I 60 anni di John McEnroe e il flop Torino-Finals (Semeraro, Clerici, Rossi, Ricca, Piccioni, Lombardo)

Rassegna stampa

I 60 anni di John McEnroe e il flop Torino-Finals (Semeraro, Clerici, Rossi, Ricca, Piccioni, Lombardo)

La rassegna stampa di sabato 16 febbraio 2019

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“Scontro politico sulle Finals? Macché, mancano le risorse” (Valerio Piccioni, La Gazzetta dello Sport)

Niente ATP Finals di tennis a Torino nel quinquennio 2021-2025. A meno di un mezzo miracolo capace di rimetterci in gioco. Il Consiglio dei ministri non ha trovato le coperture economiche per poter partecipare alla corsa con Londra, la sede attuale, e Manchester, Singapore e Tokyo, le rivali del capoluogo piemontese che avevano passato insieme con noi il primo screening con le proposte di 43 città. Giancarlo Giorgetti, sottosegretario alla presidenza del consiglio con la delega allo sport, è vero che la politica, in particolare lo scontro Lega-5 Stelle, ha tagliato le gambe alle ATP Finals a Torino? «Macché. Depuriamo la vicenda da tutte le letture strumentali e sottraiamola alla bolgia della polemica politica. In realtà, tutto il Governo ha cercato una soluzione. Siamo consapevoli dell’importanza dell’evento, del ritorno che garantirebbe, ne abbiamo discusso responsabilmente e collegialmente». E dove vi siete arenate? «Partiamo dall’inizio. Abbiamo seguito tutta la vicenda dal momento in cui la sindaca Appendino ha lanciato la proposta che la Federtennis ha sostenuto. Con il presidente Binaghi siamo stati e siamo in contatto quasi quotidiano. C’è un problema di contributi pubblici, il comune di Torino si è impegnato per un milione e mezzo e altrettanto, seppure in maniera più sfumata, ha fatto la Regione. A quel punto c’era la necessità di uno sforzo economico del Governo e abbiamo cercato una soluzione. Che non è stata trovata […] «Continuiamo a lavorarci e a pensare che la soluzione sia un passaggio parlamentare come avvenuto per la Ryder Cup di golf. Credo sia necessaria una condivisione allargata non solo alla maggioranza. Che tutti insieme si dica di dirottare le risorse necessarie verso questa impresa. Per tutto ciò accolgo favorevolmente la proposta di legge presentata da Riccardo Molinari. Di fronte a un pronunciamento del Parlamento saremmo felici di fornire le necessarie garanzie governative all’evento». Che cosa succederà adesso? «Credo che nella lettera che ci era stata chiesta in termini ordinatori e non perentori, il presidente Binaghi allegherà la proposta di legge e rappresenterà la situazione attuale». Non c’era la possibilità che fosse la neonata società Sport e Salute a garantire con il suo patrimonio e il suo budget? «Non si può mettere a disposizione qualcosa che non è a bilancio, rischiando di togliere soldi all’attività delle federazioni e allo sport di base». E se il vostro no fosse figlio di quello pronunciato dai 5 Stelle sul finanziamento della candidatura olimpica di Milano-Cortina? «Ve lo ripeto. Vogliamo le ATP Finals allo stesso modo, ma un Governo deve prendersi le sue responsabilità. Qualcuno potrebbe alzarsi e dire: perché il tennis sì e i pastori sardi o le popolazioni colpite dal terremoto no? Non dimentichiamo che questo è un Paese che ha una grande fame di impianti sportivi, soprattutto al Sud, e il bilancio dello Stato non è illimitato. La situazione delle Olimpiadi è completamente diversa perché le garanzie economiche messe dal Governo in quel caso sono pari a zero, mentre qui parliamo di diverse decine di milioni di euro». Insomma, rammarico e realismo. «Esatto».


