Miss Wightie, una vita all’attacco: la prima tennista che conquistò la rete
Dall’assolata California fino a Boston, ecco la storia di Hazel Hotchkiss Wightman, gran signora, campionessa e innamorata del gioco fino alla fine. Senza non avremmo avuto Bilie Jean King e Martina Navratilova
Nel 1879 William Allen e William Young, un inglese e un canadese in villeggiatura con le rispettive famiglie, stesero un nastro grezzo attraverso la via sterrata di Santa Monica e lì, fra nuvole di polvere, ebbe luogo il primo incontro di cui si abbia notizia. Solo un anno dopo gli indiani della Marin County vendevano cesti di conchiglie frantumate a privati che le utilizzavano come una sorta di terra battuta per costruire campi da gioco nelle loro tenute.
Non costretti dai rigidi lacci sociali presenti a Est, i californiani diedero al gioco una impronta democratica, promuovendone lo sviluppo in maniera molto più libera e accessibile e il clima ebbe un ruolo fondamentale.
In quei luoghi non piove, inoltre il suolo è poco adatto all’adozione di campi in erba e così si optò per il cemento, una superficie economica a basso costo di mantenimento.
Laggiù al caldo il tennis comincia a correre veloce. Dal 1890 in poi come d’incanto spuntano circoli e club su tutta la costa fra Los Angeles e San Francisco, dove già nel 1894 John Mc Claren – l’architetto paesaggista creatore del Central Park di New York – promosse la costruzione di due campi in terra e una club house. Nel 1901 i campi erano diventati ventiquattro e tutti liberi al pubblico. Il sole perenne instillava un amore viscerale per la vita all’aria aperta.
In quella lontana landa promessa dello sport i cinque pargoli Hotchkiss crescono liberi, attivi e competitivi l’uno con l’altro. Mamma e papà – un venture capitalist che fece milioni di dollari e perse tutto dopo il crac del ’29 – avevano aspettative molto alte per noi e ci spingevano a dare sempre il meglio qualunque cosa facessimo.
Lo spirito dei pionieri, fatto di concretezza, odio per i sotterfugi e volontà di aiutare i propri vicini è potente e i quattro maschi mi portavano volentieri con loro nei giochi all’aperto. Ero fragile e pativo continui mal di testa finché un dottore mi consigliò di stare il più possibile all’aria, e quale luogo migliore delle centinaia di acri di terra, alberi e acqua della tenuta di famiglia per mettere in atto la cura? In questo scenario, che qualora comprendesse il Mississippi potrebbe benissimo essere uscito dalla penna del Mark Twain i malanni scomparvero e crebbi forte e resistente come il Joshua Tree, una pianta del deserto che mi somiglia molto. Non è molto alta ma sviluppa radici profondissime e può vivere per secoli.
In quei primi anni di formazione mi accorsi subito di possedere talento e coordinazione nei giochi con la palla. Sono competitiva e orgogliosa, forse anche intelligente e in breve tempo sono diventata una delle migliori del gruppo nel baseball. Quando all’inizio di lunghi pomeriggi di sfide e sudore le squadre venivano composte, ero regolarmente scelta fra i primi. E nei momenti cruciali il box di battuta era cosa mia perché sapevo colpire la pesante pallina meglio e spedirla più lontano di chiunque altro. Quelle splendide e lunghe giornate comprendevano sovente giochi pericolosi come saltare steccati e recinzioni con aste rudimentali o arrampicarsi a mani nude sugli alberi più alti della tenuta. Ci voleva coraggio, e tanto, lo stesso a cui ho dovuto attingere nei momenti cruciali dei miei match. Non sempre tutto filava per il meglio e quando riportavo sbucciature e tagli assortiti i miei fratelli, al rientro a casa, mi facevano schermo fino alla camera per evitare rimproveri.
Le fortune della mia famiglia intanto crescevano. La Central California Canneries, l’azienda di inscatolamento fondata da papà, prosperava tanto che nel 1916 si fuse con la Cal Pak dando vita al gigante Del Monte Corporation. Per meglio seguire le iniziative di affari del capofamiglia abbandonammo Healdsburg per trasferirci a Berkeley, in una grande casa with lovely bay windows al 2985 di Claremont avenue.
