Editoriali del Direttore
Murray supera Berdych nella semifinale tra due personaggi poco personaggi

Andy Murray sfrutterà ancora l’assenza di Rafa Nadal e Roger Federer? Intanto ha messo k.o. Tomas Berdych. Lo scozzese non è più quello del 2104. La schiena non gli fa più male. “Sono contento per Amelie Mauresmo” dice dopo che il… meno Fab dei Fab batte Tomas Berdych, il Brutto Anatroccolo dei Top-Ten
Andy Murray giocherà la quarta finale all’Australian Open e si augura certamente di non fare la stessa brutta fine che fece nelle prime tre. Perse le prime due in malo modo, una da Federer e una da Djokovic nel bienno 2010-2011, prima di riuscire nel 2013 a strappare finalmente almeno un set a Djokovic nella terza. Ma dopo le prime due nette sconfitte in finale nel Regno Unito, invece di celebrare il suo bel torneo, la stampa britannica quasi lo affossò dandogli del grande perdente. Erano arrivati a dire che lui, troppo cocco di mamma Judy, era apatico. Quando se c’è uno che lotta, che corre, che rema, è proprio lui. Semmai qualche volta è giusto rimproverargli di non essere abbastanza aggressivo, di non prendere abbastanza rischi, di aspettare troppo l’errore altrui, ma io quando vidi Andy una delle prime volte proprio qui in Australia impegnare fino al quinto set Rafa Nadal, trovai e scrissi che aveva un grandissimo talento, una grande capacità di variare il ritmo – che è poi stata anche stasera l’arma che gli ha consentito di battere un Berdych che invece è troppo monocorde, ha solo il piano A e non quello B – e gli predissi un grande futuro. Che Andy ha certo avuto, se si considerano gli ultimi due anni, quello in cui ha vinto l’oro Olimpico a Londra ne 2012 nel Wimbledon “impuro” e poi un Us Open, fino al trionfo del 2013 nei Chanpionships che erano sfuggiti ai sudditi di sua Maestà Britannica addirittura dai tempi di Fred Perry che aveva fatto il tris consecutivo fra il 1934 e il 1936.Poi c’è stato un anno, il 2014, interlocutorio perchè lo scozzese che si era operato alla schiena a fine 2013, ha avuto neccessità di recuperare dall’infortunio e non è stato più quello di prima.
Ma ora sembra di nuovo lui, stasera avrebbe potuto vincere anche il primo set, è stato un tantino sfortunato quando ha rotto le corde nel tiebreak quando era in vantaggio per 3-2 e di un minibreak – al giorno d’oggi nessuno rompe più le racchette, un po’ perchè non sono più di solo budello ma hanno anche filamente sintetici – un po’ perchè i giocatori le cambiano quasi tutti come innovò Ivan Lendl, ad ogni cambio di campo. Restituito il minibreak di vantaggio, Murray si è un po’ disunito e Berdcyh ha indovinato un po’ di quei drittone poderosi che gli avevano consenttio in passato di vincere 6 delle dieci sfide con lo scozzese di Dunblane, incluse le ultime due. Ma colui che accusavano di essere “apallico” invece ha dimostrato grande forza di reazione e nel secondo set, dopo che il primo aveva richiesto ben 7-6 minuti, in mezzoretta scarsa ha inflitto un pesante 6-0 al ceco. Seguito, come avrete letto dalla cronaca di Angelo Lo Conte, da un 6-3 e un 7-5 senza moltissima storia. “Avrei dovuto vincere il primo set, ma sono contento per come ho reagito dopo, ho cambiato gioco”.
Ora a parte il fatto che qualcuno ritiene che la semifinale di domani fra il campione di quattro Australian pen Novak Djokovic e il campione uscente sia la vera finale del torneo, io anche se non dissento completamente faccio presente – al di là della cabala: ogni volta che Federer e Nadal non hanno raggiunto le semifinali di uno Slam quel torneo lo ha vinto Murray e non Djokovic, che pure era sempre diventato il favorito n.1 dopo la eliminazione degli altri due componenti dei Fab Four – che Murray ha vinto in carriera molto più di quanto abbia vinto Stan the Man Wawrinka. Se, insomma, fosse lo svizzero a vincere la seconda semifinale, come gli accadde un anno fa dopo quel memorabile 9-7 al quinto che rovesciò il 10-12 al quinto dell’anno precedente, io scommetterei qualche penny sulla prima vittoria australiana di Andy. Ciò anche se Wawrinka contro Nishikori mi abbia davvero impressionato. Più maturo, più solido, pià convinto delle proprie chances, Wawrinka sa di poter vincere di nuovo contro Djokovci anche se ci ha perso 18 volte su 21.
