La battaglia infinita premia Anderson (Scanagatta). Anderson in finale dopo sei ore e mezza. Stoppati Nole e Rafa (Crivelli). Ma Isner aveva vinto la partita record: 11 ore (Marianantoni). Maratona verde Anderson (Azzolini). La specie protetta dei grandi battitori. Anderson in finale (Rossi). Wimbledon, la semifinale dei record (Semeraro)

Rassegna stampa

La battaglia infinita premia Anderson (Scanagatta). Anderson in finale dopo sei ore e mezza. Stoppati Nole e Rafa (Crivelli). Ma Isner aveva vinto la partita record: 11 ore (Marianantoni). Maratona verde Anderson (Azzolini). La specie protetta dei grandi battitori. Anderson in finale (Rossi). Wimbledon, la semifinale dei record (Semeraro)

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La battaglia infinita premia Anderson (Ubaldo Scanagatta, Giorno – Carlino – Nazione Sport)

Novantanove game, sì proprio incredibilmente 99 in 6 ore e 36 minuti per un quinto set finito 26 a 24. Così l’irriducibile Kevin Anderson, il sudafricano che mercoledì aveva battuto anche Roger Federer al quinto (13-11 e 4 ore e 37 minuti, annullandogli un matchpoint sul 4-5), ha finalmente avuto la meglio (7-6 6-7 6-7 6-4 26-24) sul provatissimo americano John Isner, vecchio e grande amico da 14 anni, dopo una spaventosa battaglia prevedibilmente di grandi servizi ma non solo. Il break decisivo, sul 24 pari, è arrivato in un game in cui il “destro” Anderson, scivolato sull’erba, si è rialzato ed è riuscito a ributtare la palla di la con la mano mancina e a salire 0-30 sul servizio di Isner: «Mio padre, mio primo coach, mi faceva sempre provare qualche colpo con la sinistra… lo devo a lui se ho fatto quel punto». Un colpo mortale per il morale del già distrutto Isner. Sebbene Isner abbia messo a segno 53 ace e Anderson 49 e in 99 games ci siano stati solo 6 break (4 a Isner, 2 a Anderson), ci sono stati anche scambi prolungati: 23, 18 palleggi, oltre che diversi intorno ai 10. Formidabile Anderson, davvero. Ma in quali condizioni verserà domani in finale? «Spero solo che certe regole verranno riviste, non è giusto continuare così», ha polemizzato con un fil di voce Anderson che non ha neppure avuto la forza di esultare a matchpoint trasformato. L’US Open è il solo di quattro Slam con il tiebreak al quinto set. Dal 1970. Chiunque abbia vinto maratone come quella di ieri ha sempre perso subito dopo. Meno fatica ma tanto stress per Rafa Nadal e Novak Djokovic, costretti ad aspettare 6 ore negli spogliatoi e scesi sul centre court per la seconda semifinale intorno alle 21, con il tetto chiuso e quasi tre ore totali di gioco. Per le 23 inglesi infatti i residenti di Wimbledon avevano ottenuto nel 2009 quando fu pronto il tetto, la sospensione di qualsiasi match. Il match fra Nole e Rafa riprenderà oggi dal 6-4 3-6 7-6 (11-9) di ieri, con 3 setpoint sprecati per lo spagnolo nel tiebreak. Isner non si consolerà per aver messo a segno un ace in più dei 213 di Ivanisevic a fine torneo 2001. Il croato vinse il torneo, lui lo ha perso alla sua prima semifinale qui. È stata la semifinale più lunga della storia di Wimbledon, ma fra martedì 12 e giovedì 14 giugno del 2010 lo stesso Isner e il francese Mahut giocarono per 11 ore e 5 minuti e 183 game sul campo 18: 6-4, 3-6, 67-7, 7-63, 70-68, con l’americano che trasformò il quinto matchpoint. Fu ridicolizzato il precedente record di 6h e 33 minuti di Santoro-Clement al Roland Garros 2004, nonché le 6 h e 21 m del duello di Davis 1982 fra McEnroe e Wilander. Per quel set finito 70-68 ci vollero 8 ore e 11 minuti. Isner mise a segno 113 ace, Mahut 103. Oggi, la finale donne Serena Williams-Kerber dopo la continuazione di Nadal-Djokovic.


