I 50 anni di Andre Agassi sulla stampa italiana (Crivelli, Zara)

Rassegna stampa

I 50 anni di Andre Agassi sulla stampa italiana (Crivelli, Zara)

La rassegna stampa di mercoledì 29 aprile 2020

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Inferno e Paradiso. Auguri Andre, ultima rockstar delle racchette (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

A vederlo adesso, marito e padre felice, sempre con il sorriso sulle labbra e con il cuore di chi ha voluto condividere un po’ della sua fortuna con gli ultimi della società, dedicandosi nella sua Academy di Las Vegas ai ragazzi poveri che vogliono avvicinarsi al tennis, si direbbe che Andre Agassi abbia trovato nella serenità dell’età matura la pace ai tormenti di chi si è ritrovato ad attraversare l’inferno per approdare al paradiso. Oggi l’ex Monello di Las Vegas compie cinquant’anni, ma la domanda che ha sempre accompagnato il suo percorso resta ancora attualissima: chi è stato davvero l’Agassi tennista? Sicuramente, un gigante. Eppure, per entrare nell’empireo dei più grandi di sempre, un ruolo che ormai tutti gli riconoscono, ha dovuto farsi carico di almeno tre vite: il ragazzo atterrato come un ciclone, tecnico e mediatico, in un mondo ancora legato alla tradizione; il campione che fronteggia l’insostenibile nausea da competizione che viene da lontano e si rifugia nei conforti artificiali, fermandosi un minuto prima che il baratro lo inghiotta; l’uomo rinato, consapevole dei tanti difetti ma anche degli innumerevoli pregi, e dunque capace di farsi dominatore dopo i trent’anni, un’età che per tanti colleghi ha rappresentato l’inesorabile discesa verso l’oblio agonistico. Eppure, per conoscerne la luce e insieme il lato oscuro, abbiamo dovuto aspettare che Agassi si mettesse a nudo In un libro, che è un’autobiografia sul generis, visto che gliel’ha scritta un Pulitzer: «Open», è lo specchio su cui milioni di appassionati vedranno riflesso il vero volto di un eroe maledetto. È in quelle pagine che Andre racconta dell’ossessione del padre Mike, emigrato dall’Iran ed ex pugile olimpico: insegue il sogno di trasformare uno dei quattro figli (ci sono anche tre sorelle) in un tennista di alto livello. Tocca al maschio di casa, e saranno ferite insanabili: «Vivevo nella paura di mio padre, mi voleva campione a tutti i costi, mi teneva in campo per ore a ribattere palle. Diceva: “Se ne colpisci 2500 al giorno, saranno 17.500 alla settimana, e quasi un milione in un anno. E diventerai imbattibile”. Io, così. finisco per odiare il tennis, davvero, con tutto il cuore, eppure resto lì con lui. Che altro posso fare?». Neppure l’Accademia di Bollettieri in Florida, dove approda a 14 anni per uno stage di tre mesi e si trasforma nella sua culla tecnica nonché prigione, perché il coach gli ha assegnato una borsa di studio, ne placa lo spirito ribelle: tentativi di fuga, smalto alle unghie, capelli rossi alla mohicana. All’ennesima bravata, va da Bollettieri e anziché il perdono chiede di non studiare più e fare il professionista. Accontentato. Così, quando debutta a 16 anni, l’impatto che ha sul circuito è quello di una tempesta incontrollabile. Capelli lunghi con le mèches bionde, pantaloncini di jeans, orecchini vistosi. Agassi diventa un idolo planetario. John McEnroe lo battezza subito: «Non è un tennista, ma una rock star». Però, accanto all’esuberanza giovanile, c’è uno stile di gioco mai visto, fondato sull’anticipo esasperato dei colpi e una risposta al servizio micidiale. Andre si cala così tanto nella parte di nuovo messia da rinunciare ai viaggi In Australia perché è troppo lontana e soprattutto a Wimbledon, perché impone il dress code del bianco che a lui non piace. Per ironia della sorte, ai Championships vincerà il suo primo Slam nel 1992 e Melbourne diventerà il suo Major preferito (4 successi). Ma tutto è andato troppo in fretta e per gestire le pressioni Andre si affida al più subdolo dei surrogati, la droga. Metanfetamine, con l’ammissione postuma di essere stato graziato dall’Atp nel 1997 dopo un controllo positivo. Finisce al numero 141 del mondo, ma aver visto in faccia gli spettri lo aiuta finalmente a scacciare i mostri interiori. Il 1999 è l’anno della redenzione definitiva, a Parigi completa lo Slam personale e in estate torna numero uno del mondo. Seguiranno altri tre anni al top, con l’amore decuplicato della gente, un palmarès in cui non manca nulla (Slam, Masters, oro olimpico e Davis) e la serenità di un matrimonio felice con Steffi Graf, di cui si innamora vedendola in tv e che sposa nel 2001. L’antico ribelle ha trovato casa.