Il fatto è che Murray rispetto agli altri tre dei Fab Four viene giustamente considerato un gradino più sotto, come Ringo Star insomma al cospetto di Lennon, McCartney e Harrison. Allo stesso modo il suo avversario di stasera, Tomas Berdych, pur essendo un top-ten da 5 anni, non ha mostrato la stessa personalità di alcuni di quei giocatoro che come lui fanno parte della seconda pattuglia dei top-ten: Tsonga, Monfils (quando ne ha fatto parte), Dimitrov, si sono mostrati troppo più personaggi di lui (e di un altro bravo ragazzo che “dice poco” come David Ferrer). Murray parla sempre a voce bassa, raramente fa dichiarazioni eclatanti, tiene quasi sempre un low-profile, anche se non gli mancherebbe il sense of humour – con la mamma che ha sarebbe impossibile non averlo – e negli spogliatoi gode invece fama di un burlone. Anche Berdych è…il brutto anatroccolo (seppur decisamene un bel ragazzo) dei top-ten di retrovia. Spesso ha dato in passato un po’ una falsa immagine di se stesso. La sua personalità emerge di più quando nessuno lo vede e lui twitta, davanti al suo Ipad, con raro sense of humour. Ma se ci parli in una conferenza stampa sembra imbranato, ripete quasi sempre cose banali, ha anche quell’inglese parlato da ceco – come una volta Ivan Lendl – che non aiuta a renderlo simpatico o divertente. Ha sempre fatto di tutto per nascondersi, fino a che non ha trovato prima uno sponsor che gli ha fatto indossare le mises più improbabili, accozzando colori che non stavano bene gli uni con gli altri, ma che però gli hanno dato quel tocco di eccentricità che decisamente gli mancava: il tutto però senza renderlo elegante…elegante semmai è il suo gioco, stilisticamente perfetto.
Anche la precedente girlfriend di Tomas, Lucie Safarova con quegli occhi tondi e un po’ ipertiroidei come due uova al tegamino “sunny side up”, non era il massimo della brillantezza. I due sembravano una coppia un po’ stanca, un po’ triste. Difatti si divertivano così poco che dopo tanti anni si sono finalmente separati. Insomma questi semifinalisti avversari di oggi avevano – hanno in comune – un’apparente introversione, forse una certa timidezza, e sembrano entrambi portati all’understatement. Un’altra cosa in comune però ce l’hanno: hanno fatto capire tuttie e due che questo dovrebbe essere l’anno della loro capitolazione come bachelor: Andy Murray pronto ormai ad impalmare quella ragazza con cui sta da sempre, Kim Sears, 27 anni, anche se i due si erano lasciati qualche tempo fa. E Tomas Bercych che avrebbe già comprato un anello megagalattico a Ester Satorova, ragazza obiettivamente splendida sotto un profilo puramente estetico.
In comune, ma non allo stesso tempo, c’è stato un coach, Dani Valverdu, il venezuelano prima allenatore di Andy Murray, poi adesso di Tomas Berdych. Nei giorni scorsi la stampa inglese non ha parlato e chiesto di altro. Così c’è stato qualche momento di tensione di troppo fra Murray e Berdych, anche uno scambio di parole non proprio gentili, fra lo stesso Dani Valverdu e Amelie Muresmo. “Siete voi giornalisti che domandandoci sempre di Valverdu avete creato questa tensione….- ha detto Murray – “Già lo scorso anno, quando dopo soli 15 giorni nei quali lavoravo con Amelie Mauresmo c’era chi dava la colpa a lei…i media avevano montato una tensione eccessiva. Lei chiaramente non aveva nessuna colpa. E stasera sono molto contento per lei. E’ stata n.1 del mondo, ha grande esperienza ha molto da offrirmi“. Murray è 8 a 15 con Djokovic ma è 8-6 con Wawrinka. Stasera ha detto che non si sente di dire chi preferirebbe affrontare. Secondo me ha detto una bugia.
Cocì come una piccola bugia ha detto Maria Sharapova in russo al mio amico slovacco Andrej Bucko che gli ha chiesto se lei, dopo aver perso le ultime 15 partite consecutive con Serena Williams – la sue due sole vittorie su 18 duelli risalgono al 2004 quando Maria non ancora diciottenne sorprese la superfavorita Serena Williams nella finale di Wimbledon e poi a novembre seppe ripetersi a Los Angeles al Masters di fine stagione, quando ancora papa Yuri non la mollava un istante – non si sentisse ispirata da quanto era accaduto a Tomas Berdcyh, capace di battere Rafa Nadal dopo 17 sconfitte consecutive: “No – gli ha risposto Maria – io non penso che prima o poi debba succedere come a Tomas con Rafa, penso che scenderò in campo pensando che partiamo da 0-0 e che le altre partite che abbiamo giocato in questi 10 anni non contano nulla. Si ricomincia sempre da campo nel tennis” ha detto la n.2 del mondo che anche se vincesse resterebbe comunque alle spalle di Serena, ma a solo 167 punti di distacco, una quisquilia.