Anderson in finale dopo sei ore e mezza. Stoppati Nole e Rafa (Riccardo Crivelli, Gazzetta dello Sport)

La terra dei giganti ha il suo nuovo re: due metri e tre centimetri di gioia sconfinata e stravolta. Anderson domani potrà sognare la coppa di Wimbledon dopo una contesa memorabile, infinita e titanica, la semifinale più lunga mai giocata ai Championships, 6 ore e 36 minuti, contro un’altra sequoia, l’amico Isner che in altezza lo supera addirittura di cinque centimetri. Da lassù, Kevin adesso guarda il mondo da un’altra prospettiva, e se le energie lasciate sul prato ormai spelacchiato del Centrale non lo avranno prosciugato, potrà inseguire il trionfo che ti cambia la vita con più fiducia rispetto alla finale di New York di settembre. Solo oggi, però, conoscerà il rivale che incrocerà nel tempio: la sfida interminabile contro l’americano allunga l’inizio dell’altra semifinale tra Nadal e Djokovic a dopo le 20, e per regolamento, nonostante il tetto chiuso e l’illuminazione artificiale, alle 23 si deve smettere. Il match tocca vertici di qualità straordinaria, allo scoccare dell’orario canonico lo spagnolo e il serbo sono ancora impegnati nel favoloso tie break del terzo set. Lo vince Nole, che va a dormire avanti 2-1: si riprende stamattina. Nella storia, solo un sudafricano è arrivato all’ultimo atto sull’erba più sacra: Brian Norton nel 1921, battuto da Tilden. Gli annali, infatti, assegnano il passaporto statunitense all’altro Kevin, Curren, che nel 1985 tenne a battesimo il primo successo di Becker. Non solo lo stesso nome, anche storie analoghe: Anderson si è formato negli Usa, è diventato tennista all’Università dell’Illinois e ora abita in Florida. Da collegiale, nel 2007, vinse il titolo Ncaa contro Georgia e nell’ultimo match batté proprio Long John: il destino li ha fatti ritrovare 11 anni dopo nell’appuntamento più importante di una carriera quasi allo specchio e con la fama ingiusta di giocatori monodimensionali, botte al servizio e poco più. Del resto, quando in campo ci sono quelli che Hewitt chiamava «gli alberi», il colpo d’inizio non può che incidere profondamente nella carne della partita. I primi due set sono l’esaltazione della scarna bellezza del pum pum, sublimata da altrettanti tie break. Fino all’evento dell’ottavo game del terzo, quando Anderson strappa il servizio a Isner, che non l’aveva mai perso nel torneo arrivando a 113 turni immacolati (3 dell’anno scorso), inceppandosi però subito dopo con il favore restituito. Altro tie break, e sorride il ragazzone del North Carolina. Ma il nuovo Kevin, che ha scoperto dopo i 30 anni i piaceri prolungati del tennis di vertice, come contro Federer mostra freddezza e qualità, strappando 2 volte la battuta nel quarto set al rivale e infilando il match in una saga destinata alla leggenda. Più passano i minuti e i turni di servizio del parziale decisivo, e più il ricordo di un’altra sfida interminabile con Isner protagonista, la maratona con Mahut da 11 ore e 5 minuti in tre giorni del 2010, comincia a volteggiare sul Centrale… [SEGUE]… mentre in campo John e Kevin mantengono elevatissimo il loro livello e di passaggio l’americano batte anche il record di ace complessivi nel torneo, 214, due in più dell’Ivanisevic del 2001, e con una partita in meno. Ma è lui a sentirsi improvvisamente floscio, la velocità del servizio cala drasticamente e quando sono passate due ore e 50 minuti dall’inizio del quinto set, al 49° game, Anderson si inventa perfino un colpo di sinistro per andarsi a prendere il break della staffa. In un pomeriggio così, in una partita così, ha regalato appena 24 gratuiti: «Meritavamo entrambi la finale, ma non esiste il pareggio e qualcuno doveva vincere. Però credo che sia ora di cambiare, ci vuole anche qui il tie break al quinto, non si può restare in campo così a lungo: non ho neppure la forza per festeggiare».


