Cecchinato rimonta ok. Che impresa Bolelli (ri.cr., Gazzetta dello Sport)
Soffrendo è ancora più bello. Marco Cecchinato ne sta facendo una filosofia di vita, dopo che nel secondo turno a Umago vince la nona partita delle ultime 13 in rimonta. Ceck, terza testa di serie del torneo croato, dopo il bye esordisce contro il ceco Vesely, fresco ammazzaitaliani per l’eliminazione di Travaglia al turno precedente e di Fognini a Wimbledon. All’inizio non si gioca: il numero 73 del mondo serve con l’81% e ottiene otto punti su dieci con la prima. Poi, a inizio secondo set, Cecchinato ritrova finalmente il filo tecnico della partita, tornando a utilizzare anche la micidiale palla corta che ormai è un marchio di fabbrica e dall’altra parte della rete l’avversario inizia a risentire di un fastidio alla gamba sinistra per il quale ha richiesto un time out medico. Dopo occasioni di break e controbreak per entrambi, Marco chiude il parziale alla sesta occasione. Nel terzo set Vesely è ormai sulle ginocchia, ai suoi turni di servizio cerca subito l’uno-due, ma dopo aver salvato sei match point nel decimo game, non può salvarsi alla settima chance per l’azzurro, che domani nei quarti trova il serbo Djere, recente vincitore del Challenger di Milano (dove si affrontarono nell’unico precedente, vinto dal Ceck nel 2016). Su un altra terra, quella svedese di Bastad, bella impresa di Bolelli, che elimina l’argentino Schwartzman, numero 12 del mondo e prima testa di serie. Simone va sotto 5-2 nel primo, recupera, non chiude sul 6-5 e servizio, non sfrutta un set point sul 6-5 del tie break e ne deve annullare due all’avversario prima di mettere in cascina il parziale. Nel secondo set l’azzurro, 153 del mondo, si ritrova sotto 2-1 con un break, ma infila di nuovo una serie di quattro game che gli consegna la sfida. Domani nei quarti trova lo svizzero Laksonen, lucky loser, che ha battuto Berrettini… [SEGUE].
Ceck ai quarti, con fatica (Daniele Benvenuti, Tuttosport)
Buona la sudatissima prima, in terra istriana, per Marco Cecchinato. Il palermitano esordisce nel torneo di singolare del 29° Plava Laguna Croatia Open di Umago, torneo 250 del circuito ATP, soffrendo tuttavia oltre ogni previsione contro il roccioso Jiri Vesely. Il ceco, portato al terzo set martedì pomeriggio da Stefano Travaglia e alle prese con problemi fisici già al termine del primo set (dopo 25′), cede solo al termine di due ore e diciannove minuti di battaglia e ben sei match point annullati davanti al pubblico del campo centrale Goran Ivanisevic Stadium. Cecchinato, testa di serie numero 3 e ben riposato grazie al bye verso il secondo turno (nonché uscito subito dal torneo di doppio), rimonta con determinazione il secco 2-6 patito nel primo set per poi capovolgere la situazione con un doppio e sudatissimo 7-5. Onore ai meriti del possente Vesely che era stato in grado di annullare altri quattro set point già nella seconda partita. In quella decisiva, a un passo dal 6-4 di passivo, da parte del mancino ceco ancora una serie di miracoli per tenersi in linea di galleggiamento fino al 5-5 e poi cedere quasi di colpo negli ultimi due giochi, chiamando anche un secondo medical time out. Ora Cecchinato vola al terzo turno dove cercherà una prima palla di servizio più incisiva per giocarsi l’accesso alla semifinale contro il serbo Laslo Djere che, in contemporanea, sulla terra rossa del Grandstand superava il tedesco Maximilian Marterer con il punteggio di 7-6 6-3… [SEGUE]. Continua la marcia trionfale di Simone Bolelli nello Star Swedish Open, torneo ATP 250 con un montepremi pari a 501.345 euro che si disputa sui campi in terra rossa di Bastad, in Svezia. Il 32enne di Budrio, numero 154 ATP, dopo aver superato brillantemente le qualificazioni, ha sconfino ieri il favorito numero uno del seeding, approdando così ai quarti di finale. L’azzurro si è imposto sull’argentino Schwartzman, numero 12 dell’ultimo ranking mondiale, col punteggio di 7-6(8) 6-3. Nei quarti di finale Bolelli sfiderà lo svizzero Henri Laaksonen, 148 ATP, che ieri ha sconfino il romano Matteo Berrettini.
