evidenza
US Open: Swiatek si prende anche New York. Jabeur inizia a lottare troppo tardi
Terzo Slam in carriera per la n.1 Iga Swiatek: domina il primo set e vince al tiebreak il secondo. La tunisina paga l’eccessiva pressione e perde la seconda finale major consecutiva

[1] I. Swiatek b. [5] O. Jabeur 6-2 7-6(5)

Partita migliore non poteva esserci, almeno sulla carta: numero 1 e numero 2 (da lunedì) in campo come, nel tennis femminile, non accadeva da tanto troppo tempo. Ons Jabeur e Iga Swiatek rappresentano quello che di meglio in ambito WTA si può desiderare per una finale. Figurarsi una finale Slam. A trionfare è la numero 1 al mondo che ha battuto per 6-2, 7-6(5), in 1 h e 51 minuti di gioco la tunisina e che grazie a questa vittoria porta a 3 il numero degli Slam vinti finora in carriera, dopo i due Roland Garros conquistati nel 2020 e nel 2022. La ragazza polacca succede nell’albo d’oro alla sorprendente inglese Emma Raducanu che nel 2022 però non ha saputo davvero confermare quel risultato. Il dubbio che questo possa ripetersi per Iga Swiatek proprio non c’è. Ben altra solidità la sua.
Il match ha sempre visto un sostanziale predominio della polacca che, grazie ad un servizio quasi impeccabile, e ad una solidità costruita colpo dopo colpo da fondocampo, ha tolto il ritmo e il tempo alla sua avversaria incapace di quelle variazioni di gioco che l’hanno portata fino alla finale. Solo nel secondo parziale, nonostante l’iniziale svantaggio di 3-0, la tunisina ha ritrovato le redini del proprio gioco, portando il match fino al tie break finale, dove però Swiatek ha piazzato nel finale l’allungo vincente. La Swiatek ha vinto 7 tornei quest’anno, come non aveva più fatto nessuna donna dopo Serena William. Ha vinto anche tutte le ultime 10 finali, dopo aver perso la primissima. E lo ha fatto cedendo in 10 finali un solo set. Chiude l’anno con quasi 10.000 punti, 9.560, con la Jabeur seconda con 4.496. La tunisina però paga il fatto di non aver potuto sommare i 1200 punti della finale di Wimbledon, quest’anno non assegnati. Però chi vincerà fra Alcaraz e Ruud raggiungerà meno di 7.000 punti e questo fa capire quanto ben diverso sia stato nel corso dell’anno il dominio della Swiatek, seppure concretizzatosi principalmente nella prima metà della stagione, quando sulla terra battuta ha lasciato le briciole alle avversarie. L’ultima tennista a vincere due Slam nello stesso anno era stata Angelique Kerber 6 anni fa. Naomi Osaka ha vinto 2 US Open ma in anni non consecutivi. E Serena Williams nel 2014 l’ultima a vincere l’US Open da n.1 del seeding.
Per Jabeur è la prima finale a New York e si vede. È infatti un parziale di 12 punti a 2 a favore di Swiatek a segnare i primi tre game del set che vedono la polacca aggressiva e concentrata, costruirsi bene il punto da fondocampo per poi chiudere entrando con i piedi in campo. Semplicemente ingiocabile la polacca, semplicemente negli spogliatoi la tunisina. In soli 10 minuti è già 3-0. Serve una scossa, serve una reazione che arriva nel quarto game vinto da Jabeur nonostante un doppio fallo, il secondo, sul 40-0 e un errore di dritto che sembravano poter rimettere in pista Iga. È la scossa del match che riesce finalmente a farle prendere in mano il pallino del gioco: due lungolinea, uno di dritto e uno di rovescio e un dritto incrociato danno alla tunisina due palle del controbreak. È la seconda ad essere quella buona con un vincente di dritto, anche questo in lungolinea, che rimette i binari del match sul servizio delle giocatrici e regala un match equilibrato agli spettatori dell’Arthur Ashe. Sul 3-2 è Jabeur a servire per un pareggio che sembrerebbe scritto, vista l’inerzia del match. Ma, come spesso accade, ci sono momenti all’interno dei match in cui, soprattutto se si è la numero 1 al mondo, si ha voglia e la forza di cambiare l’andamento della gara: il nuovo break della polacca testimonia come sia lei a voler tenere le redini del gioco, salendo nuovamente di livello e regalando un incrociato di rovescio e uno di dritto, che la rimettono avanti nel punteggio e nella gestione del match. È il primo vero momento di svolta dell’incontro : in questo contesto il 5-2 è logica conseguenza di un divario che è rappresentato dai valori espressi in campo. Valori sbilanciati totalmente in favore di Swiatek danno alla polacca, in pressione costante, un nuovo break, che questa volta vuol dire anche set. Un 6-2 che ha nel punteggio lo specchio di quanto visto sull’”Arthur Ashe”: Swiatek per la maggior parte del tempo ingiocabile, se non per i due game vinti dalla tunisina, chiude il set con il 90% di prime palle in campo, il 63% di punti con la prima di servizio e con il 54% di punti in risposta. Se ci si stesse domandando come mai, questi numeri tolgono ogni dubbio.
