a battesimo le ambizioni. Sì, perché l’attuale numero 4 ATP – best ranking, eguagliata la comparsata tra i Fab four nella primavera del 2015 – aveva dato inequivocabili segnali di voler sedere alla tavola dei grandi già in gennaio, e solo un infortunio, un altro infortunio, gli aveva impedito di far vedere le streghe al nuovo numero 1 del mondo nel quinto set della semifinale all’ultimo Open d’Australia. Milos era partito benone facendo secco Roger Federer a Brisbane, e aveva abbandonato il primo slam dell’anno carico di rimpianti. L’inizio di stagione gli sorride, storicamente: cinque degli otto titoli conquistati in carriera sono arrivati entro il mese di marzo, mentre le difficoltà, puntuali come mannaie, si sono sempre presentate nel medio periodo. Certo, i risultati strabilianti nell’estate boreale ci sono stati, ma Raonic fatica a mantenere accesa a lungo la fiammella della passione.

E pare proprio questo il problema: Milos è un bravo ragazzo, forse troppo. L’astronauta, l’abbiamo chiamato, per l’idea che dà di sé; quella di ragazzo cresciuto troppo in fretta con la testa sospesa oltre le nuvole. Il tennis è di prim’ordine, e Riccardo Piatti l’aveva compreso in tempi non sospetti: “capisco che possa non piacere, ma può diventare devastante“. In effetti il partito dei detrattori è sempre stato piuttosto nutrito: privo dell’eleganza dei predestinati, per anni pervicacemente aggrappato al prepotente archibugio, il buon Milos è stato ai margini dell’immaginario collettivo il prototipo del tennista nordamericano moderno; un picchiatore monotono e atarassico cui gli dei del tennis non hanno concesso il privilegio di conoscere l’arte del rovescio. Eppure egli ha trovato il coraggio di cambiare, persino radicalmente, anche se in pochi nell’ambiente hanno dato il giusto risalto alla sua trasformazione tecnica. Il cannone è rimasto quello, ma l’arma impropria è stata arricchita di variazioni mortifere; il back è diventato affidabile e prodromo di verticalizzazioni divenute un’assoluta costante, mentre il gioco a rete, ancorché migliorabile, si è rivelato una notevole risorsa. Cosa manca, dunque?

La cosiddetta “rabbia agonistica” pare essere diventata nel corso degli anni la sorgente primaria nelle vittorie di molti famosi campioni. Assecondando l’opinione di diversi notabili dell’informazione di settore, i vari Nadal, Murray e Djokovic si sono abbeverati alla fonte del livore sportivo per divorare trofei nel corso delle rispettive, luminosissime carriere. Ma tale qualità, che pare abbondare nell’inesauribile serbatoio dei sopracitati fenomeni, non è disponibile nella dispensa di Raonic. Egli, serafico, guarda il mondo con l’aria tranquilla di chi sa di non potersi sottrarre all’ineluttabile e vagola timido e meditabondo, ostentando un atteggiamento che fa quasi tenerezza indossato da un ragazzone di due metri e cento chili come lui. Gli dicono che dovrebbe essere più presente in campo e lui, imperterrito, galleggia a tre metri da terra, tra le nubi, incurante del resto. Forse per questo motivo, in due momenti ben distinti della carriera, gli hanno messo alle calcagna due soggetti come Galo Blanco e Carlos Moya: loro alla terra devono tutto, e forse sono i tutori più indicati a tenere Milos ancorato ad essa.

Momenti di tennis debordante intervallati da lunghi periodi di smarrimento e qualche infortunio di troppo: questo, in estrema sintesi, il 2016 di Milos Raonic. Le semifinali con Murray a Melbourne e quella incredibile con Federer a Church Road rimarranno le cartoline più belle di un’annata comunque soddisfacente, sebbene la carta d’identità, che segna quasi ventisei primavere, lo metta nella scomoda posizione di chi non può aspettare che i grandi escano di scena senza correre il rischio di essere risucchiato dalle nuove leve in rapida ascesa. Attenzione al ragazzo venuto da Podgorica, tuttavia: in giornata di grazia può battere chiunque, e i suoi avversari, anche quelli pieni di rabbia agonistica, lo sanno fin troppo bene.

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