Osaka, dura la vita senza allenatore (Crivelli). “Fondi al Masters con l'Olimpiade”. No del Governo (Piccioni). Elina, come picchia la regina di Roma! (Semeraro). Djokovic: "Stavo per smettere la nascita di mio figlio mi ha dato equilibrio” (Audisio)

Rassegna stampa

Osaka, dura la vita senza allenatore (Crivelli). “Fondi al Masters con l’Olimpiade”. No del Governo (Piccioni). Elina, come picchia la regina di Roma! (Semeraro). Djokovic: “Stavo per smettere la nascita di mio figlio mi ha dato equilibrio” (Audisio)

La rassegna stampa di mercoledì 20 febbraio 2019

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Osaka, dura la vita senza allenatore. Disastro a Dubai (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

Lo zen è la via che riporta alla realtà. Qui e adesso. E quella di Naomi Osaka, dopo la traumatica separazione tecnica da Sascha Bajin, il coach serbo che da numero 72 al mondo in 14 mesi l’ha portata in vetta al ranking con due tornei dello Slam vinti (Us Open e Australia), è entrata d’improvviso in un turbinio di negatività probabilmente prevedibile e comunque molto umano. La forza di Naomi, in questo anno fantastico, è stata la capacità di farsi scivolare addosso il mondo esterno e di conservare un’enorme ferocia mentale nei momenti più caldi delle sfide clou. Ma gli eventi degli ultimi dieci giorni hanno finito per travolgerla. Dopo il trionfo a Melbourne, la giapponese è tornata in campo nel Premier 5 (i tornei equivalenti ai Masters 1000 maschili) di Dubai. O meglio, sul cemento degli Emirati ha portato il suo fantasma, travolto in appena 66 minuti con un doppio 6-3 dall’ex top ten Kiki Mladenovic, adesso numero 67 e nel 2019 ancora priva, fino a ieri, di vittorie (quattro eliminazioni al primo turno) […] E quando si è trattato di commentare l’uscita, è stata tranchante: «Mi è capitato un disastro». Alla vigilia del torneo, la numero uno del mondo (posizione che in ogni caso manterrà) aveva spiegato finalmente le ragioni della clamorosa rottura con Bajin: «Non è una questione di soldi, semplicemente non ero più felice e non posso anteporre i successi sportivi alla mia felicità personale. Si è rotto qualcosa nel nostro rapporto, non potevo avere qualcuno in tribuna di cui non mi fidavo più, ma ringrazio Sascha per avermi fatto diventare la giocatrice che sono». Solo che quel vuoto, gli sguardi che non si incrociano più, al primo appuntamento dopo l’addio si è rivelato un macigno insuperabile: «Non lo nego, in questi giorni non mi sono preparata bene e prima del match sono entrata negli spogliatoi con un grande carico di emozioni difficili da gestire: il risultato è la conseguenza di tutto questo, so che adesso la gente mi concede un’attenzione che prima non avevo» […]

“Fondi al Masters con l’Olimpiade”. No del Governo (Valerio Piccioni, Gazzetta dello Sport)

