Sono i risultati di un lavoro enorme quelli pubblicati da Alice Tejkalova e Ladislav Krištoufek in “Anything Can Happen in Women’s Tennis, or Can It? An Empirical Investigation Into Bias in Sports Journalism”, uno studio che si propone di verificare se davvero può accadere qualsiasi cosa nel tennis femminile oppure se è solo un preconcetto del giornalismo sportivo, contestando le giustificazioni fondate su “senso comune ed esperienza” con dati reali.
Che si tratti di un’indagine senza precedenti è testimoniato dal numero di match presi in considerazione, quasi 225.000 a partire dalla fine degli anni ’60, analizzati attraverso la regressione logistica (un modello statistico in cui si analizza il valore assunto da una variabile ‘dicotomica’, ovvero una variabile che può assumere due soli valori); i risultati, piuttosto sconvolgenti secondo gli autori, smentiscono stereotipi e pregiudizi, mostrando anzi una realtà opposta – la maggior imprevedibilità degli incontri maschili.
L’OGGETTO DELLA VERIFICA – Per prima cosa, Tejkalova e Krištoufek si propongono di dimostrare che il preconcetto secondo cui tutto può succedere nella WTA inteso in senso spregiativo sia ben radicato ed esteso nell’ambiente e non frutto di occasionali esternazioni. Per farlo, citano diversi esempi estratti da un’ampia letteratura in materia che evidenzia come il tennis femminile sia non solo sotto-rappresentato, ma descritto mettendo in primo piano dettagli come l’abbigliamento e l’aspetto fisico a discapito delle abilità tecniche e atletiche, in una sorta di sessualizzazione dello sport.
È opportuno precisare che alcuni autori concentrano i loro studi sugli articoli apparsi nei tabloid: “The other side of the net” di Roger Domeneghetti, per citarne uno, analizza quanto pubblicato in occasione di Wimbledon 2016 dal Daily Mail e The Sun, probabilmente non i quotidiani con la miglior reputazione in termini di qualità. Ma ci sono anche esempi illustri. L’articolo apparso sul sito della ESPN nel 2010 a firma della giornalista Kamakshi Tandon adduceva, come cause dell’imprevedibilità della WTA, la mancanza di solidità (gioco con poco margine di errore che poteva trasformare una giornata non perfettamente centrata in una tragedia totale) e l’incapacità di gestire lo stress da parte di chi avrebbe dovuto approfittare dei temporanei ritiri di Henin e Clijsters e degli alti e bassi di Serena. O la stessa Karolina Pliskova quando disse di conoscere molte persone che preferiscono il tennis femminile perché “ci possono essere più sorprese” (proprio lei, ritratta in copertina dopo aver completato una clamorosa rimonta ai danni di Serena Williams all’Australian Open).
Negli ultimi anni è stata anche rilevata (e criticata) una nuova forma di rappresentazione del tennis femminile: resoconti così neutri da sfociare nella noia offerti da giornalisti evidentemente in preda al “timore di essere accusati di sessismo”. Resta il fatto che tutt’oggi, in una generosa porzione dei media e del pubblico, domina l’idea della maggior fragilità mentale delle tenniste e della loro mancanza di fiducia a fronte della stabilità e della forza dei colleghi maschi, ‘die-hard’ che neanche Bruce Willis.
IL METODO E I RISULTATI – Tornando alla ricerca, per verificare se davvero anything can happen nel tennis femminile, Tejkalova e Krištoufek utilizzano una regressione logistica la cui variabile principale è la vittoria del match da parte di chi ha un ranking più alto. Senza considerare altri aspetti, la probabilità che sia il tennista meglio classificato a imporsi è del 66% per gli uomini e del 67% per le donne – un 67% generale con una deviazione standard del 47%.
Ecco allora la necessità di altre variabili controllate che potrebbero avere un peso nella probabilità di vincere l’incontro, come il livello del torneo (i migliori dovrebbero essere al massimo negli Slam), il turno (la possibilità di un upset nei primi giorni quando il top player è ancora “freddo”), la differenza di età, la superficie e l’eventuale status di top 5, top 10 o top 100. Variabili, queste, che si sono rivelate appunto rilevanti: più vecchio è il giocatore rispetto all’avversario, minore è la sua possibilità di vittoria; e gli eventi principali godono davvero della maggior attenzione dei più forti.