Non cambia lo spartito all’inizio del secondo set. A scappare avanti è subito la polacca che parte bene al servizio, confermando i numeri del primo set e scalfendo le residue resistenze della sua avversaria convertendo la seconda di due palle break giocando un passante di rovescio preambolo alla chiusura a rete. Rapidità, concretezza, lucidità delle scelte da una parte, smarrimento misto a rassegnazione dall’altra. Sono gli occhi a parlare più di ogni altra parte del corpo. Il 3-0 non può che essere il risultato logica conseguenza di una partita che non c’è. Ma dopo ben sette game vinti consecutivamente vinti da Swiatek, che sembrava potessero diventare otto sul 15-40 e due palle break, Jabeur decide di scuotersi, tornando ai suoi livelli e riconquistando, merito di due vincenti, un game che sembrava perso. E come nel primo set arriva la scossa nel quinto game conquistato dalla tunisina che prova, anche stavolta a rimettersi in partita grazie al break del 3-2. Quello che succede dopo è puro romanzo del tennis: la polacca sembra mettere il punto esclamativo nuovamente sul set, grazie ad un rovescio impeccabile, ad un dritto ficcante che trova angoli inesplorati del campo e ad un ritmo costante che toglie il fiato a Jabeur conquistando così un 4-2 che però, a differenza del primo set, non è lo scatto definitivo verso il traguardo ma solo un passaggio della gara. La tunisina infatti riesce a trovare ancora la forza per rimettere in piedi il set e il match trovando il break che vale il 4-3, che vale l’essere ancora in partita. Il 4 pari infatti è cosa fatta. Ora è un’altra partita. Una partita che vede nel nono game il momento che sarebbe potuto essere quello decisivo con Jabeur per ben tre volte nella possibilità del break che vorrebbe dire sorpasso e servire per il set, ma tre errori ne fanno svanire ogni velleità di sorpasso che invece riesce a Swiatek, brava a vincere un game che sembrava perso. Servendo per restare nel match il peso è tutto sulle spalle di Jabeur che, però dimostra di non essere più la giocatrice di qualche game prima; con una discreta sicurezza tiene il servizio che vale il 5-5. Nel momento decisivo della partita si vive di lampi in campo e di situazioni estemporanee in un verso o nell’altro, vincenti e gratuiti. La posta in palio è alta e il tie break in queste circostanze è il giudice supremo in grado di trovare una risposta definitiva all’andamento del set. Prima però si passa da un Championship point annullato da Jabeur grazie ad una prima formidabile nella sua efficacia. Ci si arriva con Jabeur in fiducia e Swiatek meno sicura dei suoi punti forti, uno su tutti la gestione delle palle da fondocampo. Ma il tie break, si sa, è un match nel match: 4-2 Swiatek, sembra finita. Poi sul 4-3 in favore della polacca due errori gravi della numero 1 al mondo, un dritto in rete ed un rovescio che atterra oltre la linea, portano il punteggio sul 5-4 per Jabeur. Insomma la ragazza tunisina è a due punti dal terzo set, ma in quel momento la Swiatek tira un dritto formidabile lungolinea e raggiunge il 5 pari e lì arrivano due errori consecutivi della Jabeur, il secondo sul secondo Championship point per Iga e questa volta sul suo servizio. Nello scambio, il dritto di Jabeur è lungo, Swiatek può sorridere lasciandosi cadere a terra e assaporando il gusto di una vittoria che dopo Parigi le porta il terzo titolo Slam, il primo sul cemento.
