‘Capre sulla neve’: sport in cui ci si azzuffa meno sul GOAT. Sci di fondo - Pagina 2 di 2

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‘Capre sulla neve’: sport in cui ci si azzuffa meno sul GOAT. Sci di fondo

Nel tennis si litiga, ma ci sono sport in cui sembra più facile identificare il più forte di sempre. La quarta puntata è in realtà una poltrona per due fondisti

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Episodio 4: una poltrona per due

Sci di fondo: Johannes Høsflot Klæbo – Chance di Goatismo: 60%
Sci di fondo: Alexander Bolshunov – Chance di Goatismo: 30%

Se volete appassionarvi a uno sport combattuto, in grado di tenervi sulla punta della sedia dall’inizio alla fine, diffuso e amato in tutto il globo, avete un’ampissima scelta. Ma non tentate con lo sci di fondo. La debacle degli sci stretti nell’ultimo decennio è stata impressionante, ed è oggi uno sport in crisi come pochi. Dominato da un unico paese, la Norvegia, con un’unica avversaria che prova a tenere botta (Russia al maschile, Svezia al femminile). Televisioni sempre meno interessate, scandali doping, carenza di campioni memorabili (l’ultimo, Petter Northug, ritiratosi nel 2017), gare poco combattute. E soprattutto un cambio radicale del format, tantoché oggi lo Sci di Fondo, non è più uno sport di fondo. Non principalmente per lo meno.

Verso la fine degli anni ‘90 la FIS, che ormai conoscete, ha deciso di variare un po’ il calendario inserendo diverse gare Sprint. Competizioni che non si svolgono più sulle tipiche distanze di 15, 30 o 50km a cronometro, ma su anelli di 1400 metri. Gare da due minuti e mezzo con qualificazioni, quarti, semifinali e finali in cui si parte insieme, sei atleti per volta. Per motivi televisivi e per la possibilità di essere portate anche nei centri cittadini, le sprint sono diventate sempre più comuni mentre sono via via scomparse le gare sulla distanza. Basti pensare che nella stagione 2018-19 in Coppa del Mondo si è svolta una 30km, una 50km (entrambe con partenza di massa) e ben 12 Sprint. La figura dello Sprinter si è tramutata via via da specialista sempre più in uomo di punta. Immaginate un Giro d’Italia con due sole tappe di montagna vera (le 30 e 50km), qualche frazione mossa e incerta (le 15km), e almeno una dozzina di tappe per velocisti. Con una classifica a punti e non a tempo.

Questo grossomodo è lo sci di fondo oggi. E il più grande interprete di questa concezione moderna si chiama Johannes Klæbo: norvegese, guardacaso. Imbattibile nelle sprint, a tecnica classica o libera che si voglia, e capace di ben difendersi sulle prove da 15km, soprattutto quelle con partenza di massa che ha anche occasionalmente vinto. La sua recente nemesi, come Ivan Drago, viene dalla Russia. Si chiama Alexander Bolshunov ed è praticamente il negativo di Klæbo: fortissimo sulle prove di fondo, capace di difendersi nelle sprint, con una predilezione nella tecnica classica. Unico non norvegese capace quest’anno di arrivare fra i primi cinque nella classifica finale della coppa del mondo. Per l’esattezza, primo.

La vittoria di Bolshunov è giunta come un fulmine a ciel sereno a coronare la definitiva esplosione di un talento che si credeva potesse fare solo da sparring partner a Klæbo. E alle cornate che questi due prevedono di darsi negli anni a venire sono legate le speranze di tutta la FIS di tornare a rendere accattivante una disciplina che ha perso affinità presso il pubblico una volta sostanzioso.

Facendo l’esempio di casa nostra, chi non ricorda le gloriose staffette trionfanti, proprio davanti ai norvegesi, a Lillehammer nel 1994 e poi a Torino nel 2006? Oggi in casa Italia, sia al maschile che al femminile, il movimento del fondo è quasi nullo. Il “quasi” è dovuto a Federico Pellegrino, che nelle sprint trova spesso il podio e, quando Klæbo non c’è, anche la vittoria. Come noi Germania, Svezia, Canada, Francia. Nazioni una volta gloriose oggi finite nel dimenticatoio. La Norvegia al maschile ha ottenuto il 60% dei podi e il 70% delle vittorie. Nel femminile ancora peggio, con una dominatrice assoluta, Therese Johaug. Una che per divertimento in estate ha corso i diecimila ai campionati nazionali di atletica, e li ha vinti.

