Paralleli: Gaudenzi e Alesi, non di sole vittorie vive un campione

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Paralleli: Gaudenzi e Alesi, non di sole vittorie vive un campione

Nella storia dello sport non sono sempre le vittorie a definire i protagonisti, a volte anche chi ha avuto una carriera da buon tennista o buon pilota, come Andrea Gaudenzi e Jean Alesi, lascia segni indelebili nel cuore degli appassionati, specie se le loro imprese sono state caratterizzate dalla voglia di vincere ad ogni costo

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La storia la scrivono i vincitori, gli altri possono solo stare a guardare”. Così si esprimeva, verso la fine della stagione 2011-12 di Serie A, Antonio Conte, al primo anno sulla panchina della Juventus, per motivare i suoi uomini e centrare l’impresa che di fatto riportò la squadra di Torino al vertice del calcio italiano dopo le vicende di Calciopoli e i deludenti anni successivi. Una frase molto cruda, che non lascia spazio al valore degli sconfitti, ma – forse proprio per questo, perché contempla solo la vittoria – molto motivante. La storia dello sport, d’altra parte, insegna che non sempre per lasciare il segno è necessario vantare un grande palmarès. Insieme ai grandi vincitori, alla Juventus di Conte, a Roger Federer e a Michael Schumacher, hanno saputo farsi spazio anche squadre e atleti che su almanacchi e albi d’oro ci sono finiti ben poche volte, ma che per il loro modo di giocare, correre e combattere sono riusciti comunque a fare breccia nel cuore degli appassionati.

Andrea Gaudenzi, nato a Faenza, Ravenna, il 30 Luglio 1973, aveva mostrato da tennista junior un grande potenziale, con le vittorie nel 1990 agli US Open e al Roland Garros, che gli consegnarono il n.1 ITF della categoria, ma la sua carriera da pro, pur risultando di tutto rispetto (è arrivato fino al n.18 del mondo nel 1995), non è stata molto vincente, con soli tre titoli a Casablanca nel 1998 e a St.Poelten e Bastad nel 2001.
Jean Alesi, nato ad Avignone l’11 Giugno 1964 da genitori di origine siciliana, nel 1987 diventa campione in Formula 3 e due anni dopo si ripete in Formula 3000. Da lì parte la sua carriera in Formula 1, dove ha disputato 202 Gran Premi con diverse scuderie, tra cui la Ferrari, distinguendosi per il grande talento e la guida istintiva e spesso al limite, anche se in tutta la carriera ha vinto un solo Gran Premio.
Due sportivi molto promettenti ma che hanno raccolto meno di quanto ci si potesse aspettare. Nonostante ciò, piacevano molto perché erano il prototipo dello sportivo di talento che arrivava sempre a un passo dall’impresa, ma continuava imperterrito a dare tutto in campo o in pista.

Nella loro carriera, ci sono stati degli appuntamenti che li esaltavano, nei quali davano il meglio: la Coppa Davis per Gaudenzi, il Gran Premio di Monza per Alesi.

Per diversi anni Alesi a Monza sembrava potesse spaccare il mondo, pur con una Ferrari molto meno competitiva di altre macchine come Williams e Benetton. Nel 1993 centrò il secondo posto dietro la Williams di Damon Hill, un piazzamento vissuto da tutti come un trionfo vista la miseria che era abituata a raccogliere la Ferrari dell’epoca (“Per dire quanto fu importante quel piazzamento, la sera stessa mi chiamò l’Avvocato Agnelli”, raccontò poi Jean). L’anno successivo, nello stupore e nell’entusiasmo generali, arrivò la pole position, poi vanificata da un guasto al cambio al momento di ripartire dai box, mentre stava conducendo la gara. Altro GP di grande valore, il terzo posto conquistato in Giappone sotto una pioggia battente, grande alleata del pilota francese perché ne esaltava il talento. Alesi difese con le unghie e coi denti l’ultimo gradino del podio dai ripetuti assalti di Nigel Mansell. Nel 1995, sempre a Monza, la delusione più cocente: a 7 giri dal termine, al comando della gara più amata e a un passo dall’impresa che lui e i tifosi avrebbero oltre modo meritato, il surriscaldamento di un cuscinetto gli negò ancora una volta la gioia più grande. Anche l’anno successivo con un’altra vettura, la Benetton che Schumacher aveva lasciato per la Ferrari, il suo amore così forte col pubblico di Monza – ma mai ricambiato dalla bandiera a scacchi del circuito brianzolo – si rinnovò di un’altra impresa sfortunata: Jean era sesto sulla griglia di partenza, ma con uno scatto prodigioso in pochi secondi si ritrovò in testa alla corsa, prima di lasciare il comando della gara a Schumacher solo nella sosta ai box. Il pubblico ferrarista non poteva non esultare per l’agognata vittoria della rossa nel circuito di casa, ma nemmeno poteva dimenticare il suo eroe sfortunato, salutato da una marea di applausi. Anche nel 1997 Jean fece grandi cose al Gran Premio d’Italia, con la pole position e il secondo posto finale.