La traversa che delimitava il retro dell’abitazione oggi si chiama Hazel Road.
Il ‘900 inizia con il tennis
Inizia il nuovo secolo e con lui il tennis diventa grande. Nella primavera del 1902, mentre Dwight Davis lustra la sua coppa e oltreoceano i fratelli Doherty si preparano a rapirla, il gioco irrompe nella mia vita. Dovevo ancora compiere sedici anni quando Homer e Marius mi portarono sul campo dell’hotel San Rafael di Frisco per assistere a un incontro di cartello.
Era una lotta in famiglia perché sul rettangolo si sfidavano Florence Sutton e sua sorella May, una dominatrice. Quel giorno non potevo certo immaginare di osservare colei che sarebbe stata la mia più dura avversaria nella prima feroce rivalità del tennis femminile. Nonostante la grandezza delle due che lottavano sotto i miei occhi però, trovai subito estremamente noioso lo stile di gioco delle contendenti. “It was boring, the ball passed over the net as many as fifthy times in a single rally before someone made an error or finally won the point by a placement”. Poco male comunque, perché pochi giorni dopo ho scoperto la mia via.
Questa volta Homer mi portò a vedere un doppio dei fratelli Hardy, la coppia più forte in California, e fu una rivelazione. Sono rimasta a bocca spalancata mentre sotto ai miei occhi Sam e Summer volavano per il campo. Attacchi dietro al servizio, incroci a rete e volée piazzate negli angoli si susseguivano sotto i miei occhi rapiti.
Eureka! Avrei giocato anch’io così.
Immediatamente il cortile dietro casa venne colonizzato. Un nastro di seta rossa rubato dalla scatola del cucito di mamma fu teso fra un cespuglio di lamponi e il roseto che rampicava sul muro. La superficie in cemento però era troppo irregolare, tutta crepe e buchi, e così trovammo naturale prendere a colpire al volo o in controbalzo la pallina. È iniziata in questo modo la costruzione del mio gioco, uno stile mai adottato prima fra noi signore, fondato su attacco e anticipo a tutti i costi.
Attenzione, accuratezza e riflessi vennero allenati ora per ora, giorno dopo giorno.
Credimi, erano abilità necessarie per rimanere illesi in quegli accaniti scontri, l’unico modo per non ritrovarsi a sera il corpo tappezzato di lividi blu. L’anticipo sulla palla divenne una specie di seconda natura per me. A detta di Arthur Wallys Myers, solo la divina Lenglen e io possedemmo appieno quel dono.
Non sono mai stata influenzata da un maestro che mi dicesse cosa fare e come farlo – colpire in questo modo o muoversi in quest’altro –, ero libera. Semplicemente imparavo quel che serviva per spedire la palla dove volevo io. Come l’Emilio di Rousseau apprendevo e affinavo le mie abilità senza la coscienza di farlo. “What’s half -volley?” risposi candida ad un cronista che ai primi successi mi chiedeva conto dell’abilità che mostravo in demi-volée. Non sapevo si chiamasse così…
È questo che ho cercato di insegnare alle giovani promesse del tennis per tutta la vita. Niente tecnicismi esasperati, stringhe legate alla testa della racchetta o ore passate a correggere impugnature. Solo ritmo, bilanciamento, controllo dei colpi e un muro come istruttore, meglio se di legno. Quelli che vedi qui intorno sono lievemente inclinati, in modo che la pallina ritorni indietro in modo dolce.
È così che ho fatto io, da sola, senza maestri, colpendo a ripetizione palline contro il muro di casa. Ero l’unica ad avere il permesso di farlo perché ero precisa e non rompevo mai le finestre.
Credo di aver vinto circa 43 titoli in tutte le specialità, l’ultimo a 67 anni. Fra questi quattro US Open in singolo, un Wimbledon in doppio e due ori olimpici a Parigi 1924. Ma per come la vedo io non c’è vittoria che valga la soddisfazione di aiutare ragazzi e ragazze a scoprire le gioie di questo gioco. L’insegnamento è la mia vera passione, ho iniziato presto, con Helen, e non ho più smesso, come puoi vedere.
Ma non perdiamo il filo.
Eravamo ai primi del ‘900 e l’unico campo da tennis dei dintorni apparteneva all’università di Berkeley, quella stessa da cui anni dopo uscirono tutti quei capelloni… Ma quella è un’altra storia.
