da New York, il Direttore
Tanto di cappello a Novak Djokovic. Quando un giocatore vince il suo 14esimo Slam uguagliando Pete Sampras che una quindicina di anni fa sembrava irraggiungibile… e lo fa cedendo un set al caldo più che a Fucsovics, un altro set più che a Sandgren perché ti puoi anche distrarre un attimo se sei avanti di due set e giochi il tiebreak in condizioni climatiche poco simpatiche, ma poi batti cinque avversari uno dopo l’altro tre set a zero, c’è forse chi può mettere in discussione la sua superiorità, la legittimità del suo successo? Proprio non si può. E non si può negare che il miglior Djokovic è tornato a risplendere. È quello che distribuisce meglio di tutti le sue vittorie, quasi equamente per ogni superficie: sei sul cemento australiano, tre su quello americano, quattro a Wimbledon, una sulla terra rossa dove c’è Rafa Nadal che vince quasi tutti i suoi Slam, 11 su 17, più di Federer che ne vince 8 sull’erba di Wimbledon.
Magari il suo gioco apparirà meno spettacolare di quello degli altri Fab ma è il più completo. È certamente meno elegante, meno fluido, meno fantasioso di quello di Federer – il rovescio a una mano di per sé è gesto troppo più bello a vedersi rispetto ai bimani, ma è la varietà degli schemi e dei tocchi ad affascinare chiunque ami il tennis – ed è meno muscolare, strappato ed atipico di quello di Nadal che nell’agganciare e montare sopra la palla con la sua chela mancina per far esplodere il dritto con ogni tipo di traiettoria riesce ogni volta a sorprendere per come coniughi potenza, precisione, angoli, saggezza tattica. Ma la virtù più stimabile di Djokovic, insieme alla completezza del suo tennis privo di punti davvero deboli, è la sua solidità. Definirlo robot è certo riduttivo, perché lo farebbe apparire disumano e Novak è anzi uomo di grande emotività e passionalità, però è vero che a tratti ti dà l’impressione di aver innestato il pilota automatico e non sbaglia nemmeno se vengono giù quattro missili di dritto di del Potro.
Nel primo set Nole è stato tatticamente perfetto. Palleggiava bello tranquillo sul rovescio dell’argentino, sulla diagonale dei rovesci, vuoi coperti, vuoi tagliati indifferentemente, convinto che tanto il punto Delpo non glielo avrebbe fatto. E come Delpo accorciava un minimo lui girava attorno alla palla e con il dritto mulinava, ora di qua, ora di là, spesso continuando a martellare sul rovescio fino a giocare quello decisivo con la massima angolazione sul dritto di Delpo che in allungo tentava un disperato passante lungolinea, o pseudo passante se Novak era rimasto dietro, che non aveva alcuna chance di entrare. Abbiamo visto questo schema decine di volte. Mai si aveva la sensazione che Delpo potesse uscire indenne da quei frangenti. Non solo: onde non far salire troppo la fiducia dell’argentino nel proprio dritto al fulmicotone, Nole ha ingaggiato spesso orgogliose battaglie anche sulla diagonale dei dritti. Spesso coronate da successo, perché Delpo ha un dritto straordinario dal centro del campo, e dall’angolo sinistro, ma incrociato per incrociato è meno efficace e in diverse occasioni è stato lui a sbagliare per primo e, a gambe scosciate, a mettere la palla in rete.
Dopo quel primo set magistralmente interpretato dal serbo, senza concedere una sola palla break e cedendo appena 7 punti in 5 turni di servizio (solo sull’1-1 Delpo è arrivato ai vantaggi), con l’argentino che sul 4-3 ha perso l’unico servizio dopo essere stato avanti 40-0 perché si è concesso almeno un paio di errori davvero gratuiti, non avrei scommesso un dollaro su Delpo, perché davvero il tema tattico di Nole era chiaro e vincente. E anche perché la sola possibilità per Juan Martin di fare il punto era legata o al servizio o al dritto-bomba… ma non a un solo dritto-bomba, bensì a quattro o cinque dritti-bomba, perché i primi tre o quattro quel gran difensore che è Nole glieli riprendeva tutti. Spara che ti spara, su un campo decisamente lento – molto più che quello australiano – alla fine Delpo finiva fuori giri e sbagliava. Insomma è vero che in fondo Delpo aveva perso un solo game di battuta e tanto era bastato perché si ritrovasse sotto per 6-3 (quindi con la metà dei game di Nole). Ma la superiorità del serbo era apparsa indiscussa. E quando nel secondo set Nole è salito 2-1 con break mi sono detto: “Ohi, qui tra poco la partita finisce”.