Separando i risultati per maschi e femmine, i dati smentiscono inequivocabilmente il “tutto può succedere” alla base dell’indagine; anzi, con un effetto del differenziale di classifica del 50% più alto per le donne, suggeriscono proprio il contrario, vale a dire la maggiore stabilità del tennis femminile. Non sembrano invece dipendere dal genere gli altri effetti considerati.
Inoltre, per superare la possibilità che i risultati siano influenzati da un campione che si estende fino a mezzo secolo fa, gli autori hanno condotto la stessa analisi su due sottocampioni, uno che parte dal 2000 e un altro che, dallo stesso anno, considera solo i tornei speciali (Slam, Olimpiadi). Il primo attribuisce più peso alla presenza dei Big 3 e di Serena Williams, oltre che collocarsi nel periodo in cui i commentatori contemporanei affondano i loro ricordi; il secondo, è utile per verificare se davvero le favorite “sciolgono” più frequentemente delle loro controparti maschili nei grandi eventi. In entrambi i casi, i risultati ricalcano quelli dell’intero campione, confermando la maggiore imprevedibilità dell’ATP rispetto alla WTA.
La conclusione degli autori è quindi l’assoluta mancanza di riscontri empirici rispetto a una narrazione grondante instabilità psicologica e inferiorità fisica. Essi stessi ammettono anche che le conclusioni della ricerca possono essere interpretate in modo differente, nel senso che un risultato sorprendente in campo maschile diventa sintomo di “maggior competitività” e “più equilibrio nella qualità”, laddove nel femminile viene ascritto a instabilità emotiva e debolezza fisica – in una parola, inferiorità. In definitiva, ci dicono, il punto di vista sessista trova terreno fertile a prescindere dall’evidenza dei numeri.
COSA NON DICE LA RICERCA. OPPURE SÌ? – Analizzare in che misura la probabilità di vittoria dipenda dalla migliore classifica e differenziare questa correlazione fra tennis femminile e maschile è indiscutibilmente un metodo fondato su dati oggettivi. E non ci sono dubbi che l’assunto “tutto può succedere nella WTA” – generalmente basato sulla fragilità nervosa – sia un pensiero che accomuna buona parte degli addetti ai lavori e degli appassionati. Quello che forse non convince del tutto è che l’imprevedibilità indagata (e smentita) si riferisca semplicemente all’esito finale dell’incontro perché, se ciò offre il vantaggio di essere facilmente misurabile, sembra in qualche modo riduttivo.
Prendiamo un esempio, diciamo così, classico. La finale di Wimbledon 1993 fra Steffi Graf e la compianta Jana Novotna. Per i parametri della ricerca, quel match rientra appieno nei numeri che confermano la solidità femminile: la favorita ha vinto e lo ha fatto in un evento importante. Ma è andata davvero così? Jana stava dilagando nel terzo set, fino al doppio fallo sul 4-1 40-30 che ha innescato i successivi disastri, per una partita persa da lei piuttosto che vinta da Steffi. La domanda, allora, è se non siano invece gli avvenimenti di questo genere a far nascere l’idea dell’imprevedibilità del tennis femminile e se davvero siano più frequenti rispetto ai match maschili.
Al di là però della non misurabilità di questi episodi e della loro intrinseca soggettività (quando un incontro è considerato “quasi vinto”? qual è il limite che separa una normale rimonta da un crollo emotivo?), non possiamo non pensare di essere caduti nella stessa trappola stigmatizzata dagli autori.
In primo luogo, l’aver subito pensato a una sfida femminile quando esistono esempi in campo maschile anche relativamente recenti (il virus ha avuto, tra i tanti effetti collaterali, quello di ‘appiattire’ la stagione 2019 a ridosso di quella in corso; tutto sembra accaduto ieri o quasi), come Medvedev incapace di chiudere il confronto con Nadal alle ATP Finals oppure i due choke di Felix Auger-Aliassime al momento di servire per il primo e per il secondo set contro Isner nella semifinale di Miami; in entrambi i casi, la rimonta del miglior classificato è stata innescata dalle “colpe” dell’avversario prima che dalle tanto decantate caratteristiche maschili. L’altro errore potrebbe essere quello di supportare la nostra narrazione con pochissimi episodi.
Insomma, vogliamo davvero mettere in campo una sfida tra cherry picking (traducibile letteralmente in ‘raccolta di ciliegie’, l’espressione indica l’abitudine di analizzare i soli fattori a sostegno della propria tesi) e i dati estratti da 224.890 match?