Se Maria vincesse l’Australian Open sarebbe la quinta tennista a vincere questo Open australiano dopo aver annullato matchpoint nel corso del torneo – due consecutivi ne ha salvati contro la connazionale Panova – dopo Monica Seles nel ’91, Jennifer Capriati nel 2002, Serena Williams nel 2003 e nel 2005, e Li Na lo scorso anno (cn la Safarova). Serena ha vinto con Madison Keys ma potrebbe anche essere l’ultima volta. Questa ragazzina ci sa davvero fare. L’ha dimostrato lungo tutto il torneo ma anche oggi, sia nel primo set perso 76 – con 4 aces nel tiebreak, due per ciascuna tennista – sia nel secondo quando ha continuato a lottare pur essendo sotto 5-1 fino ad annullare una caterva di matchpoint, mi pare sette in quel game interminabile che è stato anche il più emozionante dell’intera partita. Curioso semmai che nonostante quello – durato dieci minuti – la Sharapova e la Makarova nel derby russo vinto da Maria 6-3 6-2 siano state in campo 1h e 27 m, mentre il match fra Serena e Madison che ha avuto anche un tiebreak è durato 3 minuti di meno, 1 h e 24 minuti. Le russe hanno scambiato di più. La Makarova con il suo tennis mancino ha lottato più di quanto non dica il punteggio e alla seconda semifinale consecutiva merita di essere oggi la nuova n.9 del mondo. Semmai è la Kerber n.10 che non mi semrba rispettare il suo valore attuale, considerando che Venus Williams è 11, Sara Errani 13 e Flava pennetta 14, in attesa che Camila Giorgi salga presto più del 30mo posto che le garantirebbe un posto fra le teste di serie nel prossimo Slam.
Non mi sorprenderebbe che Djokovic-Wawrinka fosse anche quest’anno il più bel match del torneo, ma a volte quando c’è tanta attesa…poi le cose non vanno come si vorrebbe. E’ curioso però che il loro primo incontro sia stato qui quando entrambi, nel 2005, si scontrarono al secondo turno delle qualificazioni. Certamente nessuno dei due avrebbe mai immaginato allora di ritrovarsi di fronte in una semifinale di quello stesso Slam dieci anni dopo.
Editoriali del Direttore
È morto Roberto Mazzanti, per 20 anni direttore di Matchball, la Bibbia dei veri appassionati di tennis
Tennis e giornalismo i suoi grandi amori. Sotto la sua guida saggia ed equilibrata hanno lavorato Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, Viviano Vespignani, un giovanissimo Scanagatta. un imberbe Stefano Semeraro, il boy Luca Marianantoni e tanti altri. Era impossibile litigarci

Aveva 82 anni, era stato colpito da un malore a gennaio. Purtroppo non si più ripreso Roberto Mazzanti, uno dei pochi, pochissimi giornalisti davvero signori, con i quali era impossibile litigare. Un uomo per bene. E non lo scrivo perchè ci ha lasciato, ma perchè è vero. E lo può dire e confermare chiunque lo abbia conosciuto.
Roberto era stato negli anni Settanta il direttore di Matchball (in edicola dal 1970 al 1996), la seconda rivista di tennis – dopo “Tennis Club” diretta da Rino Tommasi – per la quale poco più che ventenne avevo cominciato a collaborare, spinto dalla mia inesauribile passione per il tennis e per il giornalismo, gli stessi due grandi amori di Roberto. Per lui, come per me, era una passione romantica, senza mai l’ambizione di arricchirsi, ad alimentare quei due eterni amori.
Lui, bolognese, era cresciuto all’interno del Resto del Carlino dove era stato assunto inizialmente come correttore di bozze. Infatti, diventato poi redattore professionista del quotidiano bolognese, dividendosi fra le pagine della cronaca cittadina come dello sport – come sarebbe successo anche a chi scrive – non avrebbe mai sopportato i refusi.
Non l’ho mai visto arrabbiato, mai perdere il controllo, mai alzare la voce. Un gentiluomo con aplomb british, mascherato da un moderato accento emiliano. Adorava guardare il tennis, non solo quello dei grandi – venne anche a vedermi giocare la finale di doppio dei campionati italiani di Seconda Categoria al Circolo Tennis Giardini Margherita, lui che frequentava la Virtus del presidente (anche FIT) Giorgio Neri – ma gli piaceva anche giocarlo. E lo ha fatto da dilettante fino a tempi anche recenti, sebbene avesse scoperto anche il golf e, negli anni, gli fosse venuta anche la passione per le automobili, la tecnologia, il loro evolversi.