“Voglio ringraziare il pubblico, ce l’ho messa tutta ma Iga non mi ha reso la vita semplice e ha meritato la vittoria – ha detto Jabeur durante la premiazione – Non è che le voglia così bene in questo momento, ma è la sua giornata! Sono state due settimane fantastiche, essere di nuovo in finale dopo Wimbledon significa molto per me. Continuerò a lavorare duro per far sì che, prima o poi, possa arrivare a conquistare uno Slam. È uno dei miei obiettivi, cerco di essere sempre un’ispirazione anche davanti a così tante campionesse. Voglio ringraziare così tanto il mio team e il presidente della federazione. Vogliamo che più ragazzi vengano a giocare questo torneo. Credo e spero che questo sia l’inizio di tante belle cose.“
“Sinceramente non mi aspettavo molto arrivando a questo torneo – ha esordito la neo campionessa Swiatek – Non era facile dopo aver vinto il Roland Garros, è stato un torneo molto difficile. È un posto folle, c’è tanto baccano e ci sono tantissime tentazioni in città. Sono però orgogliosa di me stessa per essere riuscita a gestire al meglio tutte le emozioni. Voglio fare anche i complimenti a Ons, stai disputando una stagione meravigliosa. Abbiamo una bella rivalità, ci saranno tante altre sfide tra di noi e sono sicura che ne vincerai molte. Congratulazioni a te e al tuo team, tutto quello che fate è straordinario. Credo di dover tornare a casa per capire che cosa significhi vivere così tante emozioni e, in un certo qual modo, scrivere la storia del tennis polacco. Ringrazio ancora questo stadio. Specialmente in questo momento dobbiamo stare uniti, sono felice di poter forse unire qualcuno grazie a questo sport. So che in Polonia il tennis continua a crescere sempre di più, noi facciamo del nostro meglio per essere d’esempio. Per quanto riguarda il mio team… WOW! Sapete quanto sia stato difficile e mi dispiace che, a volte, io non sia facile da gestire. Voi siete più intelligenti di me, io sono spesso testarda e senza di voi non sarei così preparata.“
Una vittoria meritata, un successo che certifica la completezza si una giocatrice che è tornata quella della scorsa primavera, quella capace di vincere Indian Wells e Miami sempre sul cemento e sempre sul suolo americano. Suolo che le ha regalato un successo ancora più importante, forse quello che la sdogana definitivamente nel ruolo di dominatrice.
ATP
ATP Pechino: Alcaraz di lusso, per Musetti non c’è scampo
Gira a mille il gioco dello spagnolo, che lascia solo quattro giochi a Lorenzo: per lui ai quarti c’è Ruud

[1] C. Alcaraz b. L. Musetti 6-2 6-2


Seconda vittoria in tre incontri per Carlos Alcaraz contro Lorenzo Musetti. Lo spagnolo in versione deluxe non lascia scampo all’italiano, che pure era parso in crescita battendo Karen Khachanov al primo turno. Netto il risultato finale, 6-2 6-2, ma ci sono più meriti dello spagnolo che demeriti dell’italiano. Musetti può riflettere sicuramente sul rendimento della seconda palla di servizio, con la quale ha raccolto solo il 35% di punti, ma oggi non c’era molto da fare contro un Alcaraz che ha battuto Musetti sul suo stesso terreno, quello delle variazioni di gioco. “Lorenzo è un ottimo giocatore, sapevo che oggi avrei dovuto cercare sempre di imporre il mio gioco evitando di farlo sentire a suo agio – ha detto Carlos nell’intervista in campo dopo la vittoria -. Ho provato anche a sorprenderlo usando variazioni, come venire a rete o utilizzare palle corte. Penso siano state queste le chiavi dell’incontro e sono molto contento di aver mostrato questo livello oggi. Sono contento di giocare qui in Cina, il pubblico mi sta dando tantissimo”. Per il numero 2 ATP nei quarti c’è Casper Ruud.
Primo set: Alcaraz mette subito la contesa a suo favore
Il match inizia con un Musetti che tiene a zero il servizio con una partenza molto decisa (1-0). Ciò fa sperare in una gara alla pari tra i due, ma ben presto Alcaraz prende il comando della gara con un tennis spumeggiante. Gira a mille il gioco dello spagnolo, che appare in ottima forma dopo la semifinale US Open e il “no” alla convocazione in Coppa Davis. Sempre aggressivo, Carlos è super anche in difesa, a tratti Musetti deve fare gli straordinari per portare a casa un punto. Così nascono un paio di scambi spettacolari che fanno contenti il pubblico cinese ma non Lorenzo, che perde il servizio già al terzo game (1-2) e poi di nuovo al quinto (1-4). Musetti riesce a guadagnarsi le prime palle break solo nel momento in cui Alcaraz serve per il primo set, ma lo spagnolo ne salva due e poi chiude 6-2 il primo parziale quando un rovescio del nostro giocatore non va oltre il nastro.
