Djokovic senza luce, la maledizione Slam colpisce ancora (Clerici). Djokovic scivola su Querrey (Marcotti). Djokovic, la caduta del re (Crivelli). Addio al sogno Grande Slam. Djokovic inciampa su Querrey (Semeraro). La parabola dello Zio Sam. Il predestinato l’ha fatta grossa (Crivelli). Wimbledon per tutti gli anglofili ed europeisti (Merli)

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Djokovic senza luce, la maledizione Slam colpisce ancora (Clerici). Djokovic scivola su Querrey (Marcotti). Djokovic, la caduta del re (Crivelli). Addio al sogno Grande Slam. Djokovic inciampa su Querrey (Semeraro). La parabola dello Zio Sam. Il predestinato l’ha fatta grossa (Crivelli). Wimbledon per tutti gli anglofili ed europeisti (Merli)

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Djokovic senza luce, la maledizione Slam colpisce ancora (Gianni Clerici, La Repubblica)

“Pensi che sia stato il destino?” Pare abbia chiesto un reporter incrociando Novak Djokovic, ancor prima che la sua dolente conferenza stampa iniziasse. Invece di una risposta, Djokovic si sarebbe limitato a scuotere la testa, come aveva fatto moltissime volte sul campo, dopo qualche colpo che non pareva uno dei suoi abituali, ma prestatogli da qualcuno di molto meno efficiente. Io mi vergogno spesso, a far domande in conferenza stampa, ma penso sia stato il Destino, un certo tipo di Destino che, nel tennis, si chiama ‘Il Complesso del Grande Slam’. E’ accaduto l’anno scorso a Serena Williams in un match che, penso, non avrebbe mai perduto in altre circostanze, contro la pur bravissima Robertina Vinci. Ed era avvenuto il primo anno in cui i miei antenati Kieran e Danzig, del Brooklyn Eagle, imitarono quel nome da una situazione del bridge. Correva l’anno 1933 e avvenne che l’australiano Crawford fosse battuto dal britannico Perry, dramma del Grand Slam, per aver sorseggiato – pare – un bicchierino di whisky antiallergico, alla fine del terzo set, lui astemio. Destino, non c’era altra definizione, anche perché il vincitore di oggi, di partite dello Slam ne ha disputate – mi dice il vicino americano – 72, vincendone solo 36, e con oggi 37: un bel pareggio contro tennisti spesso mediocri. Ma non è finita. Nel primo turno del suo torneo, l’americano è riuscito a battere Lukas Rosol, noto per un incredibile successo su Nadal quattro anni fa, per 12-10 al 5 set. Mi pare quindi che si possa concludere che il Grand Slam è strettamente legato al Destino, anche senza sottoporre, proprio in simile giornataccia funesta, a Djokovic, l’opinione di Freud “Rendi cosciente l’inconscio altrimenti sarà l’inconscio a guidare le tua vita”, opinione che non è certo il caso di riferire al povero – si fa per dire – Nole. Djokovic ha infatti deliziato gli intervistatori con risposte degne di quel grande diplomatico che forse diverrà, quali ad esempio «Sam ha giocato un match fenomenale, ha servito bene, come fa sempre, ma oggi addirittura in modo brutale. Ha finito per sottomettermi con la sua potenza». E inoltre, quando un intervistatore ha trovato modo di giustificarlo con le tre interruzioni di oggi, causa i frequentissimi piovaschi, «La pioggia era bagnata per entrambi, è stato difficile per tutti e due». Qualcuno ha anche ricordato come, nonostante le sue tre vittorie a Wimbledon, i prati non siano la superficie più adatta ad un tennis di attacchi dal fondo, non sempre sostenuti dal un numero elevato di prime. Ma si tratta certo di gente che ancora ricorda il serve and volley, tipico di altri tempi. Siamo dunque ritornati a chiederci chi sarà il vincitore di questo Wimbledon, privato del favorito. Qualcuno capace di votare Remain, e futuro europeo, come lo scozzese Murray?