Lavoravamo per lo stesso gruppo editoriale, la Poligrafici, ma io – più giovane e scapolo mentre lui era sposato – ero più disponibile a sacrificare ferie e vacanze (a caccia di ospitalità o alberghi a due stelle) per andare a seguire il tennis nel maggior numero possibile di tornei.
Quindi per Nazione e “Carlino” accadeva che lui mi lasciasse il passo per gli Slam e che io lo lasciassi a lui per la Coppa Davis …che allora era una cosa seria, ma si esauriva in alcuni long-weekend e che potevano essere anche 5, 6 o 7 in un anno se l’Italia andava in finale come accadde per quattro anni su cinque fra il ’76 e l’80. Accadde anche che con quei ripetuti exploit dei nostri 4 moschettieri azzurri io mi ritrovassi a seguire insieme a Roberto anche quegli eventi a squadre.
Non esisteva Internet, né la composizione digital-elettronica e Matchball optò, anche per contrapporsi a “Il Tennis Italiano” che era un mensile, una cadenza quattordicinale. Usciva in edicole (sì, esistevano ancora…) ogni due martedì e sotto la guida di Roberto scrivevamo i nostri articoli Roberto, Rino Tommasi, Vittorio Piccioli, il sottoscritto, Paolo Francia, Viviano Vespignani e (diversi anni dopo) si sarebbe aggiunto, fra i tanti, anche Luca Marianantoni con tutti i numeri che si portava appresso. In redazione due giovani di belle speranze, Stefano Semeraro e Enrico Schiavina., Al lunedì mattina Matchball doveva essere “chiuso” in tipografia. La domenica sera…si finiva per scrivere editoriali, pagelle, statistiche, a notte inoltrata. Sempre facendo le corse, perché magari le partite, ai più diversi fusi orari, finivano tardissimo e la copertura era massiccia. Per merito di tutto il team Matchball diventò ben presto la rivista leader e tale restò fino a che l’avvento di Internet, delle notizie on line, delle coperture televisive di più network, fece strage di gran parte delle riviste cartacee, impossibilitate a reggere la concorrenza sul piano della tempestività dell’informazione.
Roberto, giornalista elegante ed equilibrato, prediligeva i tennisti dal bel braccio, McEnroe, Panatta, Bertolucci (e più recentemente inevitabilmente Federer), Rino era prima innamorato di Rosewall e poi di Edberg, io stravedevo per l’arte e l’imprevedibilità di Nastase, per la grinta e i limiti tecnici di Connors oltre che per Boris Becker (per far da contraltare a Rino), quando sarebbe arrivato Luca avremmo annoverato nel team di Matchball anche un grande fan di Lendl.
Vabbè, vedete, anche adesso che Roberto ci ha improvvisamente lasciato affiorano nella mia mente tanti ricordi, tanti amichevoli dibattiti e lui che, con fare quasi ecumenico, mi diceva: “Dai Ubaldo scrivi le tue pagelle, falle un po’ tecniche, un po’ironiche, senza infierire mai troppo…anche se lo sappiamo tutti che se devi scrivere di promossi e bocciati, ai lettori piaceranno sempre più i voti bassi che quelli alti, quelli più critici che quelli pieni di elogi. Il mondo va così” diceva chiaramente dispiacendosene. E a quei tempi non esistevano ancora i leoni da tastiera, gli “webeti”. Che la terra ti sia lieve caro amico. E che tua moglie Anna, tuo figlio Luca, la tua nipotina adorata, sopportino con forza e coraggio il vuoto che lasci a loro e a tutti quelli che ti hanno stimato e voluto bene.
Australian Open
Australian Open: Il fenomeno Djokovic è di un altro pianeta. Tsitsipas non poteva fare di più. Non è la parola fine sul GOAT
I fenomeni non sono stati solo tre, Djokovic, Federer e Nadal. Perché se si dà peso primario ai titoli Slam, Rosewall e Laver non possono essere ignorati. E perchè un solo anno, e non sempre, laurea il vero n.1

Il resto del video, che qui potete vedere in anteprima, è disponibile sul sito di Intesa Sanpaolo, partner di Ubitennis.
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Non ho mai pensato che potesse finire diversamente. L’unico momento di dubbio l’ho avuto – insieme a Djokovic – quando entrambi abbiamo temuto che il suo problema alla coscia fosse un problema serio.
Così come gli altri due fenomeni, Federer e Nadal (elencati, a scanso equivoci, in ordine alfabetico), Novak Djokovic è di un altro pianeta rispetto a tutti gli altri contendenti. Come fenomeni sono stati nello sport più popolare – se cito soltanto i fenomeni del calcio, anziché altre discipline sportive, è perché è più facile che quasi tutti capiscano di che cosa parlo – Pelè a cavallo degli anni 60/70, Maradona un ventennio dopo, Messi e Cristiano Ronaldo nel terzo millennio.
