Troppe accuse ai furbetti e pochi rimbrotti a chi si fa fregare

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Troppe accuse ai furbetti e pochi rimbrotti a chi si fa fregare

Un Medical Time Out sospetto ha aiutato la 18enne Yastremska a vincere il suo secondo titolo. Comportamento al limite, certo, ma lo sport non è fatto solo di gentilezze ed è miope dimenticarlo

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Lo diremo a scanso di equivoci: nella sua accezione più primigenia, lo sport non va d’accordo con i mezzucci. La contesa sportiva discende sì in parte dal retaggio della guerra, ripulito però di quella connotazione truce e violenta perché i gentiluomini – e più tardi le gentildonne – potessero confrontare le proprie abilità secondo le regole di cui ogni sport sceglieva di dotarsi. Una sorta di ‘battaglia controllata’ entro cui sfogare gli istinti di competizione di cui l’essere umano non potrà mai fare a meno, utile anche a soddisfare quell’esigenza ludica che ci ha caratterizzato fin dalla preistoria. Alcune tra le prime pitture rupestri testimoniano infatti come l’uomo già si dedicasse allora ad attività non direttamente collegate a quelle fondamentali per la sopravvivenza. Lo sport, in sé, può essere considerato una fusione tra gioco e guerra.

Rispondendo la pratica sportiva prima di tutto al principio dell’uguaglianza, vi si è affiancata come tratto distintivo la capacità di abbattere le barriere sociali. Di qui la cavalleria e il rispetto dell’avversario, non sempre possibile al di fuori dei confini dello sport laddove una vittoria poteva significare sopraffazione reale, non solo figurata. Tutto questo è vero, lo sport ha preso le sembianze – paradossali, per certi versi – dell’universo ‘innocuo’ in cui continuare a professare i valori costantemente sviliti dalle evoluzioni della Storia. Da un lato c’è quello che de Coubertin ha brillantemente sintetizzato nella sua massima, dall’altro c’è che comunque a nessuno piace perdere. La sconfitta può essere seducente dal punto di vista letterario, può persino ispirare di più il cronista romantico, ma sul campo da gioco non seduce proprio nessuno. È solo un nemico da tenere lontano con ogni forza.

Per questo banalissimo motivo la zona grigia compresa tra i confini del lecito e i confini dell’etico ha preso ad essere sempre più abitata. L’atleta si spinge fino al limite delle sue possibilità tecniche e fisiche ma se questo non basta, col conforto dei regolamenti, si aiuta con gli escamotage che fanno storcere il naso ai puristi. L’ultimo esempio è quello di Dayana Yastremska, 18enne ucraina parecchio esuberante – di tennis e di carattere – che trovandosi con un piede e tre quarti nella fossa durante la finale di Hua Hin contro Ajla Tomljanovic, ha dovuto giocare un po’ sporco. Sotto 5-2 nel terzo set, dopo aver perso undici degli ultimi quindici game, ha chiesto e ottenuto un medical time out strategico per trattare un presunto fastidio alla gamba sinistra. Miracolosamente ringalluzzita dalla pausa lei e tragicamente avvilita la povera avversaria, che per un’ora l’aveva imbrigliata per bene, Yastremska è riuscita a rovesciare completamente l’incontro fino al dritto vincente che le ha consegnato tie-break, partita e secondo titolo in carriera.

Siamo tutti d’accordo che la pestifera ragazzina di Odessa non farà incetta di premi simpatia ne vedrà inciso il suo nome sul trofeo annuale del fair play, ma giova ricordare che contro Serena Williams a Melbourne aveva preteso d’utilizzare la stessa tattica – dopo aver poggiato male la caviglia in uno scambio – riuscendo a infastidire la statunitense come un fiacco refolo di vento riuscirebbe a farsi dare udienza da un uragano. Insomma, perché il giochino funzioni si deve essere in due: uno che non si faccia troppi scrupoli a rimestare un po’ nel torbido, e uno che sia facile alla distrazione. Se la prima caratteristica non è troppo degna d’onore ma può essere assai funzionale in una competizione sportiva, la seconda è certamente una nota di demerito.

La discussione tra David Goffin e l’arbitro Cedric Mourier a Montecarlo nel 2017

La capacità di mantenere la concentrazione punto dopo punto riveste grande importanza nel bagaglio di un tennista, addirittura cruciale quando si scende in campo per una finale. Tomljanovic avrebbe dovuto trattare il sotterfugio di Yastremska alla stregua di una chiamata sfortunata, di uno spettatore che applaude in anticipo, di un’avversaria che ingaggia una battaglia personale con il giudice di sedia e incidentalmente arringa la folla (coff coff). Isolarsi da questi episodi rientra quindi tra le cose che vengono richieste a un giocatore per vincere una partita di tennis. Così come Carreno, certamente non fortunato contro Nishikori a Melbourne, l’australiana non ha saputo smarcarsi dall’elemento di disturbo e (anche per questo) ha perso la sua finale, dopo averne persa un’altra piuttosto lottata a Seoul lo scorso settembre. È il sintomo che qualcosa le manca a livello di personalità, e per quanto Yastremska possa aver fatto qualcosa di eticamente discutibile – benché lecito, lo ribadiamo, finché i regolamenti reciteranno in questi termini – lei è stata troppo ingenua. E queste ingenuità nello sport si pagano.

Quanto alla pratica degli MTO strategici, che certamente esistono e forse sono persino la maggior parte di quelli che vengono chiamati, va detto che troppo spesso si pretende di scoprire dal divano quanta necessità effettiva abbia un tennista di fermare il gioco per ricevere delle cure mediche. Lo stesso identico infortunio potrebbe essere intollerabile per Paire e appena percettibile da Goffin, che magari neanche verrebbe sfiorato dall’idea di avvalersi del fisioterapista. Paire è necessariamente un baro? Non per forza. Un giocatore può in effetti trarre beneficio da una pausa, anche se la motivazione risulta essere più psicologica che atletica, e dal momento che il regolamento non discrimina sull’esigenza ‘fisica’ di fermare il gioco – ad oggi, anno di grazia 2019, la tecnologia non ci permette ancora di farlo – questa dinamica deve essere accettata per quella che è.

Piena libertà di elucubrare sulla genesi dei time out, ci mancherebbe, ma l’esercizio rimane confinato alla sfera della soggettività. I regolamenti sono uguali per tutti, il modo in cui ognuno dei noi interpreta l’etica sportiva no. È anche verosimile che gli atleti continueranno in qualche modo ad essere divisi tra coloro che hanno pelo sullo stomaco – e ci stupiremmo di non trovarne nessuno su quello di Yastremska – e coloro i quali, pur avendo fidanzati parecchio amorevoli nel prendere le loro difese, continueranno a mancare di un certo istinto killer. Il guaio, se volete considerarlo un guaio, è che sono più spesso i primi a festeggiare sui resti dei secondi. E anche di questo si deve prendere atto.

La stretta di mano (freddina) tra Yastremska e Tomljanovic

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