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Djokovic scivola su Querrey (Gabriele Marcotti, Corriere dello Sport)

Addio sogni di gloria. La sorpresa più inattesa si concretizza al termine dell’ennesimo pomeriggio caratterizzato dalle continue interruzioni per pioggia. I Championships perdono il grande favorito, Novak Djokovic, sorpreso dallo statunitense Sam Querrey. La sconfitta del campione in carica, per tre volte vincitore su questi campi, arriva dopo oltre tre ore di gioco, spalmate su due giorni. La sospensione di venerdì sera con Querrey, numero 41 al mondo, avanti due set, sembrava il preludio alla ripetizione del match dell’anno scorso contro Kevin Anderson, quando il campione serbo, dopo la notte di stop, si era imposto in rimonta a quinto. Ieri la riscossa di Nole è durata un set, il terzo. Il quarto set gli è stato fatale: troppi gli errori gratuiti, troppa la pressione accusata nel tie-break che ha decretato la sua uscita anticipata. Era reduce da quattro Slam consecutivi e sognava di completare il Grande Slam: sembra incredibile, ma Nole è già fuori al terzo turno, sconfitto per mano di un grande Sam Querrey. Il serbo non usciva così presto da uno Slam da sette anni (Roland Garros 2009 contro il tedesco Kohlschreiber). Si ferma così a 30 (record nell’Era Open) la sua scia di successi Slam, l’ultima sconfitta risale alla finale del Roland Garros 2015, contro lo svizzero Stan Wawrinka. Un match così negativo da far sospettare un problema fisico taciuto. «Non è il momento per parlare di queste cose, l’unica cosa che conta è che Sam ha giocato un gran match, soprattutto ha servito benissimo, e ha meritato di vincere – il commento di Djokovic, che ha annunciato che non giocherà i quarti di Coppa Davis contro la Gran Bretagna, dal 15 al 17 luglio . Mi ha sovrastato, io non sentivo la palla come avrei voluto ma sono cose che capitano nello sport. Ovviamente sono triste, ma sono anche sicuro che ne uscirò più forte di prima». Come una maledizione, ancora una volta un tennista lanciato verso lo Slam è stato fermato sul più bello. «Ma io preferisco guardare le cose positive, concentrarmi sui quattro Slam vinti di fila. E poi ho la fortuna di avere una famiglia che mi aiuterà a distrarmi nei prossimi giorni. Non è il primo match che perdo, e so come si gestiscono questi momenti. Bisogna staccare, e distogliere la concentrazione. E’ così che farò. Non so quando rientrerò, se a Rio o prima, devo ancora decidere». Addirittura incredulo Querrey, al primo successo contro un n. 1 e ora atteso dal francese Nicolas Mahut «E’ stato fantastico battere un campione come lui, per di più a Wimbledon. Sono contento di essere riuscito a giocare bene nei momenti importanti, e di aver servito con grande efficacia».

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Djokovic, la caduta del re (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