Ma Isner aveva vinto la partita record: 11 ore (Luca Marianantoni, Gazzetta dello Sport)

C’è sempre John Isner in mezzo alle più lunghe partite della storia. Una storia che l’americano aveva scritto a caratteri cubitali otto anni fa quando con il francese Nicholas Mahut aveva dato vita, sul campo numero 18 di Wimbledon, su cui fa bella mostra una targa per ricordare nei secoli il particolarissimo evento, una maratona infernale di 11 ore e 5 minuti (spalmate tra il 22, 23 e il 24 giugno 2010) per vincere 70-68 al quinto set un incontro di primo turno. Fissato per sempre nei libri anche per le 8 ore e 10′ necessarie per completare solo l’ultima frazione, per i 113 ace di Isner (record assoluto) e per i 103 di Mahut, che si arrese dopo aver servito con successo ben 54 volte per rimanere nel match: l’americano aveva mancato un match point sul 10-9, due sul 33-32 e uno sul 59-58. Ma da ieri Long John è anche il protagonista, questa volta sfortunato, della seconda partita più lunga, per durata, nella storia di Wimbledon con 6 ore e 36 minuti contro Anderson. Polverizzato il record della più lunga semifinale, che resisteva dall’epica sfida del 2013 tra Novak Djokovic e Juan Martin Del Potro (7-5 4-6 7-6 6-7 6-3), vinta dal serbo in 4 ore e 44 minuti dopo che l’argentino aveva rischiato più volte di lasciare le ginocchia in campo. Novantanove game in tutto che fanno del match Anderson-Isner il terzo più lungo, per numero di giochi, dopo i 183 di Isner-Mahut e i 112 giocati tra Pancho Gonzales e Charly Pasarell (5 ore e 12 minuti nel 1 turno di Wimbledon 1969 concluso 22-241-616-14 6-3 11-9 per Gonzales). Ma allora non esisteva il tie break (introdotto nei Championships per la prima volta sull’8 pari nel 1971 e poi successivamente sul 6 pari nel 1979) e quindi era molto più facile che gli incontri durassero più a lungo. Tornando ai record di durata, Isner e Anderson sono stati in campo 3 minuti in più rispetto al record del Roland Garros (6 ore e 33 minuti per la sfida del 1° turno del 2004 vinta da Fabrice Santoro su Arnaud Clement 16-14 al quinto), 43 minuti in più sul più lungo incontro all’Open d’Australia (la finale di 5 ore e 53 minuti del 2012 vinta da Djokovic 7-5 al quinto su Nadal) e un’ora e 10 minuti in più del record dello US Open (5 ore e 26 minuti necessari a Stefan Edberg per battere Michael Chang 6-4 al quinto nella semifinale del 1992). Solo in Coppa Davis c’è stato un altro match più lungo di quello di ieri. L’8 marzo 2015 a Buenos Aires l’argentino Leonardo Mayer superò 15-13 al quinto il brasiliano Joao Souza dopo 6 ore e 43 minuti, 7 in più di Anderson e Isner… [SEGUE].