Milano-Cortina va. Tutti insieme appassionatamente: sindaci, presidenti di regione, Coni, governo. La corsa italiana ai Giochi Invernali del 2026 continua senza frenate e anche il vertice olimpico di ieri a Palazzo Chigi lo ha dimostrato. Anche se certi paletti restano in piedi. Il costo zero, sicurezza a parte, per il Governo, è un bastione che non viene messo in discussione. E il tentativo di scalfire questo schema, anche indirettamente, viene rispedito al mittente. Com’è accaduto ieri. Con la dichiarazione di Luca Zaia, governatore del Veneto, che ha proposto un «pacchetto di sostegno finanziario» per legare il progetto olimpico alla candidatura di Torino per le Atp Finals di tennis nel quinquennio 2021-2025, ambizione che s’è incagliata per ora sui 62 milioni di fideiussioni da trovare per gareggiare con Londra la sede uscente, Manchester, Singapore e Tokyo. Zaia aveva argomentato così l’idea: «Una volta definito il pacchetto complessivo, basato su due eventi planetari come le finali Atp e le Olimpiadi, i finanziamenti si possono reperire con modalità da definirsi concordemente. Mettendo in campo un pacchetto di così alto prestigio manderemo allo sport mondiale un messaggio unico e forte di compattezza e determinazione». A stretto giro, in piazza Colonna, il governatore lombardo Attilio Fontana ha detto sì: «Una proposta che evidenza il fatto che i grandi eventi sportivi sono grandi risorse per il Paese e quindi bisogna collaborare tra tutti». Una visione che Simone Valente, il sottosegretario ai rapporti con il Parlamento che è il plenipotenziario del Movimento 5 Stelle sullo sport, ha immediatamente contestato: «Ogni evento va considerato singolarmente e si devono valutare costi e benefici senza mercanteggiare. È totalmente inopportuno, la politica non deve fare questo». Porta chiusa. Così l’idea del «pacchetto» non ha varcato la soglia di Palazzo Chigi. Il progetto tennis è ormai vicino alla resa dei conti visto che l’Atp ci ha concesso una proroga fino a fine febbraio, i costi delle Olimpiadi restano a carico delle Regioni. E nella riunione si è parlato di «come dare completa attuazione alla lettera di garanzia del presidente del consiglio inviata al Cio il 10 gennaio», la sintesi dell’ufficio del sottosegretario Giancarlo Giorgetti […]

Elina, come picchia la regina di Roma! (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Elina Svitolina è una ragazza pratica: punta ai record. Prima ucraina a entrare fra le Top 10 del ranking mondiale, vincendo le ultime Wta Finals è diventata anche la prima Maestra del suo Paese. In classifica è già stata numero 3, l’obiettivo ora sono numero 1 e un risultato importante negli Slam, dove finora è arrivata al massimo nei quarti, due volte in Australia e due volte a Parigi. Il killer istinct non le manca: ha già sconfitto sei volte una numero 1 del mondo, e su 15 finali giocate in carriera ne ha vinte 13, comprese le ultime due di fila al Foro Italico. Da quest’anno poi può contare sull’aiuto di uno sparring partner di qualità: Gael Monfils, il campione francese con cui fa coppia fissa. In Australia hanno aperto un account “di coppia” e iniziato una gara a fine benefico: ogni ace che riescono a piazzare, ci ha spiegato Alina a Doha, si trasforma in una donazione di 100 dollari all’ospedale pediatrico di Odessa. Onestamente: che chance ha di battere Gael come numero, di ace? «E’ dura, ma l’importante non è quello, cerchiamo semplicemente di fame più che possiamo. Ci interessa restituire un po’ di quello che abbiamo avuto, fare per i bambini. E’ la prima iniziativa di beneficenza che organizziamo, cene saranno altre. Abbiamo tanti progetti insieme». Difficile immaginare due personalità più diverse delle vostre… «E’ vero, siamo molto diversi: per mentalità, stile di gioco e cultura. Anche il modo in cui guardiamo al tennis è differente, e proprio questo rende la cosa più interessante. Riusciamo a prendere il meglio l’uno dall’altro. Io sono molto precisa in tutto quello che faccio, Gael più rilassato, e da quando sto con lui riesco a rilassarrmi anch’io. Mi rendo conto che alla fine sto solo giocando a tennis e che la vita è bellissima». Vi alienate anche insieme: come riesce a concentrarsi palleggiando con un intrattenitore nato come lui? Gael dice spesso che se non si divertisse smetterebbe subito di giocare. «La verità è che ci alleniamo molto seriamente: perché io lo metto alle corde. Gael si diverte a fare dei colpi strani, a inventare cose, ma quando esagera lo richiamo all’ordine: “okay, adesso facciamo 15 diritti incrociati!”. Sono quel tipo di persona, la mia educazione è stata molto rigorosa» […] Lei in campo è tostissima, specie in finale e specie contro le più forti: una dota naturale? «Negli ultimi due anni ho lavorato molto su questo aspetto, prima con un mental-coach e ora da sola. Nel tennis vince chi si adatta prima e meglio. Ogni settimana le condizioni sono diverse, cambiano palle, campi, temperature. Non era neppure previsto che io giocassi a Doha, è stata una decisione dell’ultimo minuto. Devi sempre essere concentrata su quello che fai nei momenti che contano, ed è quando ti trovi in finale con un giocatrice forte che serve il salto di qualità. Adesso riesco sempre a dare il 100 per cento». Negli Slam non è mai andata oltre i quarti: è l’obiettivo di quest’amo? «Ho 24 anni, quindi ne giocherò ancora tanti. Cerco di fare il meglio e restare positiva. Nel tennis è normale perdere quasi tutte le settimane, non ha senso abbattersi per una sconfitta» […]