Non avevo fatto i conti né con lo smisurato orgoglio dell’uomo ribattezzato la “Torre di Tandil”, né con una improvvisa tensione che si è impadronita abbastanza stranamente di Djokovic. Mai così nervoso come a Cincinnati, dove pure aveva finito per vincere conquistando il Career Masters 1000 (tutti e nove in bacheca come nessuno), però insicuro e improvvisamente falloso e quasi incapace di pazientare sulla diagonale dei rovesci che tanto bene aveva funzionato nel primo set. La partita si è come rovesciata. DjokerNole ha preso a sbagliare e Delpo a matare con il dritto sparafucile, esaltando i suoi fans e gli incessanti “Olè Olè Delpo Delpo!”. Gran parte dello stadio, e secondo me anche della tribuna stampa, era per lui, perché la sua – nove anni e quattro interventi chirurgici dopo – era la storia giornalisticamente più… appetitosa. E lui è un ragazzo d’oro, buono come il pane, un gigante gentile come lo chiama il suo grande amico Djokovic. Non c’è persona che non stimi, non ami Delpo.
Credo che Delpo, arrivato in sala stampa più di tre quarti d’ora dopo l’epilogo con gli occhi ancora arrossati di pianto – e lo ha anche detto: “Non ho fatto che piangere, è un momento molto triste, la cosa più brutta che mi poteva capitare in questa giornata era dover rispondere adesso alle vostre domande” con un sofferto abbozzo di sorriso finale – non dimenticherà tanto facilmente le tre occasioni che ha avuto di salire 5-3 dopo aver strappato la battuta a Djokovic già sul 2-3. Quell’ottavo game è durato un’eternità, 28 minuti per 22 punti con scambi forsennati e pregevolissimi, ma anche con errori indegni dei due. Su almeno due palle break, se non su tutte e tre, Novak non ha messo dentro la prima, ma Delpo non ha saputo approfittarne e anzi ha pure sbagliato un paio di… quasi rigori. Errori comunque gratuiti, seppure dovuti dalla necessità di prendere sempre bei rischi per sfondare la difesa di Nole. Il quale però i suoi errorucci, accompagnati da sguardi quasi smarriti verso i posti dove sedeva la sua tribù, Jelena, il fedelissimo Marian Vajda, Dodo Artaldi e signora, li faceva eccome, quasi inspiegabilmente. Forse lì ha avuto anche paura di perdere. E se l’è tenuta fino al tie-break, dove – dopo 3 minibreak nei primi tre punti – sotto per 3-1 deve ringraziare sul 3-2 un rigore di dritto ciccato da metà campo se è arrivato inaspettatamente al 3-3. Un rovescio sbagliato per uno e sul 4-4 un altro regalo di Delpo, dritto in rete seguito da un dritto out e ecco che dopo un set durato da solo 1h e 35 minuti DjokerNole era avanti saldamente per due set a zero.
Lì, di nuovo, la scommessa live da un dollaro sulla rimonta di Delpo non aveva quota. E infatti, arrancando arrancando, l’argentino è finito sotto di un break, 3-1, poi ha salvato miracolosamente il 4-1, risalendo 3-2, ma insomma ormai il suo destino era segnato e dopo 3h e 16 minuti uno smash di Nole ha sigillato il suo quattordicesimo trionfo. “Ho giocato quasi sempre al limite, tutto il tempo, cercando vincenti di dritto e anche di rovescio, ma Nole arrivava ovunque, dappertutto, sempre. È un grande campione, sono contento per lui”. E, seppur triste come mai lo avevo visto, Delpo che davvero aveva creduto nella possibilità di essere il protagonista vincente di uno splendido sceneggiato, appariva sincero nel dire questo. Più che meritato, incerto soltanto per quella mezzo’retta centrale del secondo set, e tuttavia non così netto come sembrerebbe dal punteggio, perché un match che dura 3 ore e 16 minuti non è stata certamente una passeggiata per il vincitore. Adesso, con due Slam vinti su quattro, e gli ultimi due come già gli era successo nei suoi anni d’oro 2011 e 2015, Novak (grazie anche a Cincinnati) è il vincitore morale della stagione, sebbene per il fatto di aver giocato come sa per non più di 9 mesi, in classifica ATP sale soltanto a n.3, sempre alle spalle di Nadal e Federer, i cui risultati poggiano su 12 mesi di attività. Non troppo frequente quella di Roger… e difatti è ben dietro a Rafa.