Secondo set: Musetti non riesce a fare partita
Con un fulminante dritto in cross Alcaraz arriva a palla break già nel primo game del secondo set, poi salta sopra alla seconda di servizio di Lorenzo col rovescio lungolinea e parte in vantaggio (1-0). Subito dopo però, per il secondo turno consecutivo, lo spagnolo concede palla break mettendo lungo un comodo dritto. Ma la salva con una chirurgica stop-volley di dritto, a conferma sia dello stile di gioco propositivo e coraggioso sia della capacità di interpretare ottimamente le situazioni tattiche della partita. Doti che di certo non si scoprono oggi in Alcaraz, che sale 2-0. Lo spagnolo non trema e tiene saldamente in mano le redini del match, anzi arriva a palla del doppio break pesante nel quinto game. Bravo l’azzurro, in questa occasione, a salvarsi con una gran prima a uscire, ma Alcaraz infila un’altra risposta vincente col rovescio sulla seconda e poi Musetti affossa un dritto in rete (4-1). Lorenzo spinge con il dritto e sale 5-2, ma non riesce a impensierire Alcaraz, che con una corposa prima esterna chiude il match alla prima occasione.
evidenza
WTA Tokyo: Kudermetova torna a vincere un titolo due anni e mezzo dopo il primo, Pegula ko
In una finale a senso unico, chiusa in due set, Kudermetova conclude la sua settimana perfetta

[8] V. Kudermetova b. [2] J. Pegula 7-5 6-1
Dopo un digiuno durato oltre due anni, Veronika Kudermetova conquista il suo secondo titolo WTA in carriera (il primo trionfo è datato aprile 2021 sulla terra verde di Charleston). Un successo in parte inaspettato perché nella parte finale della stagione la russa stava faticando e non poco: negli ultimi sei tornei aveva vinto solo tre partite.
Il trionfo su Iga Swiatek nei quarti di finale di questo torneo ha probabilmente fornito un’importante iniezione di fiducia a Kudermetova che ha dovuto superare anche la sempre insidiosa Pavlyuchenkova in semifinale in un match durato quasi 3 ore e mezza.
Contro Jessica Pegula partiva sfavorita, complice anche la statistica di quattro finali WTA perse consecutivamente dopo il primo sigillo – tra cui anche la finale di ‘s-Hertogenbosch di quest’anno. Le due si erano già affrontate in stagione nei quarti di finale di Madrid in cui aveva prevalso Kudermetova.
IL MATCH – Ai blocchi di partenza parte forte Kudermetova che brekka la statunitense a zero e si invola 3 giochi a 0. La potenza dei colpi da fondo campo sembra funzionare per la russa se non fosse per il passaggio a vuoto durante il quinto gioco in cui perde malamente il servizio a 15 e rimette in corsa la sua avversaria. Senza l’ombra di palle break, il set prosegue con la giocatrice al servizio a dettare il ritmo fino al 6-5. Pegula al servizio, annulla il primo set point alla russa ma sul secondo commette doppio fallo lasciando strada libera a Kudermetova.
Nel secondo set la numero 19 WTA è praticamente perfetta. Non concede palle break e sfrutta le due concesse da Pegula (nel secondo e nel sesto gioco) per chiudere al terzo match point in un’ora e 24 minuti.
“Sono molto felice perché non è stato un periodo semplice per me. Ci sono stati momenti duri. Ora sono molto felice e ho la giusta motivazione per affrontare le prossime settimane” ha detto Kudermetova alla fine del match.
Coppa Davis
Coppa Davis – Il “caso” Nazionale: io penso che Sinner meriti l’assoluzione
L’opinione del direttore di Ubitennis. “Non la merita chi lo ha sollevato”. Fossi Volandri convocherei serenamente un Sinner disponibile. Binaghi e la Real Politik di Otto von Bismark

La prendo larga per sostenere che secondo me Jannik Sinner non merita proprio di essere lapidato, già proprio preso a pietre in faccia come è accaduto, a seguito di alcuni interventi – da Nicola Pietrangeli e Adriano Panatta, sollecitati dalla linea editoriale della Gazzetta che ha sollecitato le reazioni scandalizzate di campioni di altri sport con una campagna di stampa massiccia, quasi feroce – e da tutti i colpevolisti che si sono scagliati virulentemente contro la decisione di Jannik di saltare il girone di Coppa Davis di Bologna.