Agassi, il ribelle diventato mito (Furio Zara, Corriere dello Sport)

Abbiamo tutti un parrucchino in testa. Diventiamo noi stessi quando ce lo togliamo. «Di ciò che posso essere io per me, non solo non potete saper nulla voi, ma nulla neppure io stesso». Vitangelo Moscarda, protagonista di «Uno, nessuno centomila», capolavoro di Luigi Pirandello. O anche: Andre Agassi, tennista. Vitangelo Moscarda comincia a sbarellare quando realizza che il padre non era un banchiere, ma un usuraio. Da quel momento in poi compie azioni che ai suoi occhi hanno un senso e uno scopo preciso, ma che al resto dell’umanità appaiono come segni di follia. Andre Agassi bambino timido, oppresso, schiacciato dalla personalità del padre brutale e ossessivo, costretto a colpire 2.500 palle al giorno, cioè un milione di palle l’anno e poi ribelle, anticonformista, «narcisista egocentrico» come lo bollano i gioralisti agli esordi, solo in mezzo a un sacco di gente, tormentato, ansioso, stravagante per posa. Chioma da rockstar, unghie pittate, maglietta rosa, pantaloncini jeans, meches ai capelli, ciuffi fucsia, taglio da mohicano e frangia a spazzola. Non odiava il tennis. Detestava se stesso. Sono i tempi in cui Ivan Lendl – sollecitato a esprimere un giudizio sul gioco di Agassi – risponde con alterigia. «Un taglio di capelli e un diritto». E’ una rockstar che gioca a fare il tennista. […] Oggi Agassi compie 50 anni. n suo percorso umano e professionale ci ha detto tante cose. Una, per esempio: si cade, ci si rialza. E poi? Si cade ancora. E ci si rialza ancora. Un’altra: il suo tennis era già futuro, prima che il futuro prendesse forma. Rapidità e potenza. Un videogame fatto uomo. A diciotto anni Agassi aveva già vinto sei tornei e guadagnato un milione di dollari di premi. […] E’ l’ora di dare contabilità della sua ventennale carriera 60 titoli di singolare, 4 tornei vinti del Grande Slam (8 vittorie), la medaglia d’oro nel singolare olimpico, il Masters, la Coppa Davis. […]

Canè: «Aveva 18 anni e mi prese a pallate: pareva ping pong» (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Fu un italiano a tenere a battesimo il primo Slam da protagonista di Agassi. Nel 1988, primo turno del Roland Garros, Paolo Canè affrontò il Kid americano con più di una speranza. La storia è nota: Andre approdò fmo alle semifinali e al bolognese non resta che un ricordo piuttosto amaro. Paolo, che memorie ha di quella partita? «Lui aveva 18 anni, ma aveva già vinto dei tornei sul cemento. Insomma, lo conoscevo di fama, però ero abbastanza tranquillo: si giocava sulla terra, tre set su cinque. Mi sentivo piuttosto sicuro. Invece non mi fece toccare palla, io giocavo a tennis e lui a ping pong, ogni colpo era più veloce di quello precedente. Ho provato a rallentare gli scambi, ma continuavano ad arrivarmi missili imprendibili. E poi stava con i piedi sulla riga di fondo, giocando sempre in anticipo, impossibile spostarlo verso gli angoli (finì 6-4 6-1 6-2, ndr).

Considera Agassi un rivoluzionario dal punto di vista tecnico?

Certamente: è stato l’ultimo a innovare, portando uno stile di gioco che non esisteva ancora. Borg aveva introdotto le rotazioni esasperate, Agassi ha costruito i suoi successi sull’anticipo e sui colpi tesi e rapidissimi in avanzamento, sicuramente aiutato dall’evoluzione delle attrezzature: con le racchette di legno non ci sarebbe riuscito. Ma sarebbe un errore considerarlo solo un giocatore monocorde. Mi spiego meglio: il secondo Agassi, quello riemerso dopo i problemi di metà anni ’90, era un giocatore completo: sapeva usare la smorzata, non cercava più la soluzione dopo tre o quattro scambi ma poteva anche muovere l’avversario alla ricerca dell’angolo giusto, veniva a prendersi qualche punto a rete e ha reso il suo servizio più efficace. Con il comune denominatore che lo ha accompagnato dall’inizio alla fine: la sua risposta al servizio è stata la migliore di tutti i tempi. […]

Lei lo mette tra i grandissimi?

Assolutamente sì. Lo dicono i risultati: ha vinto tutto. E lo dice la storia: dopo di lui e il suo grande rivale Sampras, gli Stati Uniti non sono più riusciti a trovare i loro eredi. Ha stravolto tecnicamente la sua epoca come solo i fenomeni riescono a fare. E se potete andate a rivedervi la finale di Wimbledon del 1992 contro Ivanisevic, che sembrava inavvicinabile con quel suo servizio mancino. Credo sia stata una delle prestazioni più straordinarie della storia del tennis.

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