Djokovic, Federer e Nadal (ancora in ordine alfabetico) hanno lasciato le briciole a tutti gli altri tennisti loro contemporanei. E l’hanno fatto con una continuità spaventosa, in un arco temporale inimmaginabile che ha spaziato fra i 15 e i 20 anni. Davvero incredibile.
Mentre i campioni Slam del passato una volta superati i 30 anni difficilmente riuscivano a restare competitivi per più anni,– salvo rarissime eccezioni: Rosewall, Connors, Agassi su tutti – mentre qualche straordinario campione come Borg o McEnroe ha smesso di giocare o di vincere già a 26 anni – questi tre hanno continuato a dominare il resto della concorrenza come se fosse la cosa più normale del mondo. E tutti a sorprendersi, a meravigliarsi con infinito stupore quando ciò, a uno dei tre, ma mai a tutti e tre insieme, non succedeva.
Nel conquistare il meritato appellativo di “fenomeni” i tre supercampioni non si sono limitati a registrare un record dopo l’altro pur dovendosi affrontare fra le 50 e le 60 volte in pazzeschi testa a testa, dopo essersi inseguiti come i celebri duellanti di Conrad ai tempi di Napoleone ai 5 angoli/continenti del mondo sulle più varie superfici. Ma tutti e tre hanno dato dimostrazione di formidabili e superiori doti tecniche, atletiche, caratteriali, intellettuali, morali, umane. Ho forse dimenticato un qualche aspetto?
A trovar loro un vero difetto, come campioni e come uomini, personalmente ho sempre fatto fatica. Anche perché li ho conosciuti tutti da vicino e fin da quando hanno cominciato a cogliere i loro primi stupefacenti successi, quasi imberbi, a 16 e 17 anni. Quando anche un “parvenu” del tennis avrebbe intravisto le loro eccezionali qualità. Personalità intelligenza, simpatia, resilienza, determinazione, avevano tutto fin da subito. Le si potevano scorgere a occhio nudo, senza farsi condizionare dalla semplice precocità.
Forse proprio Djokovic, il più giovane dei tre e colui che sembra destinato a restare sulla breccia più a lungo degli altri, è quello – anche per le sue posizioni NOVAX (peraltro coerenti al massimo, diversamente da chi ha presentato certificati falsi assolutamente imperdonabili) – che ha sollevato più casi controversi. Talvolta nemmeno interamente per sue responsabilità. Il background della sua famiglia, l’educazione, lo stile di vita, sono stati diversi da quelli di Federer e Nadal.
Eppoi lui è arrivato dopo di loro, quasi un intruso, in un mondo che tennisticamente si era diviso all’80% fra federeriani e nadaliani. Per conquistarsi un posto, ha dovuto farsi spazio fra loro, impossessandosi di quel 20% che era rimasto ai neutrali. E dovendo giocare dappertutto con folle di tifosi più ostili che amiche. In patria è diventato un simbolo, un eroe, un semiDio. Fuori no. E’ stata dura, molto più dura che per gli altri due fenomeni conquistarsi un suo pubblico, un suo status internazionale. Lo ha potuto fare nel solo modo che lo sport consente: i risultati. Risultati assolutamente straordinari. Pian piano ha battuto i suoi leggendari rivali più volte di quanto di avesse perso. Pian piano ha autorizzato i suoi estimatori a inserirlo nell’eterno dibattito sul GOAT, sul più forte giocatore di tutti i tempi.
Non si metteranno mai d’accordo i tifosi dei tre fenomeni. Tutti avranno buoni motivi per sponsorizzare il loro fenomeno d’elezione. Chi privilegerà un’epoca ad un’altra, una strong era a una weak era (e qualche vuoto pneumatico al top dei competitor c’è stato per tutti e tre), chi lo stile e l’eleganza, chi la forza e la garra, chi la completezza, chi una superficie o un’altra. E qualunque conclusione verrà raggiunta sarà sempre ingiusta. Anche perché se in uno stesso anno possono cambiare in maniera pazzesca le cose – pensate solo al 2016 con i primi 6 mesi di Djokovic e i secondi 6 mesi di Murray – e figurarsi da un anno all’altro – pensate al 2017 e ai 4 Slam divisi fra i “risorti” Federer e Nadal che molti avevano già dati per finiti – se si dovessero confrontare pacchetti di più anni, in cui sono magari cambiate le attrezzature, le superfici, ogni paragone fra epoche diverse condurrebbe a emettere verdetti assolutamente discutibili, comunque superficiali.