Il doppio fallo di Torino: fuori dai Giochi, può perdere il tennis (Jacopo Ricca, La Repubblica)

La lite nel governo tra Movimento 5 stelle e Lega allontana, forse definitivamente, il sogno di portare dal 2021 le Atp Finals di tennis a Torino. Lo schiaffo alla sindaca Chiara Appendino, che si era spesa in prima persona per la candidatura, è arrivato giovedì sera al termine del consiglio dei ministri. E nonostante il grande lavorio diplomatico tra Torino e Roma, ma anche interno ai due partiti, le possibilità della città sono ormai scarse. Entro ieri sera dovevano arrivare le garanzie governative per i 78 milioni di euro (18 il 1° anno e poi 15 per i 4 successivi), di “fee”, la tassa che spetta all’Atp, l’associazione dei tennisti professionisti. Questo impegno però non ci sarà, almeno per ora, perché «se non ci sono le risorse diventa complicato e illegittimo per l’esecutivo dare le garanzie economiche», ha spiegato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega allo Sport, Giancarlo Giorgetti. Il leghista ha cercato una via d’uscita che è rappresentata dalla proposta di legge, depositata dal capogruppo della Lega, Riccardo Molinari, per il finanziamento dell’evento: «Il governo, né il sottoscritto come qualcuno male informato ha detto, non è contrario alle Atp 2021-25» ha ribadito Giorgetti, rispondendo in parte all’appello di Appendino. «Il governo sciolga gli indugi, in questa fase così delicata – ha detto la sindaca – Confermi le garanzie che si era impegnato a fornire e tutte le forze politiche garantiscano supporto» […] Le altre candidate sono Londra, Manchester, Tokyo e Singapore, ma se le due asiatiche sono poco gradite ai grandi tennisti che preferiscono giocare l’ultimo torneo dell’anno in Europa, Londra resta forte dell’esperienza maturata in questi anni in cui ha ospitato l’evento. E l’Atp aveva chiesto alla Fit che il governo si impegnasse con una lettera proprio per tenere in piedi le due ipotesi Londra e Torino. L’allarme sui fondi era stato lanciato da Binaghi a inizio gennaio, ma fino a ieri sul fronte leghista quasi nessuno si era mosso e l’impegno di Appendino e del sottosegretario M5s Simone Valente non è bastato a risolvere l’impasse. Così ora Torino si trova a sperare in una proroga che difficilmente arriverà. L’assegnazione arriverà a marzo a Indian Wells, mentre la proposta di legge di Molinari potrebbe essere calendarizzata nello stesso mese e arrivare in aula soltanto a maggio, troppo tardi quindi.


ATP Finals, lite sui fondi. Torino quasi esclusa (Andrea Rossi, La Stampa)

