Wimbledon: Pillole di amarcord in 50 anni di mie trasferte in Church Road (1974-2023) con un solo grande rimpianto

Editoriali del Direttore

Wimbledon: Pillole di amarcord in 50 anni di mie trasferte in Church Road (1974-2023) con un solo grande rimpianto

Da Connors a Djokovic, via Borg, Sampras e Federer, da Evert a Rybakina, via Navratilova, Graf, Venus e Serena Williams, sono state 50 di fila a Wimbledon da giornalista, telecronista, radiocronista, cronista, web-editor. Ma ne avrei scambiate parecchie per una sola da tennista. E l’occasione si era presentata: nel 1973

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Wimbledon Centre Court - Wimbledon 2023 (foto Twitter @the_LTA)
 

Il mio primo Wimbledon da giornalista l’ho vissuto nel 1974, l’anno della vittoria dei due fidanzatini americani, Jimbo Connors che in finale lasciò solo 6 game (6-1 6-1 6-4) al vecchio Ken Rosewall, classe 1934, 39 anni e 7 mesi, e Chris Evert che fu ancora più avara perché ne lasciò appena 4 (6-0 6-4) a Olga Morozova, prima tennista russa ad essersi mai spinta così avanti a Wimbledon. E fino a Maria Sharapova trenta anni dopo e campionessa del 2004, di russe all’atto finale non ce ne sarebbero state più altre. Chris e Jimmy, mano nella mano e cheek to cheek, ballarono insieme al tradizionale ballo dei campioni a Governor House. Alcuni dei giornalisti più anziani e stimati, il francese de L’Equipe Dennis Lalanne, Gianni Clerici, Bud Collins (l’autore del detto “British may invented tennis, but Italians humanized it”, ‘i britannici possono anche aver inventato il tennis, ma gli italiani lo hanno umanizzato’), gli inglesi David Gray (che, prima di diventare segretario della federazione internazionale scriveva per il Guardian ed ebbe anche una love-story con Virginia Wade, la campionessa del 1977: “She won it, she won it in front of her Majesty the Queen!” fu il primo commento fra il commosso e l’entusiasta del famoso storico telecronista BBC Dan Maskell, per 40 anni “the Voice of Wimbledon”; Virginia cambiò poi gusti sessuali e fece clamore quando dichiarò a un quotidiano inglese: “Non voglio avere figli, credo che un figlio vorrebbe avere genitori di sesso diverso”. Oggi non lo avrebbe più detto…), Richard Evans (che invece la love-story la ebbe con Carol Thatcher, la figlia della Lady di Ferro), Rex Bellamy, il Gianni Clerici d’oltre Manica, John Barrett, ex “prima” inglese sposato alla campionessa di Wimbledon 1961 Angela Mortimer furono invitati al ballo. Io che avevo solo tre anni più di Jimbo e 5 più di Chris… ero all’esordio a Wimbledon. Ero quindi ovviamente alle prime armi, troppo giovane anche se scrivevo già sia per La Nazione sia per il Corriere della Sera, sia per Matchball e Tennis Club.  Gianni mi ospitava nella sua bellissima casa di Holland Park insieme a Lea Pericoli. Provò invano a farmi invitare con una delle sue classiche bugie “Abbiamo una chiave sola per rientrare in casa…”. Non gli dettero retta. Eppoi non avevo lo smoking!

Gianni aveva per vicina di casa la simpaticissima Julie Heldman, vittoriosa agli Internazionali d’Italia 1969 e figlia di quella Gladys Heldman che era stata la pioniera della WTA: era stata lei a spingere Billie Jean King, Nancy Richey e Rosie Casals a boicottare quel “male chauvinist pig” di Jack Kramer e il suo torneo di Los Angeles che dava alle tenniste premi 8 volte inferiori a quelli degli uomini.

 Se andate a cercare su You Tube il profilo che ho fatto su Gianni Clerici potrete “scoprire” perché lo avevo chiamato “Falso Allarme”, mentre il suo compare Rino Tommasi lo aveva battezzato invece, con più classe, “Il Dottor Divago”.

Quel 1974 era l’anno successivo a quello del boicottaggio di 81 tennisti dei primi 100 del mondo per via del caso Pilic, il tennista jugoslavo squalificato dalla propria federazione per aver osato rifiutare una convocazione in Coppa Davis. “Ma l’ho giocata per 20 anni! – avrebbe poi detto Niki – Mi ero impegnato in precedenza a giocare le finali mondiali di doppio a Montreal e non sarebbe stato serio se non fossi andato”.

Avrebbe anche guadagnato zero soldi, detto inter nos. E il buon Pilic ha sempre condiviso il detto “pecunia non olet”.

Pilic non era neppure troppo amato dalla gran parte degli altri tennisti, però quella squalifica li trovò tutti solidali, perché capirono che il professionismo doveva decidersi a dare una spallata all’ipocrisia delle federazioni che professavano il dilettantismo e poi, come quella italiana, davano i soldi sottobanco a Pietrangeli perché non passasse al professionismo e continuasse a giocare la Davis per la patria. Quella fu quindi l’occasione giusta per agevolare lo sviluppo del sindacato dei giocatori, l’ATP, che infatti, dopo quella bella prova di forza, nell’agosto del 1973 varò le sue prime classifiche computerizzate, importantissime per stabilire – al di là di tutto – chi aveva più diritto di potersi iscrivere ai vari tornei.