La via per l’immortalità è stretta, ostica, emotivamente terribile. Per questo, nell’empireo chiamato Grande Slam, si sono accomodati appena in due, Don Budge e Rod Laver. Il Grande Slam è un’erta che non ha perdonato molti tra i più grandi di sempre, respinti senza appello da una delle imprese più mitiche ma anche più ardue dello sport. Ne porta i segni sulla pelle, dopo due ore e 58 minuti spalmati in due giorni di estate londinese di nuvole e umidità, Sua Maestà Novak Djokovic, che cade fragorosamente dal trono dopo 30 vittorie consecutive nei Major, dalla sconfitta parigina con Wawrinka di tredici mesi fa. L’inseguimento all’eternità, il sogno di mettere il sigillo sui quattro tornei più prestigiosi nello stesso anno, dopo essere riuscito a realizzare il poker consecutivo in due stagioni diverse, si spezza nella terza tappa, a Wimbledon, contro l’avversario che non ti aspetti, il californiano Sam Querrey, numero 41 del mondo con un’incursione rapida nei primi 20 cinque anni fa (17 nel 2011), tanto servizio e buon dritto, ma certo non un fenomeno. Se ci voleva il crac clamoroso, questo si prende un posto tra le più grandi sorprese di sempre, come la Vinci che batte Serena. Sembra che dopo l’interruzione per pioggia di venerdì, con l’americano sopra di due set, Novak abbia passato la prima mezz’ora nell’appartamento che divide con il team passeggiando nervosamente da una stanza all’altra senza dire una parola. Poi si è sciolto, dando l’impressione di aver metabolizzato lo spavento. Infatti, non appena rimette piede in campo all’una del pomeriggio, al caldo di un sole finalmente confortevole, in 17 minuti sale 4-0, prima di un nuovo stop di due ore per il solito acquazzone. Ma il terzo set è comunque una formalità, e dunque la storia pare ritrovare il suo corso. E invece il quarto set si trasforma nel teatro dell’assurdo, un andirivieni di tensioni, paure, occasioni sprecate di qua e di là, con Nole che ottiene 11 palle break nonostante l’americano gli spedisca in faccia 14 ace nel parziale, e concedendone a sua volta sette. E’ un Djoker spento, timoroso, quasi con il braccio frenato, che si rifugia nella diagonale rovescio contro rovescio attendendo gli eventi e non aggredendoli, soprattutto è un Novak che ha smarrito il killer instinct. Perché quello vero, ottenuto finalmente il break del 5-4, non perderebbe subito dopo il servizio che gli varrebbe il match scendendo a rete su un attacco cortissimo. E, dopo la terza interruzione di giornata (un’ora) sul 6-5 per l’altro, non finirebbe per regalare il tiebreak da 3-1 sopra con due dritti sballati. Che tonfo. Onore al cavaliere che fece l’impresa e Djokovic, al solito perfetto signore, spende solo parole dolci per Querrey: «Ha meritato di vincere, è stato migliore di me. Ha giocato un match terrificante, soprattutto al servizio. E non c’entra niente la pioggia, i ritardi e le condizioni del campo: erano uguali per tutti e due. Alla fine conta che lui abbia giocato a un livello più alto». Eppure quel Nole così dimesso, così in difficoltà con il servizio e il rovescio, e senza neppure la consueta, straordinaria forza mentale, resta un’immagine da consegnare a un futuro che ora dovrà contemplare necessariamente qualche ombra inattesa: «Perdere in uno Slam è molto più doloroso, ma non avvertivo il peso di dover ottenere un risultato storico. E’ stato un anno duro, vincere quattro Slam in fila è stato fantastico ma molto stressante, e adesso sono molto stanco». Per la prima volta, dopo un’epopea di trionfi, comincia a insinuarsi qualche dubbio, e si incrocia con quella spalla sinistra troppe volte palpata durante il match: «Non ero al cento per cento, ma questo non è il momento giusto per parlarne. Ora salto la Davis, mi consolerò con la mia famiglia, penserò alle cose che ho trascurato per il tennis e per un po’ non toccherò una racchetta». Il re è caduto. Evviva il re.

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Addio al sogno Grande Slam. Djokovic inciampa su Querrey (Stefano Semeraro, La Stampa)

Completare il Grand Slam – quello vero, i quattro tornei nello stesso anno – è una faccenda durissima. Ci vuole talento, fisico, e anche una dose generosa di fortuna, la compiacenza degli dei. Non è un caso se nella storia del tennis maschile ci sono riusciti solo in due: Donald Budge nel 1938 e due volte Rod Laver, nel 1962 e nel 1969. Nadal e Federer ci sono arrivati vicino; Djokovic, vincitore degli ultimi quattro Slam ma a cavallo tra il 2015 e il 2016, quest’anno dopo essersi tolto dalla spalla la scimmia del Roland Garros pareva a un passo; ma come il Graal anche lo Slam ha difese quasi soprannaturali e così il Joker ha finito per inciampare a Wimbledon in una radice californiana alta un metro e 98 centimetri di nome Sam Querrey, il n. 41 del mondo, che tra venerdì e ieri lo ha eliminato in quattro set (7-6 6-1 3-6 7-6). Anche l’anno scorso, contro un altro pivot come Kevin Anderson, Nole si era trovato in svantaggio di due set e si era salvato con la complicità delle tenebre. Stavolta si è perso nella pioggia, che ha interrotto il match una volta venerdì sera e poi altre tre ieri. Si pensava che la tensione di una notte passata a immaginare la Grande Impresa avrebbe snervato il buon Sam, invece è stato Nole a rimetterci i nervi. Nello Slam non perdeva una partita dalla finale di Parigi 2015, lasciata a Stan Wawrinka. Quest’anno non ha mai giocato da Djokovic, ma anche senza strafare pareva una spanna sopra la concorrenza. Invece, un malanno fra spalla e schiena di cui non vuole parlare («Onore al mio avversario, non voglio togliergli nulla») lo ha infastidito. Il resto lo hanno fatto i servizi di Querrey (14 palle break salvate su 17), l’ansia di confermarsi all’altezza di se stesso e portarsi ad un passo da un’impresa che lo avrebbe traslocato nell’immortalità tennistica. II suo flop si piazza fra i più clamorosi della storia di Wimbledon e del tennis – Sampras battuto qui da Bastl, Soderling che cancella Nadal al Roland Garros e l’inciampo sempre qui di Federer contro Stakhovski – la ricetta per dimenticarlo è semplice, e Nole la conosce: «Starmene un po’ lontano dal tennis».