Più che l’assenza di risorse (che, volendo, si trovano), il problema sono l’ennesima figuraccia planetaria e le eventuali conseguenze. «Torino rinuncia alle Atp Finals di tennis», rimbalza sui siti sportivi internazionali. E anche se non è esattamente così (non ancora, almeno) il finale sembrerebbe scritto: quando di fronte hai Londra, Manchester, Tokyo e Singapore – e tutte hanno le credenziali in regola – al minimo inciampo rischi di essere fuori. E dunque Torino non rinuncia, ma è come se l’avesse fatto, immolata sull’altare delle quotidiane tensioni tra Lega e Movimento 5 Stelle. Per accaparrarsi il torneo tra gli otto migliori tennisti al mondo, dal 2021 al 2025, servirebbero 76 milioni, da garantire tramite fideiussione (non cash) entro metà marzo. Il governo si è impegnato per 18 milioni qualche mese fa, ma il sottosegretario Giancarlo Giorgetti aveva garantito di coprire tutto il dovuto. Ora è molto meno rassicurante: «La questione, purtroppo, è che se non ci sono le risorse diventa complicato e illegittimo dare le garanzie economiche» […] Si doveva decidere ieri, anche se Atp non ha fissato scadenze così drastiche. Se ne doveva discutere in Consiglio dei ministri giovedì, ma il Movimento 5 Stelle ha alzato barricate sulla riforma delle autonomie e la Lega ha chiuso i rubinetti: non se ne parla nemmeno. Del resto, i Cinque Stelle hanno ripetutamente provato a sgambettare la corsa olimpica di Milano e Cortina; la «vendetta» leghista contro Torino era da mettere in conto. Da giorni Giorgetti avvertiva: al massimo il governo può garantire 45 milioni. E gli altri 30? Problemi di Torino. In fondo Lombardia e Veneto pagheranno i Giochi 2026 di tasca propria se mai li avranno. Le assonanze non mancano, ma c’è una differenza che le irride: quando Lega e Cinque Stelle litigavano sulle Olimpiadi, a livello internazionale si faticava a trovare candidature e l’Italia sarebbe stata accolta a qualunque costo (infatti ha ricevuto un’infinità di deroghe); ora le alternative ci sono, quindi Torino rischia di essere bruciata se non torna in fretta in partita, cioè se dal governo non arriva una parola chiara. Per ora continua lo scaricabarile. Ieri pomeriggio il capogruppo della Lega Molinari ha annunciato una proposta di legge per stanziare i 78 milioni necessari a Torino. La Federtennis l’ha allegata a una lettera ad Atp con cui chiede ancora un po’ di tempo. La Lega nega di sdegnata qualunque sabotaggio, i Cinque Stelle pure. Ma il tempo corre.


I 60 anni di McEnroe affidato a me dal suo papà (Gianni Clerici, La Repubblica)

Ieri mattina ero ospite di una terza elementare, della quale fa parte la mia nipotina Anita, allieva al Collegio Gallio di Como, e tennista. Del Collegio ha fatto parte, da insegnante, un grandissimo latinista, Padre Pigato, che mi ha tradotto i maggiori passi del Trattato del Giuoco della Palla, del mio antenato elettivo Antonio Scaino da Salti, avversario al tennis di Federico II, duca di Ferrara. Quando uno dei bambini ha alzato la mano, per rivolgermi una domanda, mi sono chiesto se volesse interrogarmi sul latinista. Invece no. «Lei ha conosciuto McEnroe?» mi ha chiesto. «Sì, perché?», ho risposto sorpresissimo. «Perché domani compie 60 anni». Strabiliato mi sono ricordato la volta che, al Torneo di Dallas stavamo giocando, insieme al mio partner Tommasi, un doppio del torneo semi-veterani, e avevamo appena battuto due avvocati americani, quando uno di loro ci si rivolse, per dire: «Avete mai visto mio figlio in campo?». Mi scusai, domandai come si chiamasse il ragazzo. «John McEnroe» rispose il papà, Avvocato John. «Verremo certo» rispose il mio partner Tommasi, e l’Avvocato: «Andrà anche al Roland Garros, e a Wimbledon. Keep an eye on my boy, please». Tenetelo d’occhio, per favore. Il pomeriggio presenziammo la finale jr, nella quale vedemmo perla prima volta John, che ci impressionò. Perse dall’ecuadoriano Icaza perché i suoi vincenti uscivano tutti di una spanna […] Fedeli al compito suggeritoci da suo Papà, rividi McEnroe nel ’77 a Parigi, dove insieme a una partner chiamata Mary Carillo, cresciuta a Milano, vinse il doppio misto. Ma fu a Wimbledon che ci lasciti più che stupiti. Non aveva nessuna classifica, e fu costretto alle qualificazioni. Le vinse. Si affacciò al torneo, prese a battere bravi tennisti quali l’egiziano El Shafei, il rodesiano Dowdeswell, e il tedesco Meyer. Ed eccolo, contro le previsioni dei bookmakers, in semifinale insieme a un tale Borg, Gerulaitis e Connors. Era troppo. Mai uno uscito dalla qualificazioni ci era riuscito. Il piccolo Mac fu battuto da Connors in quattro set molto combattuti. Da lì cominciò l’ascesa che lo avrebbe portato a vincere tre volte Wimbledon, quattro gli Us Open, una Parigi e una in Australia. Non si può infine dimenticare il film sul famosissimo tie-break dell’80 (Borg McEnroe), né la recente autobiografia John McEnroe 100%. Oggi le telecronache di John rendono più interessanti anche le partite più banali.