Wimbledon 1973 aveva dimostrato, con il sold out di tutti i giorni e le code infinite sui marciapiedi da Church Road a Southfields di appassionati disposti a dormire in tenda per notti e notti, anche più di una settimana a cucinarsi frittate nei pentolini al lume di candela, che i Championships erano più importanti di qualunque tennista assente. Anche se le teste di serie programmate Smith, Newcombe, Ashe, Rosewall, Okker, Riessen, Emerson, Gorman, Richey, Panatta, Orantes e Lutz non giocarono.

I “crumiri” fra i top-players furono pochissimi. L’inglese Taylor, l’individualista ed egoista per eccellenza Connors, Borg a 16 anni troppo giovane per aver coscienza sindacale, il tedesco Fassbender. Crumiri non potevano essere considerati i tennisti dell’Est cui i regimi comunisti non consentivano il diritto di sciopero. Così Ilie Nastase, n.2 del mondo dietro il campione in carica Stan Smith, era diventato il naturale favorito del torneo, davanti al ceco Jan Kodes che sarebbe stato testa di serie n.15 se non ci fosse stato il boicottaggio e invece vinse i Championships battendo in finale il russo (di Tbilisi, quindi georgiano) Alex Metreveli.

Ma perché ho ricordato il 1973 se ho cominciato a scrivere da giornalista accreditato a Wimbledon l’anno dopo, nel 1974?

Perché quello è stato l’unico anno che, proprio grazie anche a quel boicottaggio che si perpetrò a pochi giorni dall’inizio del torneo quando già era stato compilato l’ordine del torneo, io avrei forse potuto giocare a Wimbledon. E’ il mio più grosso rimpianto. Per qualunque ragazzo che cominci a giocare da piccolo al tennis, con qualche ambizione agonistica, arrivare a giocare a Wimbledon è il Grande Sogno. Poi c’è anche chi sogna di vincerlo, ma allora occorre essere più promettenti.

Ma la via di Roehampton per arrivare a Wimbledon era percorribile. Forse perché il tabellone delle qualificazioni si era molto snellito con la promozione al main draw di 81 giocatori che sostituivano gli “scioperanti” (più altri). Io avevo mandato la mia iscrizione alle “quali” all’insegna del “non si sa mai”. Le classifiche allora erano molto discrezionali, i criteri di ammissione alle “quali” adottati dagli inglesi erano insindacabili e molto basati sui risultati che gli stessi giocatori candidati presentavano. La faccio breve. Avevo battuto qualche discreto giocatore di livello internazionale, certo casualmente. Tra questi il n.1 del Messico e davisman Joaquin Loyo Mayo nel torneo che lui, mancino, aveva vinto tre volte a San Luis Potosi – la “ranita mexicana” che poteva vantare ottavi di finale a Wimbledon e quattro terzi turni fra US Open e Roland Garros – e nelle gare intercollege NCAA un tennista inglese, Ross Walker che era il campione Brit under 21 e un altro mancino certamente più forte di me, l’americano Terry Moor (che avrebbe conquistato scalpi importanti, mi pare Nastase e anche Panatta). Nelle classifiche matematiche a punti pubblicate con grande rigore dalla rivista Tennis Club di Rino Tommasi figuravo n.302 del mondo. Tanti di coloro che mi precedevano, americani, australiani ecc,  non si erano neppure sognati di mandare l’iscrizione a Wimbledon pensando di non avere chance. Io invece avevo osato e la Dunlop USA con sede a Buffalo che mi aveva “sponsorizzato” con 6 racchette dopo l’exploit messicano – e a me sembrava un “ingaggio” enorme, anche se avevo avuto l’abbigliamento completo dalla Fila – aveva raccomandato la mia partecipazione. Con oltre 100 tennisti entrati nel main draw dalla porta di servizio e almeno 100 defezioni di vario tipo, avevo qualche chance di giocare sui campi erbosi, e pieni di buche, di Roehampton.

Sennonchè un’improvvisa e seria malattia di mio padre mi costrinse a lasciare precipitosamente gli studi e Tulsa in Oklahoma dove ero stato invitato a giocare e a studiare con una borsa di studio per aver vinto nel 1972 i campionati nazionali universitari. Giocavo uno dei sei singolari per il college, da n.6 all’inizio della stagione e da n.2 alla fine e con il norvegese Ulleberg o il croato Toncic eravamo invece la coppia n.1 di tre doppi che dovevano ogni volta scendere in campo nel confronto che prevedeva 9 duelli. La vicenda paterna mi costrinse a dare l’addio sia all’America sia a Wimbledon…beh, no alle “quali” di Roehampton e al sogno Wimbledon.

Mai stato un tennista davvero forte, però mi illudevo che il mio tennis, fosse più da erba che da terra rossa. Quando persi in ottavi agli Assoluti di Perugia di quell’anno 1973 da Barazzutti, 7-5 6-2 7-5, dopo essere stato avanti 5-2 sia nel primo sia nel terzo set, feci serve&volley dal primo punto all’ultimo. Da fondocampo non avrei mai fatto un punto contro un regolarista come Corrado. Quelle poche volte che ho giocato sull’erba ho sempre giocato bene. Nelle Fiji, al ranch di John Newcombe, vinsi addirittura il torneo, sia pure di doppio insieme a un tennista di Houston, John Burmann, dopo aver perso nei quarti in singolo.

Non so quanti anni di questi 50 vissuti da giornalista a Wimbledon avrei scambiato per un solo anno da giocatore…a Roehampton con il miraggio di una presenza agonista a Church Road. Ma su questo 1973 e sogno infranto ho scritto fin troppo. Del 1974 e degli anni a seguire con gli aneddoti che via via mi tornano a mente, scriverò in una prossima pillola, se questa non vi ha troppo annoiato. Troppo autobiografiche? Potrete sempre evitare di leggere le prossime.

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