Ma tornando ai nostri due pupilli, se il movimento generale del Fondo è in crisi, a livello di apici invece promette bene. Sia Klæbo che Bolshunov hanno grandi chance di diventare, a fine carriera, il più grande di tutti i tempi. Per riuscirci però, più che contro i grandi del passato, devono temersi a vicenda. Il vecchio si sedette di fianco al fuoco, rimosse il calumet dalla bocca e in uno sbuffo di fumo disse: “Giovane FIS, dentro di te ci sono due lupi. Uno veloce e potente come nessuno mai. L’altro resistente e resiliente come raramente lo è un giovane. Questi due lupi lottano uno contro l’altro affamati”. “E quale vincerà?”. “Quello cui darai da mangiare”.

Alexander Bolshunov

Ma facciamo un salto indietro. Febbraio 2018. Johannes Høsflot Klæbo ha 21 anni ed è appena esploso in Coppa del Mondo, vincendo 6 delle prime sette tappe ad un’età in cui solitamente si gareggia in una classifica a parte, quella degli Under 23. Stravolge tutti i piani, cauti, fatti dal team Norge per il suo sviluppo e si presenta ai giochi Olimpici di Pyeongchang da star indiscussa. Il suo esordio nello Skiathlon, ovvero 30 chilometri con cambio di stile a metà, è deludente; si piazza decimo. Ma quando arriva il suo terreno, lo Sprint, fa il vuoto. Nella finale a sei impone ritmi assurdi fin dall’inizio, e sulla salita che verrà ribattezzata Klæbobakken, la montagna di Klæbo, saluta tutti. Dove gli altri scivolano, lui corre.

Falcate come se non avesse gli sci ai piedi. È la nascita del “passo Klæbo”, che in tanti proveranno ad imitare negli anni successivi senza avere l’esplosività muscolare per riuscirvi. Il resto del mondo è manciate di metri dietro. Al fotofinish l’azzurro Pellegrino brucia un altro giovane, coetaneo del norvegese, tale Bolshunov. Talentuoso ma ancora un po’ acerbo. Pochi giorni dopo Klæbo si ripete stavolta nella sprint a coppie con l’esperto compagno Sundby. Infine, amministra con scaltrezza l’ultima frazione della staffetta 4x10km che gli regala il terzo oro di un’Olimpiade memorabile. È il più giovane oro Olimpico nella storia del fondo, e un mese dopo diventa anche il più giovane vincitore della Coppa del Mondo.

Nel 2019 si presenta da favorito in Coppa e la domina. Per la prima volta si cimenta nel Tour de Ski, un circuito interno composto da 7 tappe. L’ultima è una scalata, nove chilometri di cui quasi tre con pendenze del 20% e per questo giudicate non adatte alla struttura da sprinter di Johannes. E in effetti sul Cermis arranca come Eros Poli sul Mont Ventoux, ma difende il vantaggio accumulato nelle tappe precedenti e si porta a casa il Tour alla prima partecipazione. Il suo idolo Northug non ebbe mai la gioia di tagliare quel traguardo per primo. Vinse un Tour de Ski solo a posteriori per squalifica altrui. Ai mondiali di Seefeld, Klæbo vince 3 ori, lo stesso identico filotto del capolavoro coreano. Conquista anche, ovviamente, la Coppa del Mondo, con 13 vittorie in stagione contro le 11 di quella precedente. Ma secondo in graduatoria, e non troppo distante, c’è Bolshunov in crescita.

A soli 22 anni e mezzo, ancora ufficialmente uno Junior, Johannes Klæbo da Byåsen, sobborgo di Trondheim, inizia a mettere la freccia su sua maestà Petter Northug. I due sono amici ma diversi. Il vecchio Petter è eccentrico, a volte irrispettoso e irridente. In Svezia è conosciuto come l’Ibrahimovic del Fondo, in Norvegia è Ibrahimovic a essere chiamato “Il Northug del calcio”. Klæbo è invece il tipico bravo ragazzo. Simpatico, autoironico, ha un vlog su youtube dove dimostra di saper fare il cretino con disinvoltura e acume (qui è alla ricerca di un’esultanza che lo contraddistingua, mentre qui racconta come nacque il Passo Klæbo. La conoscenza del norvegese non è necessaria).