A Bologna, cioè laddove – almeno sulla carta anche se poi non è stato così – l’Italia avrebbe dovuto passare in carrozza alle finali di Malaga trovandosi alle prese con 3 squadre che (unica eccezione il Cile per via di Jarry) per quattro quinti non potevano schierare tennisti compresi fra i primi 100/150 del mondo.
Sostengo l’innocenza di Jannik anche se lì per lì mi è certo dispiaciuto che non ci fosse a Bologna – anche ma non solo per coerenza con quanto sostenni 15 anni fa nel “caso Bolelli”.
E mi trovo semmai un po’ in imbarazzo per capire come dovrei reagire nel registrare invece una certa assenza di coerenza in chi vorrebbe applicare due pesi e due misure, cioè regole che valgono per alcuni e non per altri.
Regole diverse infatti sembrano valere per i tennisti molto forti, Jannik Sinner, n.7 del mondo e n.4 della Race, ma non per quelli più deboli, meno noti e con un impatto mediatico meno “forte”, Bolelli n.34, Seppi n.46 e altri condannati obbligati senza sconti a passare sotto le Forche Caudine. E’ anche vero però che si sta parlando di regole “pensate” e applicate fra il 2008 e il 2010
LA RAGION DI STATO
Tutto ciò, anche se alla fin fine anch’io accetto in parte la…Ragion di Stato che ha certamente ispirato recentemente Angelo Binaghi. Cioè quella “ragione” che può permettere soluzioni pragmatiche che sacrifichino la morale e la coerenza pur di risolvere in modo vincente un problema.
Si tratta…almeno un po’, senza lasciarsi prendere troppo dall’irriverente confronto, come fu per la Ost Politik del cancelliere tedesco e social democratico Willy Brandt che non era davvero comunista, ma “aprì” ragionevolmente alla Germania dell’Est e meritò anni dopo di essere insignito di un Premio Nobel per la pace. Brandt proseguiva nella tradizione della “Real Politik” dell’altro cancelliere tedesco Otto von Bismark (1815-1898), che decise di privilegiare la politica concreta fondata sugli interessi del Paese e sulla realtà (interna e internazionale) del momento e non sui sentimenti, le ideologie, i principi.
Insomma capisco oggi anche l’atteggiamento di Binaghi, così come non lo capii 15 anni fa.
L’ANTICA STORIA DI QUANDO IL SOTTOSCRITTO ERA LO…”ZIO” DI BINAGHI
Occorre fare un po’ di storia, anche personale, prima di arrivare al “caso” Sinner e a come viene affrontato oggi rispetto a come sarebbe stato una affrontato una volta.
Neppure chi legge Ubitennis da tempo e apprezza la nostra linea giornalistica sempre autonoma, orgogliosamente indipendente dai poteri forti ATP, WTA, ITF, 4 SLAM (più in Italia FITP) e quindi esposta a correre fastidiosi rischi e brutte conseguenze, probabilmente immagina e sa che fino al 2008, il presidente federale Angelo Binaghi in carica dal 2000 a oggi, considerava – incredibile dictu! – il sottoscritto persona cui affidarsi, cui poteva convenire chiedere consiglio in virtù della sua maggiore età, esperienza e conoscenza del tennis internazionale, anche per certi aspetti comunicazionali.
Esperienze e conoscenze maturate e coltivate 30 anni prima della sua prima elezione a presidente FIT. Quindi fin dall’inizio degli anni Settanta, quando ancora – sebbene modesto giocatore – riuscivo grazie ai miei risultati da doppista fra i seconda categoria a qualificarmi per affrontare i “prima” agli Assoluti Nazionali, a vincere con il C.T. Firenze uno scudetto tricolore a squadre di prima categoria, prima di “sopravvivere” per oltre mezzo secolo fra i giornalisti, frequentando non solo i più grandi tennisti di 6 decadi, ma anche i più grandi dirigenti dei grandi tornei e delle federazioni (un nome per tutti Philippe Chatrier), tanti manager del tennis mondiale (Mark McCormack, Donald Dell), non senza aver avuto anche qualche piccola esperienza come promoter di qualche weekend tennistico (come l’evento similDavis Italia-Stati Uniti grazie al quale misi di fronte Adriano Panatta e Paolo Bertolucci a due mostri sacri come Arthur Ashe e Vitas Gerulaitis in Toscana), come per più anni organizzatore/direttore del torneo ATP di Firenze, quando ancor giovanissimo ero diventato amministratore delegato di una agenzia di pubblicità, D&A, Design&Advertising.