Le grandi storie del tennis: Lilì, la prima femminista (Daniele Azzolini, Tuttosport)

La più bella aveva un nome da profeta: Elia. Ma si faceva chiamare Lilì, e il nomignolo le stava un incanto. Riassumeva in quattro lettere squillanti il suo carattere, e rendeva più sbrigative le presentazioni, ché a pronunciare per esteso Elia Maria Gonzalez-Alvarez y Lopez-Chiceri c’era di che farsi venire il mal di testa. Tagliar corto, andare al punto, faceva parte della sua natura. Su di essa Lilì costruì il suo tennis, il suo modo di essere donna, infine la sua vita. Dritta alla meta, sempre. Qualunque essa fosse. La rete di un campo in erba, qualche convenzione da abbattere, una polemica da sostenere, tanto più se dalla parte di un femminismo che negli anni Venti, sconosciuto persino alle avanguardie più progressiste della borghesia finanziaria, appariva misterioso, sconsiderato e dunque deprecabile. Lei, Lilì, fu la prima femminista dello sport, e sì, anche la più deprecabile, non fosse stato per quelle chiome brune che si diceva cambiassero colore, incupendosi, quando le furie la agitavano, e quelle gambe lunghissime, capaci di turbare i sonni di un pubblico maschile composto unicamente da spasimanti, pronti per un suo sorriso – lo scrisse, in quegli anni, Maria Campo Alange, una delle rarissime donne ammesse alla professione giornalistica – ad accettare qualsiasi compromesso culturale e politico con la militanza femminile. Un pubblico di “suffragetti” schierati dalla parte dell’unica suffragetta che avrebbero istintivamente eletto al parlamento. “La Senorita”, in Inghilterra la chiamavano così. Quando sbarcava a Dover e il riflesso delle bianche scogliere le si adagiava sui capelli, si scatenava il frenetico e un po’ surreale corteggiamento dei fans. “Disposti a tutto”, scrive ancora su ABC la Campo Alange, che poi divenne sua amica e insegnante di giornalismo, «si accalcavano per ottenere un suo autografo, attendevano ore per vederla lasciare un teatro, o un ristorante» […] «I giornali del Regno Unito erano conquistati dai suoi modi sicuri, talvolta duri e quasi maschili», continua la sua biografa. Lilì dominava la scena. Giovane, spregiudicata, affascinante, in cambio di quelle maniere sin troppo tranchant, dispiegava sorrisi in grado di trascinare in un paradiso di seduzione anche gli animi di scorza più dura. E il seguito potete immaginarlo… La mantide tennista avrebbe poi saputo come trasformarli in tremolanti gelatine. Era nata a Roma il 9 maggio del 1905, in una delle camere dell’Hotel Flora, via Veneto […] Lilì sarebbe potuta nascere ovunque, ma Roma si sposava bene al suo fascino mediterraneo, e lei ci teneva. La sua formazione, come i suoi modi di fare, la rapidità con cui prendeva decisioni, o attizzava la polemica, non furono però quelli di una città già allora ingombrante e un po’ indolente. Ricordavano più della sua vita fra un treno e l’altro, con il continuo cambiare dei punti di vista, lo sferragliare agitato delle emozioni, l’approdo a certezze che non erano mai definitive, ma di passaggio. Divenne sportiva praticante in Svizzera, dove la madre, cagionevole di salute, decise di fermarsi, alfine scendendo dal treno. Lilì vinse a Saint Moritz il primo trofeo, ma nel