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La parabola dello Zio Sam. Il predestinato l’ha fatta grossa (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Zio Sam l’ha fatta grossa. In un paese perennemente affamato di campioni dopo l’epopea di Agassi e Sampras e gli sprazzi di Roddick, uno con quel nome così patriottico non poteva che subire la condanna del fenomeno per forza, del portabandiera dell’orgoglio a stelle e strisce. Il problema per Querrey, nato a San Francisco alla fine del 1987 ma cresciuto a Las Vegas, è che dopo una buona carriera da junior i risultati sono arrivati, forse perfino troppo presto rispetto alle sue doti tennistiche, portandolo fino al n. 17 in classifica nel 2011 e sette tornei vinti fino al 2012. Un percorso senza troppi ostacoli che alla fine si è rivelato illusorio, come ha ricordato David Nainkin, che lo ha seguito da coach fino a due anni fa: «E’ arrivato troppo rapidamente tra i top 20 e ha dovuto affrontare la pressione di dover diventare un campione». Sam, infatti, è semplicemente un eccellente giocatore, probabilmente ottimo quando servizio e dritto, i colpi migliori, si incastrano nella giornata perfetta come per tre set su quattro contro un campione come Djokovic. Tante attese, insomma, e lui ci mette pure qualche leggerezza, come quando nel 2011 deve operarsi a un gomito dopo aver deciso che il posto più comodo per appoggiarsi ad allacciare una scarpa fosse un tavolo di vetro. Un’altra volta, invece, si presenta a un match con una scarpa bucata, non il massimo della concentrazione. Il 2013 è l’anno spartiacque, litiga con la fidanzata storica Emily McPherson, che doveva sposare, e nello stesso periodo si infortuna ai muscoli addominali. E’ ottobre, decide di fermarsi qualche mese, e resetta tutto. Oggi è allenato da Craig Boynton, che ha ancora in corsa pure Isner e Johnson, mica male. A febbraio è tornato a conquistare un torneo dopo quattro anni, a Delray Beach, e da ieri resterà per sempre l’uomo che ha interrotto, chissà se in modo definitivo, la corsa di Djokovic verso il Grande Slam. «E’ qualcosa di veramente eccitante, una vittoria incredibile contro uno dei giocatori più forti della storia. Dopo l’interruzione ho dormito davvero bene, sono stato con i miei genitori, la fidanzata e i miei amici. Non era facile gestire tutte queste sospensioni, ho cercato di rimanere calmo e poi ho avuto un grande aiuto dal servizio. Ma adesso è già il momento di pensare alla partita contro Mahut». Suonala ancora, Sam.

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Wimbledon per tutti gli anglofili ed europeisti (Alessandro Merli, Il Sole 24 Ore)

Tira un’aria strana a Wimbledon nell’anno 1 dell’era Brexit.
Dietro i Doherty Gates, i cancelli dell’All England Lawn Tennis and Croquet Club, come sempre la statua di Fred Perry guarda la fiumana degli appassionati che vanno ad assieparsi contro le transenne all’entrata del Centre Court. Andy Murray gli ha tolto un bel peso dalle spalle quando nel 2013, settantasette anni dopo il vecchio Fred, ha riportato a casa il trofeo dei “Championship”. Strano destino, quello di Murray. Il tennista di Dunblane, scampato alla strage per mano di un folle che entrò nella sua scuola elementare sparando all’impazzata, fu per anni solo un ”bloody Scot”, un maledetto scozzese, quando perdeva, e fin quando non si spense del tutto il bravo ragazzo delle Home Counties, l’oxfordiano Tim Henman. Allora, Andy si trasformò in grande speranza della nazione e poi nell’eroe dei tabloid xenofobi e delle signore dei circoli dell’Inghilterra meridionale, che ora, ammantate della Union Jack, hanno votato per Brexit per riprendersi il passato imperiale che non tornerà. Tra le tante analisi che hanno esaminato da ogni sfaccettatura tutte le conseguenze dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, politiche, economiche, sociologiche, ce n’è qualcuna che ha affrontato l’impatto su Andy Murray? Quando il Regno, non più unito, si sarà allontanato dall’Europa e Andy si presenterà all’All England Club per i colori della Scozia? Non andrà anche lui in crisi di identità davanti al pubblico non più di casa? Tirato su a pane e tennis da mamma Judy, sposato a una ragazza figlia di un maestro di tennis, Andy non si farà di questi problemi e penserà a giocare, magari sfoderando qualche battuta della sua ironia tagliente sullo sciovinismo dei suoi non più compatrioti.