Angelo Binaghi usava allora chiamarmi zio” e mi consultava con una certa frequenza su svariati argomenti. Conservo sul mio cellulare i suoi messaggi. Fui anche consulente FIT e KPMG per una ricerca affidata all’Istituto per il Credito Sportivo.
QUANDO CONSIGLIAI ALLA FIT DI PROCURARSI UNO SPAZIO TV PER IL TENNIS
Inciso inedito: fra i vari suggerimenti che potei dare allora – ricordo che accadde nel corso di un viaggio in treno con Binaghi da Firenze a Bologna – ci fu anche quello di studiare il modo di “conquistare” uno spazio televisivo per il tennis, comprando spazi settimanali in un qualche network privato economicamente “raggiungibile”. Parlammo allora di piccoli network nazionali.
I fatturati FIT di allora non permettevano voli pindarici di altro tipo. Con meno di 30 milioni di fatturato annuo non era come averne 180 e, almeno secondo me, la FIT doveva prima di ogni cosa sistemare il settore tecnico maschile e rivedere la sua politica nei confronti dei team privati, per diversi anni per nulla incentivati, quando non addirittura osteggiati. Perfino le mie modeste conoscenze in termini di costi tv mi permettevano di escludere che una TV federale potesse chiudere i conti col break-even in tre anni, come fu invece annunciato all’esordio di Supertennis. Chiudo l’inciso, sennò dimentico Sinner e la sua presunta innocenza…
QUANDO I RAPPORTI IDILLIACI CON IL PRESIDENTE FIT CROLLARONO
Tutti questi rapporti idilliaci con Angelo Binaghi durarono dunque soltanto per i suoi primi 8 anni di presidenza. Fino al 2008. Ma che cosa accadde nel 2008?
Accadde che, settembre 2008, l’Italia di Coppa Davis doveva giocare a Montecatini per la permanenza in serie B (nel gruppo EuroAfricano) contro la Lettonia di Gulbis e…nessun altro! Beh sì, il n.2 lettone era tale Andis Juska, n.394 del mondo…e non valeva più del suo ranking. Non avrebbe vinto contro nessuno dei primi 20 tennisti italiani.
Difatti perse i suoi due singolari senza vincere un set con Seppi e Starace che non giocarono neppure particolarmente bene. Inevitabilmente trascinò alla sconfitta in doppio anche il talentuoso Gulbis che in singolare aveva dominato nettamente Fognini in prima giornata (7-6,6-1,6-1) e avrebbe poi rimontato Seppi al quinto in terza dopo aver perso i primi due set.
Era stato anche in virtù di questa scontata debolezza del team lettone, che Simone Bolelli – consigliato dal suo coach Claudio Pistolesi – aveva osato dir di no alla convocazione in Davis emessa dal capitano Corrado Barazzutti.
C’era stato un precedente. L’anno prima Filippo Volandri, quando l’ItalDavis doveva affrontare un’altra squadretta ancor più debole, il Lussemburgo, su un campo in cemento approntato ad Alghero, fu concesso a Filippo di disertare l’evento in terra sarda, visto che voleva prepararsi per un torneo sulla terra battuta (Stoccarda?).
Bolelli era allora n.36 ATP. L’obiettivo che lui e il suo coach volevano centrare nell’autunno di quel 2008, era riuscire a rientrare almeno fra i primi 32 in modo da assicurarsi un posto fra le teste di serie all’Australian Open. Una legittima valvola di sicurezza per evitare di affrontare i più forti nei primi 2 turni.
C’erano due tornei in Oriente, Bangkok e Tokyo a settembre dove Simone era convinto di poter fare bene e conquistare punti preziosi. Ma per lui le cose non andarono come per Volandri. Il “gran rifiuto” di Bolelli scatenò un putiferio.