McEnroe, l’attaccabrighe che ha cambiato il tennis (Il Giornale, Marco Lombardo)

Per riuscire a rompere le regole sono bastati 500 dollari e l’idea che tutto il mondo andasse contromano. Cinquecento dollari in tasca per partire dall’America e fare il percorso all’incontrario verso una fortuna che a soli 18 anni di solito sembra così lontana. Invece bisogna saper credere, e lui ci credeva. E soprattutto le regole bisogna saperle rompere: viaggiare solitari dalla parte sbagliata, comporta dei rischi. Era il 1977 e John Patrick McEnroe partì solo con la sua Dunlop Maxply, diventata poi non solo una racchetta di legno, ma una di quelle che hanno cambiato il tennis. E invero lo ha cambiato quel mondo, chi la teneva in mano, in quell’anno in cui tutti erano ubriachi del fascino algido di Bjom Borg e chi se lo filava quel ragazzino americano anche un po’ fastidioso… Nato a Wiesbaden, Germania Ovest, dove John P. Senior prestava servizio in una base militare, John P. Jr è stato l’esatta sintesi dei suoi genitori, prendendo da papà lo spirito compagnone irlandese e da mamma Kay il rigore della figlia di uno sceriffo di Long Island. Insomma se c’era da fare cagnara per carità, ma la madre gli insegnò che il mondo o è bianco o è nero […] Però non è che si sia imborghesito, perché in effetti le movenze sono sempre quelle, lo stile è quello. Il suo. Racconta: «Sono arrivato in un circolo di colletti inamidati, quando me ne sono andato avevo fatto la rivoluzione». Ed in effetti fu così, cominciando infatti da quella racchetta: diritto, rovescio, volée, servizio, smash, tutto con la stessa impugnatura. Nessuno c’era mai riuscito, tranne Rod Laver s’intende. E dunque perché non lui. Si diceva di quel 1977: lo allenava a Port Washington Harry Hopman, il coach che aveva creato appunto il due volte vincitore del Grande Slam, nonché gente come Roy Emerson e Ken Rosewall. Non poteva che finire così, quando il ragazzo con i capelli ricci tenuti su da una banda rossa entra scontroso nel tennis che conta: vince il Roland Garros junior in singolare e doppio misto, arriva a Wimbledon vestito di bianco e si spinge dalle qualificazioni fino alla semifinale tra gli “oooh” di un pubblico che non aveva mai visto prima qualcosa del genere. Lo show era appena cominciato. Il nemico odiato (per sempre) quel giorno era Connors. Poi diventerà Ivan Lendl. John McEnroe alla fine Wimbledon lo ha vinto 3 volte, aggiungendo altri cinque titoli dello Slam (3 a New York, 1 in Australia e 1 a Parigi) sempre messo un po’ di sbieco sulla linea di fondo. E ha fatto tutto a modo suo, giocando, sbuffando, litigando, urlando, timbrando la Storia con il suo man, you cannot be serious, arrivato rissoso dopo una chiamata avversa in un’epoca irripetibile di campioni. E lo ha fatto divertendosi e divertendoci: è stato la chiave d’ingresso nei mitici Anni ’80, ma non è solo per questo che ancora oggi lo rimpiangiamo. SuperMac era l’eroe di una generazione che voleva andare oltre a una vita grigia, l’uomo che litigava con gli arbitri perché pensava fossero «la feccia del mondo» (l’ha detto davvero, durante una partita) e di non averne affatto bisogno: gli bastava sentire il tocco sulla racchetta – ha sempre ripetuto – per sapere se la palla fosse dentro o fuori. Magari poi era fuori, ma pazienza. Non era semplicemente possibile. Così come non è possibile oggi che Roger Federer abbia vinto 3 Slam dopo che il McEnroe cronista ne avesse decretato la morte sportiva. Semplicemente non può essere successo. Eppure. John era il tennista che sapeva odiare gli avversari, la fila è lunga. Quando parla della finale persa al Roland Garros nel 1984 facendosi rimontare due set da Lendl, ancora adesso descrive il mal di stomaco che gli viene ogni volta che torna a Parigi, «e ancora non capisco: dev’essere stata una distorsione spazio-temporale, tipo Star Trek». Però poi, in realtà, è finito per farsi amare, perfino dal suo più acerrimo rivale. Borg-McEnroe non sono state solo due finali pazzesche di Wimbledon che hanno lasciato ai posteri un tie-break immortale (anno 1980) e la resa definitiva dello svedese (anno 1981). Borg-McEnroe è diventata un’amicizia, un film, la dimostrazione che la vita non è mai come ti spiegano le regole. E così oggi, nel mondo dei warning e degli «Occhi di Falco», John McEnroe sarebbe fuori dopo un paio di game, però vedendo quello che c’è in giro vorresti a un certo punto trovare qualcuno pronto a spaccare una sedia a racchettate per dire poi che aveva ragione lui. Qualcuno pronto a fare la rivoluzione per restare eterno. Invece John McEnroe, oggi, compie già 60 anni. E, man: you cannot be serious.


