Major, soldi, gloria e slam: una storia quasi vera

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Major, soldi, gloria e slam: una storia quasi vera

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Lo sanno tutti, se vuoi essere un grande giocatore devi vincere un grande torneo. Ma una volta era diverso, se volevi essere un grande torneo dovevi riuscire ad attrarre un grande giocatore. Storia di come alcuni calcoli sarebbero tutti da rifare…

A differenza di molti sport di squadra e no, il tennis non ha un proprio campionato che si concentra in uno specifico lasso di tempo (i mondiali, gli europei, le Olimpiadi) o che si dipana lungo
tutto l’arco di una stagione decretando alla fine il vincitore (come nel caso dell’automobilismo o dei campionati nazionali), ma si diluisce in una serie di grandi tornei tra i quali, forse con l’eccezione di Wimbledon, è difficile stilare una graduatoria. Si spiega così una certa autonomia da parte dei tennisti nello scegliere i propri obiettivi. C’è chi basa la carriera sul Roland Garros, chi sul cemento, chi sull’erba – sempre meno per la verità. Questo ha aiutato la diffusione planetaria del nostro sport. Si gioca a tennis a latitudini diverse e in modi diversi e le diverse caratteristiche – anche morfologiche – dei giocatori non li escludono dalla possibilità di raggiungere grandi traguardi. Si fissano delle priorità e si concorre. Ma queste priorità dei tennisti mutano, si potrebbe dire, in continuazione.

Così, mentre una volta era un grandissimo risultato vincere il WCT di Dallas adesso in pochi ricordano cosa fosse. Oggi l’Australian Open è uno dei 4 tornei più importanti dell’anno ma com’è noto fino al 1988 praticamente era un torneo di seconda, forse di terza, fascia.

Curiosamente, e nonostante queste altalene che possiamo osservare anche oggi – sembra che i tornei asiatici siano sul punto di decollare, Montecarlo non ha certo il prestigio degli anni passati, alcuni tornei mediorientali diventano sempre più ambiti ecc. – molti ritengono che i “tornei dello slam” siano passati indenni, attraverso gli anni, attraverso queste montagne russe. Ancora più curioso se si considera appunto il caso dell’Australian Open, torneo giocato da nessuno dei grandi tennisti degli anni 70 e di buona parte degli 80. In molti ritengono di poter sviluppare classifiche o più modestamente discutere del valore di giocatori del passato contando il numero di volte che un torneo dello slam è stato vinto. Ne hai vinti pochi? Non devi essere stato granché come giocatore altrimenti ne avresti vinti molti. E davvero i “tornei dello slam” sono stati da sempre e per sempre i più prestigiosi? Davvero i giocatori hanno avuto come priorità di vincere a Melbourne e non a Dallas? Davvero essere il più forte significava insomma vincere degli “slam”?

Cominciamo da quello forse più facilmente discutibile, l’Australian Open. Il motivo del fascino del torneo “down under” è da ricercare nell’idea di un giornalista del Reading Eagle, Alan Goud, poi ripresa da John Kieran del New York Times. Quando Crawford, – un australiano che nel 1933 aveva vinto in finale contro lo statunitense Keith Gledhill i campionati di casa sua – riuscì a vincere di seguito a Parigi e a Wimbledon e arrivò in finale a New York scrissero che l’australiano poteva completare un “Grande Slam”, espressione presa in prestito dal bridge. Questa è storia nota, come è più o meno noto che Crawford andò avanti 2 set a 1 prima di crollare contro Fred Perry e – si dice – al whisky che copiosamente sorseggiava ai cambi di campo. Il nome di Crawford si perse nei polverosi libri di storia del tennis invece che assurgere nei cieli della gloria imperitura. Ma il punto è che il fatto che con “Grande Slam” si intendesse aver vinto i 4 tornei più importanti non era certo detto. Più verosimile l’idea che il giornalista statunitense fosse rimasto impressionato dal giro del mondo dell’australiano. Quali che fossero le reali intenzioni di Kieran, il tennis già allora aveva il problema di definire i propri “major”, cioè quali tornei valessero più degli altri. E vincere a Parigi o a New York era spesso come vincere oggi a Miami o Roma. Ma proviamo a fare un po’ d’ordine.

Il torneo di Wimbledon è stato sempre il torneo più famoso e prestigioso e dal quale non si può prescindere. È uno dei pochi punti certi tra tutti quelli che si occupano di tennis a vario titolo, tifosi compresi. Nel corso della storia a Wimbledon sono stati affiancati diversi altri eventi, che pur senza mai assumere lo stesso valore simbolico del torneo della zona sud ovest di Londra, potrebbero essere considerati quasi alla stessa stregua.
Nel 1913 L’ILTF (International Lawn Tennis Federation) che sarebbe diventata l’attuale ITF (perchè di “lawn” se ne sarebbe vista sempre meno in giro per il mondo) stabilì che i tornei principali (“major”) fossero Wimbledon, ovviamente; il World Hard Court Championships (WHCC) l’antesignano del moderno Roland Garros; e il World Covered Court Championships un torneo al coperto che ebbe sei edizioni in sei città differenti e che si giocava indoor su un parquet.
Per L’ILTF questi tornei erano i “World Championships” ossia, i campionati del mondo; definizione alquanto impropria perché di “campioni del mondo” nel tennis non ce ne sono mai stati e mai ci saranno negli anni a seguire.