Maratona verde Anderson (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Va in scena il teatro della fatica, della dedizione, dell’impegno estremo, e rivederlo sul palcoscenico di Wimbledon, che nel 2010 mise in cartellone il match più lungo mai recitato, spinge a considerazioni sui limiti dello sport che non capita di affrontare così spesso. La semifinale fra Kevin Anderson e John Isner, proprio lui, ancora lui, già protagonista otto anni fa, offre una quadratura perfetta dopo sei ore e 36 minuti di tennis, il terzo match più lungo nella storia del torneo e del tennis: c’è uno sport che chiede tutto ai propri testimoni, finanche di lasciarsi distruggere, ma vi sono uomini dello sport nati per domarlo, e farlo proprio. Un ossimoro, o quasi, nel torneo dei gesti bianchi, degli applausi sommessi, delle volée abbaglianti come raggi di sole, ma tale da ridurre a fessure gli occhi di Kevin e di John, da scarnificare i loro volti già ossuti, e di fare poltiglia dei gesti e dei pensieri, quando la battaglia sportiva supera limiti dell’umano e si avvia a diventare scontro epico. Vince Kevin Anderson, stavolta. A Isner rimarrà la targa ricordo, sul Court 18, del match combattuto e vinto contro Mahut nel 2010. Undici ore e cinque minuti quella volta, sparsi in tre giorni di tennis, con il quinto set lungo a sua volta ben più di una lunga partita Fini 70 a 68… Sei ore e 36 minuti, ieri, ma tutte filate, senza interruzioni, e senza un favorito, almeno fino a quando le lunghe membra di Isner si sono sentite strette nella fatica che ti trattiene nelle rincorse, e ti fa sembrare sempre più lontana e irraggiungibile la palla. Lì, Anderson ha cominciato ad avere le prime chance, una palla break sul 7 pari, un’altra sul 10 pari. Isner si affidava al servizio, la sua arma, calato da altezze impossibili. È un 2,08 l’americano (Anderson “solo” un 2,03), ha un fisico da pivot… Superava i 50 ace nel match (53 alla fine) e poi anche Ivanisevic, che nel torneo del 2001 ne firmò 212 (215 per Isner, ma con un match in meno). Sul 24 pari, però, le palle break favore di Anderson sono diventate tre, 0-40, Isner ne ha cancellata una, ma sulla seconda il sudafricano ha affondato la lama in attacco e cambiato il segno dell’incontro. È andato a servire sul 25-24, e non ha commesso errori. Lungo è più bello? Sapete già la risposta.. Non sono le dimensioni che contano, ma la qualità. Anderson e Isner hanno messo in campo tutta quella che avevano a disposizione, ma l’alternanza dei servizi vincenti, quasi mai posta in discussione, ha circondato a lungo il match di un’aura di noia. È stato il quinto set a riscattare la fatica dei due, e a trascinarla nel racconto epico. Anderson è alla seconda finale nello Slam, dopo gli Us Open dello scorso settembre, nei quali finì per fare da sparring a un Nadal scatenato. Anche in questa occasione giocherà da sfavorito, ma viene da due imprese, e ha dentro il fuoco di chi è già andato oltre le sue aspettative (non aveva mai superato gli ottavi, negli anni scorsi)… [SEGUE].


La specie protetta dei grandi battitori. Anderson in finale (Paolo Rossi, Repubblica)

Siano lodati i prati. Questa è la preghiera mattutina dei grandi battitori, i “big server”, i tennisti il cui colpo migliore è il servizio. Wimbledon li accoglie, e talvolta li fa diventare eroi. L’ultimo di questa stirpe è Kevin Anderson, che porta il Sudafrica in finale di Wimbledon dal 1921, dopo Norton. Battitore di 203 cm, è l’ultimo nipotino di Boris Becker, colui che nel 1985 sdoganò e diede il via alle generazioni che ancora oggi (ma non più così spesso) continuano a essere gratificate dall’erba londinese. Krajicek, Philippoussis, Ivanisevic, Roddick, Raonic, Cilic: la lista è già lunga, e andrebbe aggiunta anche gente come Karlovic e Berdych. I loro servizi a oltre 230 kmh sono delle schioppettate difficili da intercettare anche per i migliori ribattitori, come Nadal o Djokovic per intenderci. Ieri Kevin Anderson ha fatto suo il “derby” con John Isner, più alto di lui di cinque centimetri. Quest’ultimo non aveva mai perso il servizio in questo Wimbledon, nei 110 turni di servizio prima che vi riuscisse il sudafricano. I due hanno dato vita al secondo match più lungo di sempre a Wimbledon, durato 6 ore e 36. Il record è il famoso 70-68 del 2010, il cui protagonista è sempre Isner. Insieme hanno realizzato 102 ace (49 Anderson, 53 Isner), e l’americano nel primo turno ne aveva realizzati 64 per liberarsi del belga Bemelmans. In fondo ha vinto quello che è in testa alla speciale classifica: nel 2018, prima di Wimbledon, Anderson ha realizzato qualcosa come 533 aces, seguito proprio da Isner con 505. Solo terzo il recordman della classifica All Time, Karlovic. Loro, i grandi battitori, si rivelano sempre e soprattutto a Wimbledon. Ci sono anche le superfici dure, ma è sull’erba che riescono a dare quel qualcosa in più. L’anno scorso in finale c’era Cilic, due anni fa Raonic. Quali chance avrà Anderson in finale, dopo due maratone (contro Federer e quest’ultima) non è dato sapere, ma è anche vero che l’entusiasmo è tutto e che il 32enne di Johannesburg ha già assaggiato lo stress di una finale Slam, quella degli US Open 2017 ed è un perfezionista, un tipo che non ha mai smesso di migliorarsi e che vuole inserirsi nella scia dei grandi del passato del suo paese: Drysdale, Kriek, Curren, Ferreira. Anche come riscatto sociale, per la sua famiglia, come pretendeva il babbo Michael: la sua è una storia con trama familiare, con un padre arrabbiato che sognava una vita migliore per i suoi ragazzi, Greg e Kevin, e gli aveva inventato lo ‘Swingball’, come lo chiamavano i fratelli, un accrocco tenuto insieme da un semplice pezzo di spago e una vecchia palla da tennis. Ai ragazzi piacque, e il padre dovette costruire un muro per farli giocare, allenare. Per usare le parole della mamma, Barbara, «la loro vita era una dedizione e un impegno per il tennis giorno per giorno». Il piccolo Kevin (si fa per dire) restava sul campo di casa fino a tarda sera, e la mamma doveva andare a minacciarlo di restare senza cena per farlo rientrare in casa. Non faceva anche così qualcuno del passato, sebbene avesse altre caratteristiche, un certo Borg? Poi vennero i tempi del college, “i migliori anni della mia vita”, e l’esperienza americana completò la preparazione di Anderson, ma gli lasciò il soprannome che ancora oggi lo accompagna, “lo struzzo”… [SEGUE].