pattinaggio su ghiaccio. Aveva undici anni. A tredici cominciò a giocare a tennis, ed era già un’ottima golfista. Diciassettenne vinse un oro internazionale ancora nel pattinaggio ed entrò nella squadra spagnola di sci. A diciannove anni conquistò il Gran Premio della Catalogna, guidatrice spericolata per le strade sterrate di allora. Dai venti in su si dedicò quasi solo al tennis. Quasi… Giusto un po’ di biliardo, nel quale eccelleva, e di equitazione, e di scherma, in modo da aggiungere altri ori alla sua stanza dei trofei. Partecipò da tennista ai Giochi Olimpici del 1924 a Parigi (giunse nei quarti), nell’anno in cui vinse i tornei di Cannes, Aix les Bains, Touquet e Monte-Carlo. Gli eventi su la Cote d’Azur furono suoi a più riprese, Monte-Carlo addirittura cinque volte. A Parigi fu finalista nel 1927 e vinse il doppio nel 1929. Ma gli anni migliori furono quelli del suo assalto a Wimbledon, delle tre finali consecutive, dal 1926 al 1928, quando venne fermata solo da tenniste con quattro quarti di nobiltà sportiva: la McKane Godfree, poi Helen Wills, infine Daphne Akhurst. Lei capovolse quei risultati presentandosi in campo con un abitino firmato da Elsa Schiaparelli, una tutina bianca “da truppa” lo definirono. Fu un trionfo, ed ebbe le “prime” di tutti i quotidiani. Nel 1930, a Milano, si iscrisse alla prima edizione degli Internazionali d’Italia, li vinse in finale contro Lucia Valerio, al fianco della quale si prese poi anche il doppio. Lucia, la nostra prima vedette tennistica, fu forse la sua migliore amica e in un suo lontano ricordo descrisse Lilì con queste frasi: «Era azzardata in tutto ciò che faceva, e prima di tutto nel tennis, nel quale cercava sempre la soluzione più difficile. Il suo premio erano gli applausi. Il problema è che faceva diventare azzardate anche noi, che per carattere ce ne saremmo ben guardate». Oggi le parole sono altre, per descrivere una donna degli anni Venti come Lilì Alvarez… Protofemminista, come lo furono tutte le suffragette politicamente impegnate. Protagonista di uno star system direttamente proporzionale ai mezzi di comunicazione di cento anni fa, dunque essenzialmente basato sul passaparola, sulle emozioni veicolate dai racconti. Eppure suona strano che la Storia di uno sport come il tennis, che tutto ha descritto, circostanziato, enumerato, arrivando persino a contare quante ore di pioggia vi siano state in ogni giorno di contesa, da che Wimbledon è Wimbledon, abbia tracciato un rigo su una donna come Lilì Alvarez. Sottaciuta, quasi dimenticata, un nome fra i tanti. Curioso, perché fu lei ad aprire la strada a una professionalità sportiva militante, lei a scrivere per prima di un dilettantismo antidemocratico, un “falso y aniquilosado mito” utile solo a mantenere lo sport nelle mani delle classi che se lo potevano permettere, lei a descrivere la via sportiva come la più breve, e ricca, e piena, per raggiungere il proprio “io interiore”. Scrisse nel suo libro più bello, Plenitud, del 1946: «Un atleta è caratterizzato dalla sua agilità, rapidità, flessibilità, forza, abilità e dall’equilibrio. Attraverso queste qualità, egli sperimenta una perfezione espansiva e spaziale sinonimo di bellezza interiore». Difficile sottrarsi alla