Oggi, e chiudo questo lunga premessa, i fan di Djokovic ebbri di gioia per i 22 Slam che hanno consentito a Nole di eguagliare i 22 di Rafa Nadal e di “staccare” definitivamente i 20 di Federer sembrano aver buon gioco a sostenere che chi vincerà più Slam a fine carriera potrà tappare la bocca a tutti gi altri pretendenti al GOAT.
Ma non è così. Ken Rosewall, cui abbiamo dedicato un bell’articolo in questi giorni, ha vinto 8 Slam ma ne ha dovuti saltare – perché professionista per 11 anni – ben 44. E Rod Laver, unico campione ad aver realizzato due volte il Grande Slam (1962 e 1969, a sette anni di distanza, i suoi migliori 7 anni…), ha vinto 11 Slam dovendo saltare 20 Slam fra il 1963 e il 1967. Non potevano essere loro i GOAT? I fenomeni del tennis non sono stati solo tre.
Quelle ultime due lettere, A e T, stanno per ALL TIME. Se allora ALL TIME, per i motivi su esposti, non si può dire, limitiamoci allora a dire chi sia stato il miglior tennista del mondo anno per anno. E solo in quel caso è più probabile che non ci si sbagli, anche se – ripetendo l’esempio fatto poc’anzi – se si prende in esame un anno come il 2016 nel quale Novak domina i rimi sei mesi, Andy Murray i secondi sei, e il computer ATP assegna il numero uno year-ending a Murray perché vince la finale del Masters…beh anche in quel caso siamo così sicuri che il verdetto fosse così inequivocabile, inappellabile? Una sola partita può decidere chi sia il miglior tennista di tutto l’anno, solo perché lo dice un computer che – cito per l’ennesima volta Rino Tommasi – “sa far di conto, ma il tennis non lo capisce?”.
Vabbè, torno sulla finale e sulla superiorità disarmante di Djokovic perfino al termine di un match non immune da pecche, da errori evitabili, da nervosismi quasi inesplicabili come quello che lo ha colto a metà del secondo set quando avrebbe potuto continuare a gestire tranquillamente il match come aveva fatto fino ad allora.
Tsitsipas non poteva far molto di più, salvo che – nel tiebreak del secondo set – evitare quei quattro errori di dritto, il suo colpo migliore andato improvvisamente…in barca.
Ma Djokovic, che è indiscutibilmente da anni il miglior ribattitore del mondo – e qui, su questo giudizio, credo possano essere d’accordo perfino i tifosi di Federer e Nadal – era stato ingiocabile sui propri servizi. Fino a quel game in cui Tsitsipas è riuscito – sul 4-5 del secondo set- a conquistarsi contemporaneamente sia la prima palla break che l’unico setpoint Djokovic, aveva lasciato al più temibile dei suoi avversari la miseria di sei punti nel primo set in cinque turni di battuta (la sola volta che Stefanos era arrivato a 30 però Novak era avanti già 3-1 e 40-0) e nel secondo set 5 punti nei quattro turni di servizio. Mai Tsitsipas era ancora arrivato a 40.
Ok? Bene: c’è arrivato in quel frangente e sulla pallabreak-setpoint che fa Djokovic? Prima di servizio e dritto vincente.
Poi un tiebreak giocato maluccio da entrambi, perché sul 4-1 per Nole frutto di tre minibreak seguiti a 3 inattesi errori di dritto di Tsitsipas Nole ha prima regalato un insolito rovescio per lui banalissimo e poi ha fatto anche il secondo doppio fallo del suo match. Ma sul 4 pari ecco di nuovo Tsitsipas, evidentemente teso come una corda di violino, sbagliare un quarto dritto! Djokovic non se l’è fatto dire due volte e dal 4 pari al 7-4 è stato un gioco da ragazzi.
Qualcuno poteva illudersi che dopo il toilette break e l’unico servizio perso da Nole all’inizio del terzo set le cose potessero cambiare? Forse neppure l’irriducibile Tsitsipas.
Dal 2 a 2 in poi Djokovic – che ribadisco essere il miglior ribattitore del mondo – tiene per 4 volte consecutive il servizio a zero: 17 punti di fila (contando l’ultimo che gli aveva dato il 2-1 in un game vinto a 15). Cui seguiranno gli altri primi tre del tiebreak che decide l’ultimo tiebreak in cui, giusto per non illudere Tsitsi e le migliaia di fan greci che non smettevano di gridare “Tsitsipas, Tsitsipas” – mentre fuori dal centrale la stragrande maggioranza nel garden davanti al mega schermo era invece serba (mica facile procurarsi i biglietti…) – Djokovic sale sul 5-0, subisce dopo 20 punti conquistati con il servizio un mini-break, ma poco dopo chiude con un dritto vincente sul terzo matchpoint.