Murray era arrivato a Wimbledon per fare da unica diga contro il Grande Slam di Novak Djokovic, che aveva già in tasca gli Australian Open e il Roland Garros. Ma Djoko ha pensato bene di autodistruggersi perdendo in 4 set con l’americano Sam Querrey nella più clamorosa delle sorprese. Venerdì sera lo aveva salvato la pioggia quando era sotto due set a zero (come nel 2015 l’oscurità contro Anderson), ieri non c’è stato proprio più niente da fare. Nole giocava contro se stesso e la maledizione del Grande Slam che l’anno scorso allo Us Open aveva colpito Serena Williams per mano della nostra Robertina Vinci. Adesso, con Rafa Nadal a casa, Federer che ha ancora la classe ma forse non più il fisico per giocarsela su cinque set, e gli altri che devono ancora dimostrare di poter uscire dal ruolo di comprimari, Murray è quasi costretto a vincere. Può essere l’ultima occasione per sventolare la UnionJack. A pensarci bene, forse il problema di Brexit se lo pongono di più gli spettatori. Quelli dall’Europa continentale sono un po’ straniti, per la prima volta non sono del tutto sicuri di essere benvenuti. I banchieri della City ripensano al vecchio adagio, secondo cui la City è lo specchio di Wimbledon: gli inglesi ci mettono i campi e fissano le regole e gli stranieri giocano, e soprattutto, vincono. Il che continuerà a essere vero dei Championships, soprattutto se anche lo scozzese Murray tornerà straniero. Ma, fra uno champagne e l’altro, i banchieri si chiedono perplessi se sarà ancora vero della City, dove fra un po’ gli toglieranno il “passaporto finanziario”. Un trasloco a Dublino, o ancor peggio a Francoforte, non entusiasma nessuno: certo, lì non c’è Wimbledon per intrattenere gli investitori. Come in tutti gli anni di grandi crisi finanziarie, a discettare di mercati all’All England Club ci penserà Gianni Clerici, che passa per “quello del tennis”, come lo definì snobisticamente Maria Bellonci (e lui, con una buona dose di autoironia tutta inglese, ne ha fatto il titolo della quasi autobiografia: “Quello del tennis”, Mondadori), o, come più benevolmente e più correttamente disse Italo Calvino, “uno scrittore prestato allo sport”. Mio vicino di banco nella sala stampa dell’All England Club, in epoca di turbolenze Clerici, più che sul tennis, mi intrattiene su finanza e investimenti e spesso ho il sospetto che ne sappia più di me. A Wimbledon, Clerici c’è arrivato per la prima volta negli anni 50, viaggiando dall’Italia in 500 giardinetta a settanta all’ora, da solo, per la defezione di un compagno, e la sua avventura agonistica sui prati di Church Road si è conclusa presto: “In quel fatidico lunedì a Wimbledon, per due set semplicemente non arrivai a trovare la palla”, ammette. Lui la sua scelta, estetica più che politica, l’aveva fatta anni addietro quando era bambino al Tennis Club Alassio, dove, davanti alla scelta fra un gerarca fascista in orbace tirato a lucido e, “chissà perché, speroni”, e lo spiegazzato aristocratico inglese Lord Hanbury, non ebbe dubbi. “Scegliere fra quei due tipi d’uomo era forse ovvio, o addirittura superfluo”, scrive Clerici. Che oggi, come tutti gli anglofili, che tanto hanno investito nel rapporto con l’Inghilterra, la sua cultura, i suoi costumi, sentirà Brexit come una sorta di offesa personale. Non ci resta che Wimbledon.

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