Ma se in Oriente e nelle finali ATP Novak dovesse continuare su questa falsariga anche il computer che non si intende di tennis ma “ragiona” di calcoli, si dovrà arrendere. Novak in questo momento è più sano di Rafa e di Roger. Fa un po’ specie scriverlo, dopo i sei mesi di stop del 2017, dopo l’orribile inizio del 2018 con 6 sconfitte in 12 partite, e anche con il k.o. patito con il nostro pur valido Cecchinato a Parigi, dopo che a Roma si erano visti i primi segni di ripresa di Novak. “Se mi aveste detto a febbraio dopo l’operazione che avrei vinto Wimbledon, l’US Open e Cincinnati, sarebbe stato difficile da credere. C’era allo stesso tempo una parte di me che immaginava e credeva, sperava, che sarei tornato al livello desiderato molto presto”. “Invece – ha proseguito Novak – mi ci sono voluti tre o quattro mesi e in quel processo ho imparato molto su me stesso, ho imparato a essere paziente, cosa che non è mai stata il mio forte… Oggi m i trovo spalla a spalla con Pete Sampras, il mio idolo di gioventù. La prima volta che ho guardato tennis in tv c’era lui che vinceva… il suo primo o il suo secondo Wimbledon… vincere Wimbledon è stato il sogno della mia infanzia e il giorno che ci sono riuscito si sono dischiuse un po’ tutte le porte”.
Novak ha risposto anche a una mia domanda sui momenti di scoramento e di fiducia nel corso dell’anno: “Well, il tuo compatriota Cecchinato mi ha fatto realizzare un sacco di cose dopo che ci persi. Ero molto, molto deluso per come giocai quel giorno – ricorderete che aveva data per incerta la sua partecipazione ai tornei sull’erba, Wimbledon incluso – Sentivo che avevo cominciato a giocare bene a Roma, giocato dei gran match al Roland Garros e poi mi sono sentito come se mi fossi lasciato andare… Naturalmente vanno dati crediti a lui per giocare un match stupefacente nel torneo, ma io che credevo di essere così vicino al mio desiderato livello e poi giocare così sotto alle mie aspettative… dovevo allontanarmi dal tennis. Sono andato a passeggiare sulle montagne francesi (Monte Victoria, andateci, vi farà bene), ci siamo isolati e abbiamo guardato alle cose con una prospettiva diversa. Da allora il mio tennis è completamente diverso. Finale al Queen’s, vinto Wimbledon, vinto Cincinnati, vinto l’US Open, mi sa che tornerò a passeggiare presto ancora un po!”.
Ma ora la resurrezione è cosa fatta, non si discute, e si può ricominciare a ricordare che il miglior Nole a cavallo 2015-2016 aveva conquistato quattro Slam a fila, e che questa doppietta Wimbledon-US Open costituirà per lui molto più che una grande iniezione di fiducia verso il 2019 e l’Australian Open (già vinto sei volte). Tant’è che già ieri in conferenza stampa diverse domande vertevano sulle sue chances di raggiungere Nadal a quota 17 e addirittura Federer a quota 20. Bisognerebbe, certo, che vincesse quasi tutto lui, e che perdessero sempre i due grandi rivali, Roger con i suoi 6 anni di più, Rafa con un solo anno ma un fisico tutt’altro che indistruttibile. I tre hanno vinto la bellezza di 51 Slam! 20+17 +14. Nemmeno due Slam vinti l’anno però gli basterebbero se volesse smettere di giocare prima dei 37 anni, per raggiungere Federer. Ma stante la constatata difficoltà dei Next-Gen ad emergere in modo deciso – Zverev che dovrebbe essere il migliore per ora negli Slam ha fatto dei gran flop – siamo sicuri che questo Djokovic non possa trionfare anche più di 2 volte l’anno nei Majors? “Vincere ogni anno Wimbledon e US open?… Io ci starei!”. Ma Djokovic può reggere fino a 37 anni?