Andre Agassi: “I bambini sono vittime silenziose delle nostre follie di uomini” (Marco Imarisio, Corriere della Sera 7)
«Davvero ha detto così?» Gli abbiamo appena raccontato di un giorno del 2011, Roma, Foro Italico, un aperitivo con zio Toni, il celebre e durissimo creatore di Rafael Nadal. Dopo un paio di Martini, si lasciò andare. E pronunciò una frase che la diceva lunga su quel che negli anni dell’apprendistato aveva patito il bambino divenuto prodigio di Maiorca. «Voi dimenticate sempre che Rafael è mio nipote. Siamo una grande famiglia, ma c’è comunque differenza. Non so se a mio figlio avrei fatto quel che ho fatto passare a lui». Andre Agassi cambia subito espressione. Sembra sinceramente colpito. Socchiude gli occhi, e quando comincia a parlare, il tono è pieno di malinconia. Non basta un libro di grande successo per ricucire ferite aperte da una vita intera. «Wow. Là fuori» e muove la mano in circolo, a indicare tutto quello che è fuori dallo spazio Lavazza che ci ospita, l’All England club, i prati sacri di Wimbledon, il rumore delle palline colpite dai giocatori che si stanno allenando, «è pieno di ragazzi che hanno subìto qualcosa di brutale, che hanno fatto rinunce pazzesche per arrivare fin qui. E che un giorno si chiederanno se davvero ne è valsa la pena. Un dilemma enorme, ma così va lo sport agonistico nel mondo di oggi. Non c’è alternativa, purtroppo. Non puoi avere tutte e due le cose». È in quel preciso momento che diventa evidente come uno dei più grandi tennisti di sempre, la voce narrante di Open, il breviario letto in tutto il mondo sul lato oscuro del successo, su una adolescenza senza possibilità di scelta, non si limita a recitare la parte dell’uomo che si è assegnato in quella autobiografia. Certe cose non finiscono, mai. Andre Agassi è un uomo che ha il coraggio di mostrare la propria vulnerabilità. Ieri, e ancora oggi. «Vede, la più grande decisione che un padre deve prendere nella propria vita è come definire il concetto di successo. Per se stesso. E per i suoi figli, che però devono avere una via d’uscita, devono avere il diritto di pensarci da soli».
Cosa direbbe a un genitore che sogna di essere un campione tramite i figli? «Come prima cosa, che sta sbagliando. E poi che deve essere consapevole di un semplice fatto: ci saranno delle conseguenze, dei dolori. Per entrambi, ma soprattutto per il suo ragazzo, anche se non saranno immediatamente visibili». Qual è il prezzo da pagare? «Se per successo un padre intende che il figlio deve diventare la persona più dura mai scesa su un campo da tennis o di qualunque altro sport, o che deve diventare il più ricco del mondo, dovrà prendere migliaia di decisioni completamente diverse da quelle di chiunque altro, che finiranno inevitabilmente per stravolgere la sua vita. L’unico consiglio che posso dare a un genitore è che bisogna scegliere bene la propria idea di successo, e di sceglierla con saggezza. Perché determinerà per sempre tutto quello che viene dopo, e soprattutto la sua relazione con le persone più care, con il sangue del proprio sangue». Che rapporto ha oggi con suo padre? «Di compassione, di comprensione. Ma solo da una parte. La mia. Sono solo io quello che prova a capire cosa è stata la vicenda umana e disumana tra noi due». E lui? «Per lui è tutto uguale. Non ha mai cambiato idea, non ha mai accettato il mio dolore. Ha 89 anni, sta perdendo qualche colpo, ci vede un po’ di meno, ha meno pazienza. I buoni momenti che abbiamo avuto vengono esclusivamente dalla mia scelta di compassione nei suoi confronti. Quel che io sono diventato, il mio successo, per lui giustifica la sua vita. Non conta nient’altro. È ancora convinto di essere nel giusto». Si chiede mai se sono sempre di più i genitori che spingono i figli all’estremo, nel tennis, nel caldo, in ogni disciplina? «Non voglio fare il filosofo, in fondo nella vita non ho fatto altro che giocare a tennis. Se vuole la mia opinione, ecco, credo che sia l’evoluzione della condizione umana. Dico davvero. Guardi al degrado dei rapporti tra le nazioni, a cominciare dalla mia. Guardi a certe persone, gente normale, che talvolta sono sempre più dominati dalla bramosia di potere, dall’avidità e da tutte le peggiori tentazioni che influenzano molta più gente di quanto dovrebbero. Non viviamo in una bella epoca. Invece di progredire, stiamo regredendo»… [SEGUE].