Nicola Pietrangeli (che giocava la Coppa Davis quando quella era molto più importante degli Slam) arrivò a dire che Bolelli “aveva sputato sulla bandiera”, la FIT proclamò una squalifica di 4 anni (poi rientrata), Binaghi disse che Bolelli non avrebbe mai più giocato in Coppa Davis (“Finchè sarò io presidente”, ma anch’esso fu provvedimento rimangiato quando Bolelli abbandonò il suo coach Pistolesi). Per un certo periodo gli fu impedito di allenarsi nei circoli italiani affiliati alla FIT.
Io avvertii Binaghi – che avrebbe desiderato il mio sostegno in quella battaglia sbagliata – che non lo avrei sostenuto perché non ero per nulla d’accordo.
Cercai di fargli presente che Connors aveva giocato in oltre 20 anni in Davis soltanto nel ’75, nell’81 e nell’84 (con pessimi risultati…perché era un gran individualista e non un uomo squadra come il suo “nemico” McEnroe).
Gli ricordai che l’ATP era nata sulla protesta e il boicottaggio di Wimbledon 1973 da parte di un’ottantina di tennisti per il “caso” di Nikki Pilic che era stata squalificato dalla federazione jugoslava perché aveva scelto di giocare il “mondiale” di doppio a Montreal anziché la Coppa Davis.
Ricordai che non solo ai tennisti USA veniva chiesta all’inizio di ogni anno una disponibilità “contrattualizzata” a giocare la Davis.
Ricordai come l’Argentina non fu quasi mai in grado di schierare contemporaneamente le sue due star top-5, Vilas e Clerc perchè un anno non accettava di giocarla l’uno e un altro anno l’altro…e via dicendo….-e del resto ben più recentemente, nel 2014, Juan Martin del Potro scatenò una guerra contro la federazione argentina e il proprio capitano di Coppa Davis Martin Jaite dicendo che non avrebbe difeso i colori albiceleste “Ho deciso che non giocherò la Coppa Davis quest’anno”
Fatto sta che Bolelli rimase talmente sconvolto da tutte le sanzioni e le polemiche che seguirono al suo presunto “oltraggio alla bandiera” che la sua tournee asiatica si risolse in un disastro. Perse al secondo turno a Bangkok e al primo (da Suzuki n.593 ATP) a Tokyo.
Ma la FIT proseguì sulla sua strada. Due anni dopo Andreas Seppi fu costretto a fare il giro del mondo per presentarsi a capo chino a Castellaneta Marina (non la località più semplice da raggiungere) alla vigilia di Italia-Bielorussia che schierava il solo (e già vecchio) Mirnyi. Un’inutile costrizione alle forche caudine.
Lì i rapporti fra chi scrive e Binaghi si incrinarono pesantemente. Successivamente le mie forti critiche alle modifiche statutarie che lui apportò nell’autunno 2009 e che gli hanno astutamente consentito di non avere più candidature alternative alla sua presidenza FIT per quasi tutte le elezioni successive dal 2008 in poi, dettero il colpo di grazia ai nostri rapporti.
Per me Binaghi era il miglior dirigente possibile per quegli anni, e magari anche per quelli successivi, ma non trovavo giustificabile che un dirigente, per quanto bravo, potesse brevettare statutariamente un sistema per diventare “imperatore” a vita. E lo scrissi chiaramente inimicandomelo per sempre. (n.b. per sempre perchè quello è il suo carattere). Scrissi che aveva trovato modo di restare presidente fino al 2016. Mi ero sbagliato per difetto. Ciò detto, però, pur restando io critico su diverse metodologie comportamentali, non ho alcuna difficoltà a riconoscergli diversi meriti gestionali che in questa sede non è il caso di approfondire.
Riguardo alla Davis e alla Fed Cup, però ed infatti, l’atteggiamento federale è poi mutato nel tempo. E nella stessa direzione che avevo indicato. Francesca Schiavone chiese di “saltare” una convocazione di FED CUP in cui avrebbe dovuto far da riserva alle più giovani Pennetta, Errani e Vinci. Le fu concesso “per meriti sportivi acquisiti”. Fabio Fognini giocò un torneo a Belgrado nella stessa settimana in cui disse di non sentirsi in grado di giocare la Davis (dopo una pesante sconfitta a Roma 2010, 6-0,6-3 con Seppi). Nove anni dopo Fognini non rimase in Australia per andare con il resto del team in India per la Davis 2019, ma – sconfitto per la sesta volta di fila dalla sua bestia nera Carreno Busta (6-2,6-4,2-6,6-2) – chiese e ottenne di poter tornare in Italia.