convinzione che le grandi rivoluzionarie del nostro sport, la Billie Jean King che strappò il tennis femminile alla giurisdizione di Jack Kramer per dare vita alla Wta che oggi fa da guida al Tour, e la stessa Martina Navratilova che sostenne la diversità e il femminismo attraverso l’esaltazione di una forma fisica che non disdegnasse paragoni maschili, fossero se non le sue dirette discendenti, quanto meno le sue allieve. Non fu lei la prima a diventare professionista. Quando il promoter Charles C. Pyle si presentò nel suo albergo con un assegno in bianco, Lilì Alvarez declinò l’offerta e lasciò che al suo posto partisse per le Americhe, da sola, Suzanne Lenglen. Spiegò che la sua rinuncia era dovuta alla sensazione d’inutilità che le veniva dal progetto. «Tante partite, l’una uguale all’altra, sempre con la stessa avversaria. Non mi sembrava un granché. E per che cosa poi? Soldi?». Suzanne ne ricevette 75 mila, tutti assieme. Cifra che i pochi professionisti di allora, settore maschile, considerarono un affronto alla loro virilità tennistica. Trentotto incontri l’uno via l’altro con Mary K. Brown, senza subire una sola sconfitta. Con il suo gioco da autentica étoile del tennis, Lenglen si prese i match-clou di tutte le serate tennistiche in giro per gli States, organizzate nelle piazze, nei saloni delle grandi industrie e in altri posti impensabili. Fu lei la prima a permettersi un’espressione poi divenuta centrale nelle rivendicazioni delle sue nipotine più moderne: la parità dei montepremi. In realtà erano i tennisti del suo seguito a battere cassa, e lei a guardarli dall’alto. Ma fu un caso isolato il suo, anzi, unico. E Suzanne, non per niente, era chiamata la Divina. Lilì, che quella tournée avrebbe dovuto condividerla con Suzanne, preferiva altro. Lo scrisse in un articolo su La Vanguardia… «Mai ricevuto un dollaro da sportiva, non ne avrei avuto bisogno. La fama acquisita con la racchetta mi permetteva di vivere da super milionaria». Altre donne di sport, negli stessi anni, ebbero in comune con Lilì una così alta considerazione del ruolo della donna. Ma la voce della Alvarez, anche grazie ai suoi articoli, fu la più ascoltata. Il tennis era già allora, e continua a essere, lo sport più borghese fra tutti […] Nel 1926 la classifica del tennis femminile vide Lilì al terzo posto, seconda invece nei due anni successivi. Già nei giorni di Wimbledon, il quotidiano argentino La Nacion si era fatto avanti per chiederle dei reportage. Era l’inizio di una nuova professione, dunque di un nuovo amore. Nel 1931 la chiamò il Daily Mail, per una serie di articoli sulla Guerra Civile spagnola e sul nuovo ruolo delle donne. Nel 1940 fu assunta da La Vanguardia e tornò a scrivere di sport anche su Arriba e sulla rivista Blanco y Negro che la inviò in Australia per la Coppa Davis. Nel 1934 sposò un nobile di Francia, il conte di Valdene, ma il matrimonio si spense dopo l’aborto spontaneo che Lilì subì a gravidanza già avanzata. L’accusa fu quella di non aver rinunciato alla sua vita scapestrata. Lilì rispose con gli avvocati. Ma a quella vita non rinunciò mai. Giocò a tennis fino a tarda età, fece equitazione, non rinunciò alla guida né al nuoto. Scomparve nel 1998 a Madrid, Aveva 93 anni […]