I tre major resisteranno fino al 1923, quando la federazione americana – che considerava il suo “US National Championships” un major in pectore – riuscì, a seguito di una riforma piuttosto radicale, a inserire il proprio torneo tra i major dell’ITFL. Cosa prevedeva la riforma?
Dal 1925 il solo Wimbledon avrebbe conservato intatto il proprio prestigio. Il WHCC sarebbe stato sostituito dai “French Championships”, che dopo le Olimpiadi del 1924 accolsero giocatori provenienti da tutto il mondo. Niente più World Covered Court Championships sostituito dagli US Open. A loro tre, si ritenne di affiancare il campionato australiano di tennis (Australian Championships) nato nel 1905. I “major” passavano da 3 a 4, il numero magico che rimarrà imperituro negli anni.

Il termine “Grande Slam” tirato fuori da Kieran, si impone nel 1938. Il talentuoso americano Donald Bugde, per gli amici Don, aveva ricalcato le orme di Crawford vincendo in Australia, Francia e Wimbledon e arrivando a Forest Hills da superfavorito. Al contrario dell’australiano, Don rimase sobrio e non si fece scappare l’occasione. Vinse il torneo newyorkese senza perdere un set ed entrò nella leggenda di questo sport. L’espressione “Grande Slam” entra nell’immaginario collettivo e nessuno da quel momento in poi chiamerà più i 4 tornei più importanti del mondo “major”, ma semplicemente “Slam”. Il “Grande Slam” diventa presto l’ossessione di tutti i tennisti che, per entrare nella leggenda, dovranno necessariamente ripetere l’impresa di Budge del 1938.

Ma accanto a queste vicende per così dire “istituzionali” altre facevano sentire il tintinnio delle monete sulle racchette dei tennisti. Sul finire degli anni venti, quasi in sordina, si era creato uno scisma che dividerà il mondo del tennis fino al 1968 e per certi versi si prolungherà fino alla fine degli anni ’80. I migliori tennisti, che fino a quel momento non avevano ricevuto nessun compenso (ufficiale…) in denaro, essendo dei dilettanti, cominciarono a giocare dei tornei (in realtà delle semplici esibizioni) in cui era previsto un, seppur piccolo, compenso in denaro. La Federazione Internazionale ostracizzò questo fenomeno tanto da impedire ai tennisti – che videro crescere i loro compensi fino a diventare nel frattempo dei professionisti – di giocare i tornei “amatoriali” tra cui i sacri tornei del Grande Slam. Si venne a creare un gigantesco paradosso: i migliori tennisti del mondo non potevano partecipare ai migliori tornei del circuito.
Il primo grande giocatore a risentire di questa scissione fu “Big” Bill, all’anagrafe William Tatem Tilden II. Il campione americano preferì passare al professionismo nel 1931, e insieme a Karel Kozeluh cominciò a girare gli Stati Uniti esibendosi in singole partite per tutto il paese, non partecipando più ai tornei del Grande Slam. Ma almeno fino al 1939 erano proprio i tornei dello Slam ad avere maggiore prestigio e pubblico, rispetto ai “pro tour” in cui si cimentavano i tennisti professionisti! Il conflitto tra i due circuiti venne bruscamente risolto dallo scoppio di un conflitto ben più serio che impedì l’organizzazione sia dei tornei professionistici che di quelli amatoriali, tranne qualche sporadica eccezione negli USA.
Quando finì la guerra e tutto tornò alla normalità la forbice tra professionisti e dilettanti si allargò sempre di più. I tornei dello Slam rimanevano i più prestigiosi del mondo ma la mancanza dei migliori non li rendeva di certo i più difficili da vincere. Altri tornei, seppure avessero un numero molto inferiore di partecipanti, un numero minore di spettatori e molto meno appeal mediatico in generale, erano enormemente più competitivi e vedevano ai nastri di partenza i migliori giocatori del mondo. Vincere uno Slam era tutto sommato impresa non troppo impegnativa e il Grande Slam di Laver del 1962 sarà anche stato un grande risultato ma ottenuto in una specie di deserto, tant’è che l’anno successivo, passato professionista, Laver subì cocenti sconfitte in serie. Si dovette aspettare il 1968 e l’apertura del solito Wimbledon ai professionisti per rimettere a posto le cose. Da allora comincia un’altra storia. Che vi racconteremo presto.

Andrea Li Veli

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