Capisco bene quindi che oggi Binaghi, e lo stesso Volandri, non si sentano di mettere in discussione le scelte professionali del nostro miglior giocatore, di colui che più di ogni altro potrebbe rappresentare il nostro tennis ai massimi livelli per i prossimi 10 anni.
Non mi sarei messo contro Volandri, Bolelli, Seppi, Fognini, Schiavone, professionisti liberi di fare le proprie scelte, anche perché sono loro stessi i soli a conoscere davvero le proprie situazioni fisiche e i propri calendari spesso collegati a tante variabili, superfici, continenti, classifiche, periodi stagionali….
Quindi trovo abbastanza normale che Binaghi abbia detto stavolta di “condividere” le scelte di Sinner e del suo team, “tenendo conto degli altri obiettivi di carriera di un tennista che è n.4 nella Race e che mira a vincere uno Slam”.
E Sinner conosce il suo corpo (ad oggi un corpo…non straordinario se paragonato a quello di un Djokovic, ma anche di un Alcaraz, di uno Tsitsipas i suoi primi e più forti rivali) meglio di chiunque altro.
Sinner ha spesso sofferto di problemi fisici, perfino nel suo ultimo match con Evans, ma anche di stress psicofisici, all’indomani di una sconfitta pesante o perfino di una vittoria importante.
“Confesso che sono rimasto un po’ disorientato per la sconfitta patita da Sinner con Mikael Ymer. E’ chiaro che Jannik non aveva recuperato appieno dal trauma della partita (persa nei quarti all’US Open 2022) con il matchpoint con Alcaraz (poi vittorioso nel suo primo Slam)”. Eppure era trascorsa una decina di giorni. Più o meno gli stessi giorni che sarebbero intercorsi fra la maratona di 4 ore e 40 persa quest’anno a New York con Zverev e l’incontro che avrebbe potuto giocare a Bologna contro il Canada.
Quella negativa esperienza “Ymer-after Alcaraz” ha probabilmente portato consiglio al team Sinner.
Quando Jannik ha vinto il suo primo Masters 1000 quest’estate in Canada, poi ha giocato subito dopo Cincinnati e ha perso al suo primo ostacolo con Lajovic.
Simile storia era accaduta quando in Australia Jannik vinse un ATP 250 a Melbourne ma poi pochi giorni dopo perse al primo turno con Shapovalov all’Australian Open.
Insomma è legittimo, alla fine, che Jannik prenda le sue precauzioni. Anche se sembrano egoistiche, individualiste come lo sport che pratica da campione – un top 4 dell’anno lo è – poco simpatiche, apparentemente poco permeate di spirito di squadra.
Berrettini, infortunato, si è fatto vedere a bordocampo a Bologna, a sostenere la squadra. E tutti lo hanno apprezzato. Ma Matteo non doveva prepararsi per giocare i tornei cinesi che invece Jannik sta disputando.
Quindi chi ha sottolineato i diversi comportamenti di Jannik e Matteo avrebbe dovuto rendersi conto anche delle loro diverse situazioni. Che in buona parte sono state riprese e argomentate nei due articoli che sono usciti su Ubitennis, scritti da Michelangelo Sottili (“per me Sinner è colpevole”) e Federico Bertelli (“per me Sinner è innocente“), per fotografare la realtà, una situazione di un “caso” su cui sono “saltati sopra” Gazzetta dello Sport in primis, ma anche tanti campioni di altre epoche (Pietrangeli, Panatta), di altre Davis, di altri sport ben diversi da quello che è oggi il tennis professionistico.
Ecco perchè ho trovato pretestuose le pesanti critiche che sono state scagliate come frecce avvelenate sul corpo di Jannik Sinner, un patrimonio tennistico da proteggere. Ecco perchè non vedo perchè Volandri dovrebbe rinunciare tafazzianamente a convocare il nostro tennista più forte a Malaga quando avremmo le possibilità per rivincere finalmente quella Coppa Davis che ci è sempre sfuggita dal 1976 a oggi, anche se questa Coppa Davis non è davvero quella che era una volta. Ma tutto cambia e magari – spero -cambierà ancora. E se si dovesse vincere la Coppa Davis quest’anno, come io credo sia possibile, tutte le polemiche suscitate dalla Gazzetta e da altri verranno offuscate e dimenticate.