Djokovic: “Stavo per smettere la nascita di mio figlio mi ha dato equilibrio” (Emanuela Audisio, Repubblica)

Sempre magro, occhi spiritati, ma più sereni, in smoking con il panciotto, Novak Djokovic si confessa con il premio Laureus in mano […] «Devo tutto a Jelena, mia moglie. È lei che mi ha tenuto insieme quando stavo perdendo i pezzi. C’è stato un momento in cui non riuscivo più a trovare un motivo per giocare a tennis, non mi divertivo più, e dubitavo valesse la pena di sopportare fatica e dolore. Volevo smettere, dire basta, ero impaziente sia a casa che in campo. Mi cercavo, e non mi trovavo, ero nervoso, il mio gioco non era granché, e quando stai nel pozzo, più ti affanni e più cadi giù. Maledivo tutti, me stesso, ogni cosa, era sempre colpa del mondo, la sconfitta con Cecchinato l’anno scorso nei quarti al Roland Garros ha fatto il resto. Jelena è stata la mia cura, mi ha incoraggiato a non tormentarmi, mi ha detto che dovevo solo aspettare, e che la famiglia non l’avrei mai persa, lei era lì e ci sarebbe sempre stata. Bisognava solo avere pazienza, non distruggere quello che avevamo costruito». A 31 anni ancora non l’aveva capito? «No. Non sapevo ancora che nella vita non puoi controllare tutto. Ero più un tipo da palla dentro o fuori. Vedevo le mete, quelle avevano valore, non il viaggio che fai per raggiungerle, non quello che ti capita mentre stai combattendo la tua sfida. Certo che voglio vincere più Slam, ma un conto è avere l’ossessione di raggiungere un orizzonte, e un altro è cercare di stare mentalmente bene, di avere equilibrio. In parole semplici: è quello che faccio con serenità oggi che mi farà giocare bene domani». E cosa fa oggi? «Il papà. Tutti possono essere padri, ma fare il genitore è una responsabilità diversa. Il mondo si allarga, diventa molto più di un rettangolo, ma non ci arrivi subito. Non vado più a letto tardi, anzi non arrivo neanche più alla mezzanotte. E in campo sto attento ai miei atteggiamenti, penso: e se mio figlio Stefan che ha quattro anni mi vedesse così sconvolto? Prima, credevo di avere tutti i diritti, ora rifletto sui miei doveri. L’altro giorno giocavo a palla in strada con mio figlio e qualcuno mi ha chiesto di fare una fotografia: Stefan, dubbioso, mi ha chiesto, perché quel tipo ti conosce? Be’, sai, gli ho risposto, sono spesso in tv per via del tennis. Io non l’ho detto a mio figlio che sono un campione, né desidero che lui mi riconosca come tale». Però Stefan lo avrà capito. «Ha capito che parto spesso. E infatti mi chiede: perché vai lontano da me? Prima questo pensiero mi era insopportabile. In campo mi mancava la famiglia, a casa soffrivo di non stare in campo. Quando giochi male i dubbi e il disagio si moltiplicano, tutto ti appare insopportabile, ora che sono in pace penso che ogni stagione porta sfide nuove. Dipende da te accettarle, cogliere l’occasione di migliorarti, oppure farti sconfiggere ancor prima di partire. Si chiama nevrosi ed è una talpa che lavora dentro» […] Padre nostro Djokovic, farà altri miracoli? «Credo nella trascendenza. Quando ti spingi oltre i tuoi limiti, e nello sport capita, è come se il tuo spirito uscisse fuori di te e tu fossi guidato da un pilota automatico. Mi è capitato contro Nadal nella finale dell’Australian Open 2012 che è durata quasi sei ore, a quel punto per non sentire il dolore fisico ti estranei. È come un’esperienza extracorporea, sei lì, ma non ci sei, c’è una forza più grande di te che ti porta avanti. Io ho la fede, che mi ricorda quanto sono benedetto. Ho preso atto della mia vulnerabilità, ma anche della mia forza. E non vedo altri posti dove posso evolvere se non in un campo da tennis. Quello che imparo dalla vita, io me lo gioco lì».

Becker: “Essere padri e avere stabilità attorno: questo manca ai giovani” (e.a., Repubblica)