Ebbene, ai tempi noi donne non potevamo usufruirne dopo le 8.30 del mattino ma in famiglia non ci siamo mai persi d’animo, così escogitammo uno stratagemma.
Mio fratello Homer andava a dormire con uno spago legato all’alluce, l’altro capo correva lungo la stanza e poi giù dalla finestra fino in giardino. Tutte le mattine, prima dell’alba un vicino, che faceva da quarto per il doppio, tirava con forza la fune. Homer svegliava Marius e me e dopo aver raccattato qualche mela dalla cucina trottavamo per un miglio circa fino al campo. Si tornava a casa stanchi ma accesi di passione verso le sei e mezza e io facevo i miei esercizi al pianoforte prima di andare a scuola. Così avrei avuto il pomeriggio libero per provare a sconfiggere il muro di casa. L’unico avversario che non ho mai battuto.
Dopo alcuni mesi di allenamenti in famiglia conquistai il mio primo trofeo.
Ricordo ancora il viaggio in ferry boat attraverso la baia. Mentre fantasticavo su quel che mi aspettava conobbi una ragazza di nome Mary Ratcliffe, per combinazione anche lei era iscritta al mio stesso torneo e immediatamente decidemmo di far coppia nel doppio. Lei mi copriva le spalle, io agivo dalla linea del servizio in avanti chiudendo ogni palla che mi passasse vicino. Vincemmo sempre senza perdere un set e quando battemmo in finale le detentrici Emma e Maud Varney scorsi facce attonite e meravigliate fra il pubblico. Non avevano mai visto due donne giocare il doppio alla maniera dei maschi. Il giorno dopo il San Francisco Chronicle scrisse questo a proposito dell’incontro: “…the most intresting and scientific women’s doubles match yet witnessed at the Park Court”. Non male per una prima volta.
Avevo assestato il primo colpo di lama ai lacci che tradizionalmente ci tenevano inchiodate a fondocampo. Alice Marble, Margaret Court, Billie Jean e Martina hanno fatto il resto.
Il doppio fu il mio primo amore ma cominciai a vincere anche in singolare perché le avversarie apparivano prima sorprese e poi inermi contro le mie tattiche aggressive. Non sono mai stata potente, mi vedi, dove avrei potuto prendere la forza? Sono bassa e squadrata come un pony e ho capito presto che avrei dovuto fare affidamento sulla testa per affermarmi. I miei colpi tagliati erano inutili negli scambi dal fondo, allora io cercavo di tenerli lunghi e alla prima apertura avanzavo fino a metà campo. Da lì piazzavo la demi-volée e solo dopo scattavo a rete. Maurice Mc Loughlin, the California Comet, è un caro amico, giocavamo insieme di frequente e mi aveva insegnato tutti i segreti dello smash, un colpo nel quale non ebbe eguali. Grazie a lui ricacciavo continuamente in gola alle mie avversarie i lob con i quali cercavano di buttarmi indietro.
Nell’autunno del 1908 giunsero in California dall’Est quattro giocatori, fra cui il ben noto Wallace F. Johnson. Erano lì per disputare il Pacific Coas Championship e reclutare i tennisti più promettenti da invitare ai campionati nazionali dell’anno seguente. Wallace mi vide giocare e il giorno dopo si presentò a casa e convinse mia madre a spedirmi a Philadelphia l’estate seguente.
Era il mitico Cricket Club, ci giocava un giovanotto di nome William Tatem Tilden II e allora ospitava i campionati femminili, ovviamente su erba.
Quell’anno volò per me e mentre attraversavo il paese in treno alla volta della costa est cercavo di tenere a bada il nervosismo ricamando. Scorsi spesso mio padre che mi guardava con un sorrisetto nascosto. Io comunque sapevo bene cosa fare e quando farlo. Da lui ho ereditato le capacità strategiche, da mia madre invece ho preso la resistenza fisica e l’abitudine a non lamentarmi mai. In famiglia si racconta ancora di quella volta che mamma parcheggiò la macchina in discesa tirando male il freno a mano. Fatti pochi passi l’auto la investì da dietro rompendole una gamba. Lei guidò fino a casa, salì le scale e si stese a letto. Due giorni dopo era di nuovo in piedi.