Con una carriera ancora agli albori ha già pareggiato Northug per Coppe del Mondo generali, due, e Tour de Ski, uno. Mentre lo ha addirittura sopravanzato per gli allori Olimpici, Re Petter si era fermato a due. L’unica grande differenza sono i Mondiali, con i quali Northug aveva un feeling speciale, divenendo iridato ben 13 volte. Klæbo invece è a quota tre. I due sono praticamente pari anche per le vittorie in Coppa del Mondo, 38-37 per Northug, che sarà verosimilmente sorpassato nella prima tappa della prossima stagione. Più su, ma non di molto, c’è solo il più grande di tutti i tempi. Bjørn Dæhlie, che di vittorie ne colse 46. Presumibile che il giovane Johannes possa mettere la freccia anche su di lui nei dintorni del prossimo capodanno, per poi dedicarsi a costruire un margine incolmabile.

La sua rincorsa alla palma di più grande passa però dagli allori Olimpici. Bjørn Dæhlie ne ha colti ben otto, più 9 mondiali e sei Coppe del Mondo generali, in tempi in cui il fondo era diverso. Che di questo passo Klæbo ottenga numeri simili, se non superiori è quasi certo. O meglio, lo era fino a metà dicembre del 2019. Lì è avvenuta l’esplosione di Bolshunov, con una vittoria al Tour de Ski sfruttando al meglio la scalata conclusiva. E mentre Klæbo saltava varie tappe per centellinare gli impegni in vista del finale di stagione, il russo a suon di vittorie nelle gare sulla distanza operava il sorpasso in coppa.

A gennaio, quando tutto è pronto per il rush finale Klæbo, che è comunque ancora un ventenne e qualche gogliardata la fa, sfidando alcuni amici al punchball manca il bersaglio e tira un pugno a tutta forza sul perno in metallo che sostiene la struttura. Dito rotto e altre tre settimane di stop. Bolshunov costruisce un vantaggio incolmabile, e le ultime tappe, sprint favorevoli sulla carta al norvegese, sono cancellate per il virus. Bolshunov si prende Coppa Generale e della specialità Distance. Klæbo si consola con quella Sprint, la quarta (record assoluto, tanto per cambiare) e con l’imbattibilità: ha vinto le otto gare brevi cui ha preso parte, portando la striscia consecutiva a 16.

A partire da novembre, virus permettendo, si preannuncia una battaglia epica. Bolshunov è maturato più tardi, un po’ come Djokovic nei confronti di Nadal, ma ora tutto è apparecchiato per una sfida intrigante. Il russo è indietro nel computo dei trionfi: una coppa contro due, 17 vittorie a 37, e neanche un oro nei grandi appuntamenti. Ma nel finale della scorsa stagione è parso una macchina da guerra pronta a vincere ogni gara sulla distanza, così come il suo avversario trionfa nelle Sprint. Chi scrive dà il 60% di chance a Klæbo di diventare il più grande di sempre per due ragioni: la prima è il fieno che ha già messo in cascina. Il suo palmares, se per assurdo si ritirasse oggi, è già da mito di questo sport. La seconda è che con il passare degli anni dovrebbe divenire più resistente e iniziare a cogliere vittorie pesanti anche nelle gare sulla distanza, come avvenne per Northug.

Johannes Høsflot Klæbo

Bolshunov parte ad handicap, ma potrebbe sfruttare la tendenza della FIS, già intravista quest’anno, a reintrodurre qualche gara in più sui 30 chilometri e più Tour a tappe che favoriscono i fondisti. Ha, a mio parere, la metà delle chance, il 30%. Il restante 10%, è che nulla cambi. Entrambi si normalizzino e alla fine il buon vecchio Dæhlie resti, coi suoi otto ori olimpici e le sue sei coppe generali, ancora Re. Lo rimarrà comunque di un Fondo che fu epico e amato anche fuori da Scandinavia e Siberia. Ma ora i tempi sono cambiati. Ora è il tempo del Passo Klæbo.

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