Wimbledon, la semifinale dei record (Stefano Semeraro, Stampa)

Passate le cinque ore, sull’11 pari al quinto set fra Isner e Anderson, una elegante signora si è avvicinata perplessa ai banchetti della tribuna stampa. «Scusate», ha chiesto. «Parlate spagnolo? Mi sapete dire fino a quando andrà avanti? Non es posible. Io sono venuta per vedere Nadal, tutto questo è ridicolo. Voi che ne avete il potere, dite a Mr Wimbledon che faccia qualcosa…». Anche la signora, però, come tutti gli spettatori del Centre Court – prima stupiti, poi entusiasti, quindi esausti, infine euforici — ha dovuto aspettare un’altra ora e mezza abbondante, e le 19 e 37 di Londra, per vedere uno stremato John Isner tirare largo un diritto, l’ultimo colpo di un match interminabile. Poco prima, quando sul 24 pari Anderson era finalmente riuscito a strappargli il servizio, era scattata addirittura la ola. Alla fine più che un applauso è partito un boato di liberazione. Il sudafricano di Gulf Stream, Florida, nato a Johannesburg ma in attesa di un passaporto americano, è riuscito dunque in una impresa storica: battere, nella seconda partita più lunga della storia (6 ore e 36 minuti, 7-6 6-7 6-7 6-4 26-24), l’uomo che ha vinto la partita più lunga della storia. John Isner otto anni fa, proprio qua a Wimbledon, ma sul campo 18, dove in ricordo è stata piazzata addirittura una targa, impiegò 11 ore e 5 minuti (ma in tre giorni) per piegare Nicolas Mahut 70-68 al quinto. Allora servì 113 ace. Stavolta si è fermato a 53, che però nel totale gli consentono di battere, con una partita in meno, il record di ace in un solo torneo a Wimbledon, 214 contro i 212 di Ivanisevic vincitore nel 2001. Anderson ne ha appoggiati 4 di meno, ma in un 5° set durato da solo 2 ore 55′ ha dovuto servire 22 volte per restare in partita. Il tutto contro un suo amico, con cui è cresciuto giocando nel campionato universitario Usa. «Non so immaginare come mi sentirei ora se avessi perso», ha detto strofinandosi stravolto e incredulo la chioma da struzzo… [SEGUE]. «Io capisco che la gente si diverta in partite come questa, senza tie-break al 5° set», ha aggiunto. «Ma forse è tempo di cambiare formato: per noi che giochiamo è troppo dura». La signora spagnola sarebbe sicuramente d’accordo.

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