Non dimenticherò mai quel mese di giugno! Il verde odore dell’erba, l’eleganza delle dame, la sensazione che destò la mia blusa a maniche corte. Dovetti farla allungare un pochino, ma non troppo però. Volevo sentirmi le braccia libere per volée e smash.
Vinsi tre titoli, il misto insieme a Wallace Johnson, il doppio con Edith Rotch e il singolo contro la detentrice Maud Barger Wallach. Nei due anni seguenti confermai i miei titoli e a onor del vero fu facile perché lei non c’era…
Perché contro May Sutton, figliolo, era un’altra cosa…
Mary Sutton, la regina del tennis
La prima volta che la incontrai mi accorsi subito che qualcosa non funzionava.
Lei non lobbava mai, sparava forte al corpo. Veramente forte.
Era nata in Inghilterra. Il padre, capitano di lungo corso della Royal Navy, aveva attraversato mezzo mondo per trasferire la famiglia a Santa Monica dalla natia Plymouth e sotto quel cielo le sue cinque figlie avevano impugnato una racchetta mentre ancora imparavano a camminare. Presto quattro di loro presero a dominare tutti i tornei della costa e fin da subito la più giovane, May appunto, emerse come la migliore. Dura e determinata, con la resistenza di un cavallo, maniche arrotolate e riccioli al vento che le ho sempre invidiato, la giovane Sutton distruggeva le avversarie con mazzate di dritto mai viste fino ad allora. Dalla sua racchetta impugnata con una western estrema uscivano traiettorie violente e liftate che non lasciavano scampo. “Il suo dritto era tanto potente da spaccare la pallina e così preciso da piazzarla su una moneta” scrivevano i cronisti.
Quando ancora ci parlavamo mi aveva raccontato la storia di quel colpo. Appena trasferiti in California padre e sorelle avevano costruito un campo da tennis dietro casa. Ben presto però il terreno aveva ceduto inclinandosi verso destra e così tutte le palline si spostavano sul lato del dritto, obbligandola a esercitare oltremisura quel colpo. Ancora oggi c’è chi lo giudica il migliore di tutti i tempi. Io posso solo dire che se lasciavi rimbalzare quelle palline eri morta.
Eravamo nate nello stesso anno, May però iniziò a vincere molto prima di me. E non vittorie qualunque, i campionati statunitensi nel 1904, Wimbledon l’anno dopo – la prima non inglese a farlo – e ancora nel 1907. In Inghilterra le maniche arrotolate fecero tanto scandalo quanto scalpore provocarono i suoi colpi mascolini. Era formidabile, in singolare certo migliore di me, ma mi seppi comunque far valere.
Conquistate le corone più importanti May si chiuse in una torre d’avorio, molto compresa nel suo ruolo di regina del tennis. Giocava principalmente in California e ne usciva solo se gli organizzatori di un torneo si facevano carico delle spese sue e della sua corte. Non era una persona simpatica e l’ultima volta in cui chiacchierammo amabilmente fu a Londra nel 1905, quando ancora io non ero una minaccia per il suo trono.
Ma stavo arrivando…
“This slip of a girl play tennis like a strong man” scrivevano di me mentre cominciavo a vincere pressoché tutti i tornei che si disputavano nel nord della California. Ero sempre iscritta anche in doppio e misto e spesso mi veniva chiesto di giocare in esibizione contro tennisti maschi.
Vendevo cara la pelle e lo stesso feci quando inevitabilmente le nostre strade presero ad incrociarsi, la regina del Nord contro quella del Sud, in vago stile Mago di Oz.
La prima volta che ci incontrammo fu nella semifinale del Pacific Coast Championships a Del Monte, persi in due set facili e uscii dal campo frastornata come un campanaro. Per oltre un anno non ci fu nulla da fare, era terribile giocare contro di lei perché niente poteva prepararti a quei pallettoni che rimbalzavano in cielo e ti spezzavano il polso ma a ogni sconfitta facevo un piccolo passo. Il mio gioco da fondo divenne più consistente, profondo e regolare. Imparai che contro di lei bisognava saper attendere il momento giusto, un colpo lungo e possibilmente sul suo rovescio, prima di attaccare la rete. Ma non solo.