McEnroe, l’antipatico più amato di sempre. Sessanta e non sentirli (Stefano Semeraro, La Stampa)

Uno splendido, insopportabile sessantenne. «Se mi allenassi batterei Serena Williams anche oggi», dice John McEnroe, nato per caso il 16 febbraio 1959 a Wiesbaden, in Germania, dove suo padre lavorava in una base Nato, moccioso newyorchese per sempre. La quintessenza di Manhattan e del tennis anni ’70 e ’80, Forest Hills e Studio 54, servizi mancini, volée sincopate, molti riccioli. Troppe cattive maniere per un tennis che si fingeva ancora educato. Il ribelle che sapeva infiammarsi senza bruciarsi, anzi, incenerendo la concorrenza. Dicono che si sia ammorbidito, con gli anni. Imborghesito […] «La Coppa Davis è morta», ha detto in Australia, nel suo ruolo di finto commissioner del tennis per Eurosport. «Il prossimo passo sarà giocare nudi per la tv». Un po’ ci fa, Johnny Mac, l’antipatico più amato di sempre. Un po’ ci è rimasto. Vederlo recitare la caricatura di se stesso nei tornei per veterani, lustrando un repertorio di frasi memorabili («You cannot be serious!») ormai buone per stamparci le t-shirt, è stato a tratti malinconico e irritante. La differenza è che lui la Storia del tennis l’ha fatta davvero. Sette titoli del grande Slam, e 77 tornei vinti. Le rivalità al curaro con Connors e Lendl, l’amicizia scalena con Borg, quelle 14 partite di cui appena 4 grandi finali, la più celebrata nell’80 a Wimbledon, il tiebreak più famoso di sempre. Un genio anche in doppio: 72 centri. L’ultimo a 47 anni, a San Josè nel 2006, in coppia con Bjorkman. Tanto per dare ragione al suo vecchio compagno Peter Fleming: «La miglior coppia possibile? McEnroe e un altro». Antesignano. A rete sul servizio altrui, rapinando tempo tempo, ci andava 40 anni prima di Federer. Ma Roger è la classicità infilata nel post-moderno, Mac è Borromini, la vertigine di un tennis impossibile. Chi è venuto dopo ha vinto di più, nessuno è stato capace di impallarlo. Anche oggi che usa il microfono invece della racchetta sono quelli che intervista – Federer, Nadal, Djokovic – a sentirsi i brividi addosso. Numero 1. Per sempre.

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