WTA Finals: ombre cinesi

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WTA Finals: ombre cinesi

Ashleigh Barty ha confermato il primato nel ranking vincendo il Masters 2019, ma l’organizzazione WTA non è stata all’altezza dell’importanza del torneo

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Elina Svitolina e Ashleigh Barty - WTA FInals 2019 Shenzhen
 

Si annunciava un Masters 2019 molto interessante, ricco di protagoniste con stili di gioco differenti e con nuove rivalità capaci di accrescere l’attenzione degli appassionati. Invece, alla prova dei fatti, la grande attesa si è risolta in un torneo zoppicante. Le prime due favorite, Andreescu e Osaka, non hanno nemmeno concluso il round robin per problemi fisici; si sono alzate parecchie lamentale per le caratteristiche del campo; e a conti fatti ci sono state addirittura quattro rinunce, tra forfait e ritiri. Insomma, il primo Masters cinese ha avuto più ombre che luci (che comunque non sono mancate). Cominciamo dalle condizioni di gioco, che hanno fatto discutere come non mai.

La “velocità” del campo
Dopo l’esperienza delle Finals 2018, caratterizzate dal lentissimo campo di Singapore (vedi nel dettaglio QUI), era inevitabile che si volesse sapere il prima possibile quali fossero le condizioni di gioco nella Arena di Shenzhen. Intervistate dopo gli allenamenti preparatori, le giocatrici hanno definito le condizioni di gioco “lente”. È stato l’inizio di un dibattito che è proseguito per tutta la settimana.

La questione è tornata ripetutamente nelle domande dei giornalisti presenti sul posto, negli articoli di chi ha scritto le cronache dei match, ma anche sui social media e sui forum di appassionati, inclusi quelli di Ubitennis. È del tutto comprensibile, perché si tratta di un tema importante, con significative conseguenze sul torneo. Penso però che per affrontarlo sia necessario cercare di essere più precisi e dettagliati, anche se alcuni passaggi risulteranno noiosi. Ma sono indispensabili per capirsi.

Parlare genericamente di velocità del campo, infatti, non è sufficiente per individuare il problema di Shenzhen e arrivare a una conclusione ragionevole e condivisa. Procediamo per gradi.

Punto primo. Quando si parla sinteticamente di “velocità” dei campi, in realtà si intende l’insieme delle condizioni di gioco, che comprendono quindi anche le palline, la qualità dell’aria (temperatura, umidità, densità etc) e perfino l’architettura dell’impianto. La gran parte di questi aspetti sono misurabili oggettivamente, e per questo alla fine si traducono in un valore che definisce la velocità del campo.

Punto secondo. Per quanto riguarda il cemento, si possono realizzare campi in cemento velocissimi come campi lentissimi. Sia chiaro: se sono così assertivo è perché queste non sono idee mie, pareri opinabili, ma dati di fatto certificati e misurati dalla Federazione Internazionale Tennis.

– Punto terzo. È la parte fondamentale per quanto riguarda Shenzhen. La tabella di riferimento ITF spiega come siano due i fattori fondamentali che determinano la velocità di una superficie: il coefficiente di frizione (attrito) e il coefficiente di restituzione (elasticità). È la loro combinazione che definisce la autentica velocità di un campo (Court Pace Rating):

Non conta quindi solo la velocità della palla dopo il contatto con il terreno, ma anche l’altezza del suo rimbalzo.

Spesso si è abituati ad associare automaticamente lentezza della palla a rimbalzo alto. Vale a dire: un campo “lento” ha rimbalzi più alti, mentre uno “veloce” rimbalzi più bassi. Ma è una semplificazione non corretta.
Si possono avere campi veloci con rimbalzi alti ma anche campi lenti con rimbalzi bassi: questi ultimi non saranno i più lenti in assoluto, ma rientreranno comunque nella categoria di quelli lenti. E con questo concetto chiudo la parte indiscutibile, perché legata ad aspetti oggettivi.

Arriviamo dunque alla mia personale interpretazione. Secondo me, le condizioni di gioco di Shenzhen appartenevano a quella poco frequente tipologia citata sopra: campo lento a rimbalzo basso. Per questa conclusione non faccio molto affidamento sulle riprese TV (basta spostare l’angolo della telecamera principale per essere ingannati su parabole e rimbalzi); lo deduco da una serie di altri indizi.

Innanzitutto le dichiarazioni delle protagoniste. Osaka, Pliskova e Kvitova hanno genericamente parlato di campo “lento”. Ma altre tenniste hanno detto di più. Ashleigh Barty dopo i primi allenamenti ha descritto il campo di Shenzhen come simile ad alcuni di Fed Cup, con una sottostruttura che produce rimbalzi più bassi del solito e non sempre prevedibili. “It’s a little bit of a similar surface to an indoor Fed Cup surface, where it’s on boards, a little bit lower bouncing at times, can be a little bit unpredictable with how it reacts to spin”.