L’unica vittoria della carriera di Alesi arrivò attraverso un ruolo che la sua mente non contemplava nemmeno, quello di temporeggiatore. Al GP del Canada di Montreal del ’95, Michael Schumacher e la sua Benetton stavano vestendo i vestiti classici di quegli anni, gli abiti dei dominatori assoluti. Lo stesso francese di Avignone, per quanto ribelle alla legge della macchina più veloce, non aveva armi per insidiare il dominio di un rapidissimo Schumacher, dovendo quindi limitarsi a mantenere un buon secondo posto. Proprio allora avvenne l’imponderabile: a cedere non fu l’altalenante Ferrari di Alesi ma l’affidabile Benetton del tedesco. Un guaio all’elettronica lo costrinse a una sosta di troppo. Jean si ritrovò primo, senza quasi rendersene conto, trionfando poi agevolmente tale era il suo distacco da chi lo inseguiva, la Jordan di Rubens Barrichello. Il festeggiamento sul podio fu per lui sconfinato, particolarmente sentito in Canada, la terra di un grande ferrarista del passato, quel Gilles Villeneuve cui non pochi lo accostarono a inizio carriera per audacia e finezza tecnica.
Per come è poi andata la carriera di Alesi, quella vittoria gli avrebbe dovuto suggerire un atteggiamento più equilibrato in pista, si corre al limite solo quando serve, le vittorie si costruiscono anche con gare da ragionieri… Macchè! Lo stesso Jean, guardandosi indietro, sarebbe il primo a difendere il suo modo di correre: “Io sono Jean Alesi, non occupo l’abitacolo per fare il ragioniere, a me piace il rischio, il sorpasso, lo spettacolo da condividere coi tifosi. Avrei potuto vincere molto di più, è vero, ma io non rinnego niente. Ho corso come ho sempre voluto, tutto il resto sono solo numeri”.

Di Andrea Gaudenzi, più che le tre vittorie nei tornei sopra citati, si ricordano gli ottavi al Roland Garros 1994, sconfitto da Ivanisevic, il best ranking del Febbraio 1995 (n.18 ATP) e il meraviglioso torneo di Montecarlo dello stesso anno, quando battè Petr Korda, Yevgeny Kafelnikov e il vincitore del Roland Garros Sergi Bruguera, prima di cedere in semifinale a Thomas Muster. Dopo le imprese in Davis, dalle semifinali del 1996 e del 1997 alla finale del 1998, Andrea centra l’ultima grande vittoria al Roland Garros del 2002, quando al primo turno estromette Pete Sampras, condannandolo a rinunciare definitivamente al Career Grand Slam, dopo un match interrotto due volte dalla pioggia e per questo protrattosi per più di sei ore. Gaudenzi in Coppa Davis ha scritto pagine memorabili, tra le quali la rimonta da 2 set sotto contro Chesnokov al Foro Italico nell’incontro inaugurale di Italia-Russia ’96, la vittoria contro Wayne Ferreira nel successivo match col Sudafrica e la grande affermazione contro Cedric Pioline a Nantes, nella dolorosissima semifinale persa contro i francesi di Yannick Noah, che si sarebbero poi laureati campioni pochi mesi più tardi a Malmoe contro la Svezia dell’infortunato Edberg.

Anche le loro “squadre” suscitavano simpatia ed entusiasmo. Alesi in Ferrari era affiancato da Gerhard Berger, l’austriaco grande amico di Ayrton Senna che in diversi momenti di carriera aveva mostrato grande classe, pur senza essere un campione tout court. Due buoni piloti che dovevano fare il possibile per tenere a galla una Ferrari modesta, schiacciata da Williams e Benetton. Di più, dovevano riuscire nella titanica impresa di conservare intatta la passione dei tifosi di Formula 1 dopo la tragedia di Senna e il ritiro di Prost e Mansell. Ebbene, ci riuscirono. Non con le vittorie, ma con  la passione, col carattere, con quell’improbabile alleanza franco-austriaca che portò in Ferrari la follia temeraria del latino Alesi e la pragmaticità emotiva del mitteleuropeo Berger. Anche la nazionale azzurra di tennis, ossia la squadra di Coppa Davis, fino al ‘95 non aveva regalato grandi emozioni ai tifosi, ormai da tempo rassegnati a vedere i propri giocatori uscire ai primi turni dai tornei Slam e ATP. Fino a quando Adriano Panatta, il campione degli Anni Settanta, croce e delizia di tifosi e addetti ai lavori coi suoi titoli agli Internazionali d’Italia, al Roland Garros e in Coppa Davis in quel magico 1976, non s’inventò il doppio dei miracoli: affiancare al talentuoso mancino napoletano Diego Nargiso il solido Davisman Andrea Gaudenzi. Un doppio sulla carta molto competitivo, che si rivelò tale anche sul campo, con le fondamentali vittorie contro il doppio russo Kaflenikov-Olhovskiy e il doppio sudafricano dei fratelli Ferreira, ai quali rimontarono uno svantaggio di due set. Assieme ad altri tre singolaristi di grande valore come Renzo Furlan, Omar Camporese e Davide Sanguinetti, l’Italia centrò la semifinale nel ’96 (sconfitta sanguinosamente dalla Francia di Noah, Forget e Pioline dopo essersi portata in vantaggio 2-0) e nel ’97 (quando la corsa si arrestò contro la Svezia di Jonas Bjorkman) e la storica finale del ’98 a Milano (persa ancora con la Svezia). In quei tre anni, i capitani Panatta e Bertolucci furono gli artefici di grandi successi, come quelli contro la Russia di Yevgeny Kafelnikov al Foro Italico di Roma nel ’96, la Spagna di Carlos Moya nel ’97 a Pesaro e gli Stati Uniti di Todd Martin nel ’98 a Milwaukee.

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