Sì, mi scuso, ho riscritto una cronaca che Cipriano Colonna aveva già scritto brillantemente chiudendola su Ubitennis nei 5 minuti successivi alla conclusione, ma solo per sottolineare come oggi perfino un Djokovic che ha giocato senza fare troppe cose straordinarie, è stato assolutamente ingiocabile in 12 turni di servizio su 14 (salvo che sul 4-5 e sul primo gae del terzo set) ed è sempre stato fortissimo – sì, proprio come sempre – quando doveva rispondere.
I suoi record li abbiamo già ricordati dappertutto. Non credo serva scriverli ancora, prima di cominciare a pensare a che cosa potrà accadere nel regno di Nadal al Roland Garros. Novak ha perso un solo set nel torneo, ma perché con Couacaud al secondo turno gli faceva male la coscia sinistra. Però se fossi stato a Melbourne tutti i suoi dieci trionfi, i 22, i 93, le 374 settimane da n.1 (verso le 377 di Steffi Graf) magari avrei trovato un modo per ricordarglieli in conferenza stampa.
Qua dico soltanto….davvero not too bad! carissimo fenomeno Djokodiecivic.
Australian Open
Australian Open: Sabalenka sugli scudi. Ha vinto il miglior servizio o il miglior dritto? E l’assenza di inno e bandiere bielorusse ha senso?
Hanno vinto…gli studi biomeccanici della regina 2022 dei doppi falli. Ma fra dritto e rovescio, quale è il colpo da fondo di solito più decisivo? Il duello Djokovic-Tsitsipas suggerisce una risposta sbagliata

La nuova campionessa dell’Australian Open, Aryna Sabalenka, è una ragazza che l’anno scorso aveva vinto…la classifica di chi aveva fatto più doppi falli fra tutte le prime 100 tenniste della WTA.
Roba da far arrossire Sascha Zverev. Aryna, che diventa la seconda bielorussa a vincere uno Slam in Australia dieci anni dopo Vika Azarenka, di doppi falli ne aveva commessi ben 427 nel 2022, a una media di 8 a match. Ma lo scorso anno, durante lo US Open, subito dopo aver perso dalla Swiatek, lei che ama farsi chiamare “Tigre” –e che si è fatta fare un tatuaggio di una tigre sull’avambraccio sinistro “perché mi deve ricordare di lottare sempre come una tigre…”- aveva deciso di mettersi a studiare la tecnica della sua battuta con uno specialista di biomeccanica, con due obiettivi: 1) ritrovare percentuali migliori sulle prime palle di servizio 2) servire seconde palle meno aleatorie.
Prima della finale il coach della Rybakina Stefano Vukov aveva dato l’aria di mettere le mani avanti, quasi anche a voler mettere maggior pressione su Aryna: “Il risultato dipenderà da chi servirà meglio”.
E quello della Sabalenka, Anton Dubrov: “Vincerà chi saprà controllare meglio le proprie emozioni”. Anche questo, per la verità, sembrava più un messaggio rivolto alla sua “assistita” piuttosto che a Elena Rybakova, ragazza piuttosto introversa che sembra spesso anche fin troppo in controllo dei suoi nervi. Almeno all’apparenza, perché oggi l’ho vista spesso parlare con se stessa dopo alcuni errori.
Beh, in questa finale vinta 4-6,6-3,6-4, Aryna ha perso il primo set della finale e il primo dell’anno, ma dopo è riuscita abbastanza bene a controllare le proprie emozioni fino a quando – a seguito dell’ennesimo dritto lungo della Rybakina (decisamente il colpo più incerto della kazaka) sul suo quarto matchpoint e dopo che sul primo aveva commesso un doppio fallo – si è lasciata andare lungo distesa sul campo centrale della Rod Laver Arena coprendosi il volto e piangendo come un vitellino, con tutto il petto percorso da sussulti irrefrenabili.
Direi che lo studio ha pagato – soprattutto in percentuale di prime palle, il 65% contro la Rybakina che si è fermata al 59%; la seconda palla invece secondo me necessità di studi ulteriori: è troppo piatta, c’è poco lift – perché durante tutto l’Australian Open di doppi falli Iryna ne ha fatti “soltanto” 29 in 7 partite. Quindi è scesa a 4 di media a match.
Vero, però, che le prime sei Aryna le ha vinte tutte in due set e sempre perdendo pochi game, così come aveva vinto in due set tutte le partite giocate al torneo di Adelaide. Oggi che la partita è durata 2h e 29 minuti per 3 set, i doppi falli sono stati 7, non pochissimi, però sono stati bilanciati da 17 ace (mentre la Rybakina ne ha fatti 9 e un solo doppio fallo: insomma la forbice dice +10 per gli ace a favore della ragazza bielorussa, + 6 a favore per i doppi falli a favore della kazaka) e poi non so dirvi quanti siano stati i servizi immediatamente vincenti, ma in quelle 70 volte in cui ha messo direttamente la prima ha fatto 50 punti. Sospetto che i servizi vincenti che siano stati parecchi.