Mentre Belinda Bencic ha usato la sabbia come paragone: ”I think these courts are, like, terrible for movement of players and for the muscles because it’s like sand”.

Forse chi si è dilungata di più sulle specificità è Simona Halep, che, giorno dopo giorno, ha cercato di descrivere sempre meglio le sue sensazioni a Shenzhen. Martedì 29 ottobre, dopo il match con Andreescu: “Il campo non è veloce ma allo stesso tempo non è lento” (“The court is not fast but not slow in the same time”). Sembra una dichiarazione senza senso, ma si spiega con le caratteristiche particolari che ho ipotizzato. Cioè alto attrito (classico riferimento dei campi lenti) “is not fast”; ma anche rimbalzo basso (classico riferimento dei campi veloci) “but not slow”.

Sempre Halep, mercoledì 30 ottobre dopo il match con Svitolina: Questo campo non fa per me. In un certo senso è molto morbido. (…) La palla a volte non ti “viene incontro”, a volte non rimbalza. È davvero difficile trovare il ritmo. Ecco perché in certi casi ho cominciato a picchiare troppo e ho finito per stancarmi”. (“This court is not great for me, for my game. It’s very soft in a way. (…) The ball doesn’t really come to you sometimes, sometimes doesn’t bounce. It’s really tough to find a rhythm. That’s why sometimes I start to overhit, and then I get tired”).

Queste le parole di alcune protagoniste. L’altro indizio fondamentale sono le partite, il modo in cui sono state condotte, gli schemi attuati, quelli che hanno reso oppure no. E da questi aspetti si possono dedurre anche le differenze con il campo del Masters dello scorso anno.

A mio avviso a Singapore 2018 il campo era del tipo lento a rimbalzo alto. Assorbiva energia e restituiva una palla senza peso ma facilmente gestibile. Queste condizioni erano così estreme da stravolgere i normali schemi di gioco: la palla rallentava e saliva in aria, in attesa di essere rimandata senza regalare potenza “gratis” a chi colpiva. Il tennis di pura rimessa era estremamente avvantaggiato, visto che ogni parabola era quasi sempre recuperabile; tanto che colpire lungolinea era diventato controproducente, perché si traduceva in un rischio senza ricompensa. Quasi aboliti anche i contropiede: nessuna giocatrice in difesa si muoveva prima, perché non era necessario anticipare le scelte dell’avversaria.

Non è stato così a Shenzhen. Campo lento ma con rimbalzo basso. Il rimbalzo basso ha invece reso difficili i recuperi sui cambi di geometrie, restituendo, se non altro, il vantaggio a chi rischiava i lungolinea. Altro aspetto che è diventato molto producente: lo slice. Come accade sull’erba classica, dove i back rimbalzano poco e rendono molto difficile e faticosa la loro gestione, sul campo di Shenzhen gli slice erano particolarmente efficaci. Mentre per ottenere un vincente in topspin occorreva potenza superiore (e questo spiega la fatica di Halep citata prima).

Malgrado simili problemi, il campo di Shenzhen consentiva quindi diverse tattiche di gioco vincenti, a differenza delle caratteristiche assolutamente monodimensionali privilegiate a Singapore. Resta comunque il fatto che nessuno dei 15 match disputati a Shenzhen si è concluso con entrambe le giocatrici con saldo positivo tra vincenti ed errori non forzati.

Teniamo presente tutto questo e analizziamo le qualità fisico-tecniche delle protagoniste. A mio avviso questo campo era il più adatto per due di loro: Ashleigh Barty e Kiki Bertens. Entrambe dotate di un ottimo servizio e di un dritto di potenza superiore, in grado di andare oltre la lentezza del campo. E con in più, rispetto alle altre, l’arma dello slice di rovescio, un colpo naturale che eseguono a regola d’arte. Un colpo in grado di incidere sulle avversarie nello scambio interlocutorio, tanto da far sentire loro la stanchezza in misura maggiore a fine match. Infatti contro Barty hanno ceduto alla distanza sia Bencic (5-7, 6-1, 6-2) che Pliskova (4-6, 6-2, 6-3).

Bertens è stata l’unica a sconfiggere Barty nello scontro diretto (3-6, 6-3, 6-4) e penso che se non fosse subentrata a girone iniziato (al posto di Osaka) avrebbe quasi sicuramente battuto Kvitova; mentre non sappiamo come sarebbero andate le cose con Bencic (7-5, 1-0 ritiro) se non avesse avuto un malessere, probabilmente dovuto al troppo tennis dell’ultimo periodo (nessuna ha giocato quanto lei dopo gli US Open).

a pagina 2: Gli infortuni

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