E in tutto questo, i bambini? «Sono gli unici che non hanno una voce. Sono vittime silenziose delle nostre follie di uomini. Nessuno chiede loro un parere, anche perché vengono schiacciati dalle figure degli adulti. Dovremmo pensare solo alla loro felicità, non alla nostra. Ma non succede quasi mai». Ha mai parlato di quel che ha vissuto con altri giocatori? «All’accademia di Bollettieri, quando ero un ragazzo, mi è capitato di farlo. Con Jim Courier, ad esempio. Poi mi è stato insegnato che i miei compagni non erano amici, non potevano esserlo. Erano rivali, che avrebbero cercato di portarmi via il cibo e le vittorie. Allora ho cercato di proteggermi, negando le mie debolezze e la mia vulnerabilità. Ci ho messo tanto a capire che era un errore». Quale ricordo si porterà per sempre di suo padre? «La sua reazione alla mia gioia sportiva più grande. Avevo appena vinto Wimbledon contro Goran Ivanisevic, nel 1992. Il mio primo Slam. Lo chiamai a casa. “No business losing that fourth set”, “non c’era alcuna ragione perché tu perdessi quel quarto set”. Mi disse solo questo. L’ho raccontato in Open. Quel che non ho raccontato è che certe volte mi sveglio di notte pensandoci ancora. Ci penso ogni volta che lo vedo, seduto nel suo giardino della casa di Las Vegas». Non ha mai cercato di capire le sue ragioni? «Voleva che andassi oltre quella vittoria? L’ho fatto, certo. Ma per lui non era importante la felicità che provavo. Quella frase significava che non cambiava nulla, che quel giorno io non ero un figlio contento, ma un lavoro da finire. Che per me non ci sarebbe mai stata pace. Fino a quando sarei stato in grado di reggermi in piedi. Ed è stato così»… [SEGUE].
Non teme che possa accadere anche ai suoi figli? «Uno dei miei ragazzi gioca a baseball. Ad alto livello. Ma è una sua scelta. L’ha fatta lui. Significa che ci può pensare ogni giorno se è giusto o meno continuare su quella strada. Lo ritiene importante, lavora per essere un buon giocatore. Il baseball è quel che fa, non quel che è. Questa è la differenza. Per mio padre ancora oggi, il tennis è quel che ero e sono io. Non la famiglia, i nipoti che gli ho dato. Solo il tennis. Per lui sono Andre Agassi il tennista. Per me, quel che fa mio figlio su un campo da baseball non definirà mai quel che lui rappresenta per me». Perché nella scuola di preparazione all’università che ha aperto a Las Vegas non ci sono campi da tennis? «Per due ragioni. La prima è che prenderebbero troppo spazio. La seconda è che il tennis ti insegna che il tuo successo dipende dalla caduta e dalla sconfitta di qualcun altro. Non è una cultura che voglio nella mia scuola. Mai come oggi i ragazzi che vanno per il vasto mondo hanno bisogno di contare uno sull’altro, e sentirsi parte di una esperienza comune». Quanto è stata importante sua moglie, Steffi Graf? «Quando ancora giocavo, ha reso la mia carriera più lunga, e l’ultima parte della mia vita sportiva è stata la più piacevole, se vogliamo definirla così. Non con le cose che diceva, ma con quelle che non aveva bisogno di dire. Quando ti svegli al mattino prima di una finale importante, e tutto quello che davvero desideri è fare una buona colazione, non hai bisogno di parole, ma di qualcuno che ti capisca. Lei è stata ed è ancora la mia forza tranquilla». Come mai è completamente uscita da questo mondo? «Lei vive solo nel presente. Quando giocava, Steffi era concentrata su ogni aspetto del tennis. Ma dopo non ha mai avuto bisogno di guardare i trofei o le sue vecchie partite. Quando è finita, per lei era davvero finita. Due anni fa, mentre Serena Williams stava per eguagliare il numero di Slam che lei aveva vinto, la parte più dura per lei fu quella di far capire alla gente quanto poco gliene importasse. Non le credevano. Ma lei per mia fortuna è fatta così. Anche nella vita. Le importa solo della nostra vita di oggi. Ieri è andato, domani chissà, conta solo il presente»… [SEGUE].