Boris Becker, 51 anni, ambassador della Fondazione Laureus, un’idea sulla Next Gen ce l’ha. E anche sul fatto che nel tennis del Grande Slam tra vecchi e giovani siano questi ultimi a soccombere. Allora Boris, deluso dai teenager del tennis? «No. Non si diventa numeri uno in poco tempo, nemmeno se si è una stella nascente. Bisogna prima salire, poi consolidarsi. Ma un tipo come il tedesco Sasha Zverev, 21 anni, non è mica una delusione visto che per la terza stagione consecutiva è nei top 5». Ma il trio Djokovic-Federer-NadaI non lascia scampo. «Vuole il loro segreto a parte che sanno giocare bene, anzi meglio degli altri? I primi due sono padri, il terzo viaggia con la sua famiglia. Cosa significa? Attorno hanno calma, stabilità, tranquillità. Non fanno tardi la sera, non vanno a cena fuori, mangiano bene, non si considerano in trasferta, ovunque siano quello è il loro mondo perché hanno la casa dietro, e risparmiano energie nervose». […] «I millennial non parlano, chattano, la loro attenzione è per i social, non per l’esperienza che stanno affrontando in uno Slam. I vecchi hanno già vissuto quella situazione e hanno chi si può prendere cura di loro. Mentre Roger può passare dal campo al gioco rilassante con le sue bimbe, i giovani si consumano nel confronto e si distraggono. Scaricano le loro pile, invece di ricaricarle. Nel loro clan non hanno gente attenta ai particolari, esperta, che li sa orientare. Il tennis di oggi è molto performante, richiede molte energie, se hai talento ma sei acerbo non puoi non soccombere. Vedremo se con Lendl a fianco di Zverev qualcosa cambierà». Ma lei ha vinto Wimbledon a 17 anni. «Appunto, nel 1985. Non stavo sui social. Non ero sempre in contatto con un mondo virtuale, la mia giornata non era allertata da messaggini. Dovevo rispondere sul campo, non sul web. E in più c’era Wilander che aveva 21 anni, Noah 25, McEnroe 26. Se al greco Tsitsipas, 21 anni, capita di eliminare Federer e di giocare il suo primo quarto di Slam contro Nadal, poi viene bastonato dallo spagnolo. I tre tenori cantano più forte, ne puoi zittire uno, ma gli altri lo vendicheranno». Lei è per modernizzare il tennis? «Sì perché il mondo progredisce e bisogna accogliere tutte le novità che portano qualità. Si parla di introdurre il tie-break nel quinto set degli Slam. Bene. Niente ripetizione del servizio se la pallina tocca il nastro? Ci sto. Così come sono favorevole alla regola dei 25 secondi tra un punto e l’altro. Mi oppongo invece all’accorciamento dei set, perché così cambia tutto» […]

Lo scambio proposto dalla Lega. Fondi statali per i Giochi 2026 e via libera a Torino per le ATP (Andrea Rossi, Stampa Torino)

Dice il governatore veneto Luca Zaia – uno così influente da aver gettato Cortina nella corsa alle Olimpiadi 2026 come cenerentola facendola diventare un pilastro della candidatura italiana – che bisognerebbe definire un «pacchetto» unico, «basato su due eventi planetari come l’Atp e le Olimpiadi invernali» e successivamente concordare le modalità per trovare i finanziamenti. Ora i termini dello scontro sono chiari, nitidi. E confermano che sulle Atp Finals, il torneo tra gli otto migliori tennisti al mondo che Torino si è candidata a ospitare tra il 2021 e il 2025, è in atto un duello tra Lega e Movimento 5 Stelle, in cui è in gioco il finanziamento pubblico ai grandi eventi sportivi. E dove la domanda è semplice: perché lo Stato dovrebbe finanziare le Atp Finals se non intende contribuire a un evento ben più importante come le Olimpiadi? Ieri mattina a Roma si è riunito il tavolo tecnico sui Giochi 2026 e le posizioni sono emerse come mai prima d’ora. Si è anche capito come mai le garanzie pubbliche per le Atp – i 78 milioni che il governo, tramite il sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti aveva garantito – adesso siano in discussione. Il motivo è semplice: poiché il Movimento 5 Stelle ha imposto che i Giochi 2026, se Milano e Cortina riusciranno a spuntarla, si dovranno organizzare senza un euro dello Stato, ma totalmente a carico di Veneto e Lombardia, la Lega – che amministra le due Regioni – si è messa di traverso sul fatto che lo Stato garantisca per le Atp. Un atteggiamento che ha una sua coerenza, se non fosse che Torino rischia di rimetterci una seconda volta: il no dei Cinque Stelle l’ha privata della candidatura olimpica; ora le resistenze della Lega stanno facendo naufragare l’obiettivo tennistico. La proposta di Zaia, una mossa molto astuta, si incunea nelle contraddizioni del Movimento. Il governatore veneto approfitta dell’impasse sulle Atp per «fare un ragionamento generale sui grandi eventi sportivi». Per essere più espliciti: il governo finanzi entrambe le manifestazioni e non se ne parla più […] Per ora i grillini rifiutano sdegnati: «È totalmente inopportuno», commenta il sottosegretario Simone Valente. «Ogni evento va considerato singolarmente, valutando costi e benefici senza mercanteggiare». Traduzione non autorizzata: le Olimpiadi sono uno spreco e lo Stato non deve pagarle, le Atp Finals sono invece virtuose e vanno finanziate per intero. Su queste basi Torino rischia davvero di fare poca strada […]F

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