Quindi il servizio ha svolto un ruolo importante in un match caratterizzato da pochi break, cinque in tutto in 29 game, come vediamo di solito accadere più in un match di uomini piuttosto che di donne.
D’altra parte le due ragazze finaliste hanno un fisico non così comune per il tennis femminile: un metro e 84 centimetri la Rybakina, un metro e 82 la Sabalenka che ha anche due spalle e una potenza che non tanti tennisti di sesso maschili possono vantare e disporre.
I servizi della Sabalenka sfiorano i 200 km orari e fanno male. Se un numero sufficiente di battute le sta dentro, strapparle il servizio è tutt’altro che semplice. Infatti la Rybakina c’è riuscita solo due volte pur essendosi procurata 7 pallebreak, entrambe nel primo set. E poi più.
Con le sue possenti, fracassanti risposte, invece la Sabalenka di palle break ne ha conquistate 13 e dopo l’inutile break del primo set per risalire dal 2-4 al 4 pari, un break a set nei due set successivi le sono bastati per vincere il match e conquistare il suo primo Slam alla sua prima finale e dopo tre stop in tre precedenti semifinali Slam.
Di solito, se fra due giocatrici di simile livello (ma vale forse ancor più per i giocatori) una ha un grandissimo dritto e l’altra ha un grandissimo rovescio, dai tempi di Steffi Graf (anche se Chris Evert potrebbe aver argomenti validi per obiettare), vince quella con il miglior dritto.
Il dritto, in genere, procura più punti. Tant’è che salvo poche eccezioni se a un tennista si offre una palla a mezza altezza e a metà campo, è più normale che il tennista giri attorno alla palla per schiaffeggiarla con il dritto piuttosto che con il rovescio. Il dritto è un colpo più dirompente. E’ più normale schiacciarlo dando anche una spallata. Ma su questa tesi sono più che aperto ad aprire un fronte di discussione e contradditorio…
Ora ci sarà chi, alla vigilia della finale maschile fra Djokovic e Tsitsipas mi obietterà che Djokovic è il favorito anche se il greco ha il miglior dritto e il serbo il miglior rovescio, ma io a mia volta potrò controbattere che Nole fa comunque di solito più punti vincenti con il dritto che con il rovescio. Vedremo domani (ore 9,30 su Discovery-plus).
Intanto chiudo il discorso sulla finale femminile osservando che la bielorussa Sabalenka non ha potuto godere né dell’inno nazionale a celebrare il suo trionfo, né della bandiera bielorussia sul tabellone e sul palmares dell’Australian Open accanto al suo nome. Magari fra qualche anno ricomparirà al posto di una bandiera bianca. E chissà poi che cosa deciderà Wimbledon quest’anno. Molti auspicano un ripensamento. Non i tennisti ucraini. La Kostyuk, sconfitta in semifinale nel doppio femminile, ha chiesto agli inglesi di non fare marcia indietro.
Io ripenso con piacere a quando l’indiano Bopanna e il pakistano Qureshi si sono messi a giocare il doppio assieme.
Ma fra Russia-Bielorussia e Ucraina la guerra è ancora purtroppo così terribilmente virulenta, orribile oggi perché possano essere dei tennisti i primi a soprassedervi, a non farci caso. Anche se potrebbe essere un gran bel messaggio.
La newsletter Slalom.it di Angelo Carotenuto ha riportato un articolo del Sydney Morning Herald secondo cui “Sopprimendo le loro bandiere (di russi e bielorussi), i dirigenti maldestri offrono solo più fiato al loro vittimismo. Che si tratti di Australia, Parigi, Londra o New York, l’anno scorso ha dimostrato che più bandiere vengono bandite dagli eventi sportivi, maggiore è la sfida che producono. Quanto più il mondo condanna il nazionalismo, tanto più acquistano forza coloro che ci credono. Chiediamolo agli ucraini”
Comunque sia quando hanno chiesto a Aryna Sabalenkaq, nuovamente n.2 del mondo “nel giorno più bello della mia vita” (la Rybakina sarà top-ten, ma sarebbe stata top-five se avesse potuto contare anche i 2.000 punti di Wimbledon 2022) se non le sembrasse strano aver vinto uno Slam senza una sola bandiera bielorussa e neppure una menzione alla bielorussa, lei ha risposto con un sorriso: “Credo che tutto il mondo sappia che sono bielorussa, non vale la pena di aggiungerlo”.