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Il Roland Garros indifeso: Nadal e gli altri campioni in carica che hanno lasciato orfano il torneo
Rafa Nadal è l’ultimo di una (breve) lista di vincitori dell’Open di Francia che non hanno giocato a Parigi l’anno successivo. Chi sono gli altri e perché non c’erano?

“Dipende se Rafa giocherà” aveva detto a Roma fa Novak Djokovic, una risposta che molto probabilmente valeva per tutti i tennisti alla domanda su chi sarebbe stato il favorito a Parigi. Quel “se giocherà” si è rivelato infaustamente premonitore: non sarà Rafael Nadal ad alzare la Coppa dei Moschettieri nel 2023. Nella conferenza stampa di giovedì 18 maggio, un tennista di trentasei anni, quasi trentasette, e dall’aspetto sereno ha affranto gran parte del mondo tennistico spiegando che il proprio corpo reclama una lunga pausa. La più immediata conseguenza sportiva di ciò è l’impossibilità di difendere il titolo del Roland Garros – il quattordicesimo messo in bacheca.
Nadal non aveva mai mancato l’appuntamento parigino dal suo esordio (con successo finale) nel 2005, ma aveva dovuto rinunciarvi l’anno precedente a causa di una frattura da stress alla caviglia sinistra. Quella del 2023 è dunque la sua prima assenza come campione in carica. Ci è allora venuta la curiosità di sapere chi altri non si fosse presentato l’anno successivo al trionfo. Curiosità che evidentemente è venuta anche a qualcun altro che ringraziamo per la rivelazione. Vediamo quindi chi sono i tennisti (maschi) dell’Era Open a non essersi presentati per la difesa del titolo, con l’auspicio (ormai la certezza, assicura lei) di non doverne farne uno anche per le ragazze.
Il viaggio parte dal maggio 1970, due anni dopo l’inizio dell’Era Open, il momento di svolta in cui i tennisti professionisti furono ammessi a giocare i tornei del Grande Slam e gli altri eventi organizzati o riconosciuti dal’ILTF fino ad allora riservati agli amatori. L’ILFT era la federazione internazionale che ancora si beava di Lawn nel nome e il Roland Garros del 1968 fu il primo Slam “aperto”. Il vincitore a Parigi nel 1969 e dunque primo della lista dei campioni uscenti-assenti è Rod Laver, il mancino australiano che nell’occasione si prese la rivincita della finale dell’anno precedente sul connazionale Ken Rosewall.
Laver, che in quella stagione vinse il Grande Slam, era sotto contratto con la NTL (National Tennis Leagues), un tour professionistico maschile fondato due anni prima. Esisteva anche un altro tour pro, il World Championship Tennis, che insieme al Grand Prix è stato il predecessore dell’ATP. Nel 1970, il WCT acquisì la NTL e con essa i contratti dei suoi giocatori. Pare quindi che, almeno in parte, proprio per via del proprio contratto Rod non partecipò a quel Roland Garros, sebbene giocò poi a Wimbledon e a Forest Hills (US Open), due degli altri eventi sotto l’egida dell’ILTF. Nel dicembre di quello stesso anno, WCT e ILTF raggiunsero un accordo, mentre quello del 1969 rimase l’ultimo Open di Francia disputato da Laver. Il suo successore a Parigi fu così il ceco Jan Kodeš, vincitore in finale su quello Željko Franulović che avrebbe diretto il torneo di Monte Carlo per quasi due decadi.
Rimaniamo nel Principato volando però al 1982 e al secondo nome della lista, probabilmente quello facile da indovinare. Nel torneo monegasco, Bjorn Borg, numero 4 del seeding, si arrende a Yannick Noah, dopo aver battuto in tre set Adriano Panatta al secondo turno. Fin qua, nulla di strano. Guardando con attenzione, tuttavia, di fianco a quel “4” che precede il nome del sei volte campione a Parigi c’è la Q di qualificato. Perché Borg rientrava da un’assenza dal circuito di cinque mesi, la più lunga fino a quel momento, ma soprattutto aveva deciso di disputare solo sette eventi del Grand Prix invece dei dieci richiesti. Sul New York Times dell’epoca, il suo coach Lennart Bergelin spiega che Borg ha deciso di non giocare il Roland Garros a causa della regola che lo obbligherebbe a passare per le qualificazioni. “Non abbiamo ancora preso una decisione riguardo a Wimbledon” aveva aggiunto. Quello di Monte Carlo era il primo torneo a cui partecipava in stagione. Sarebbe rimasto l’unico. Senza Bjorn a difendere il titolo (il quarto consecutivo), la coppa restò comunque in mani svedesi, raccolta da un diciassettenne Mats Wilander che batté Guillermo Vilas in quattro set.
Nel 1990 non era più un fattore, Wilander, mentre il numero 1 del mondo Ivan Lendl si chiamò fuori dai giochi per prepararsi sull’erba con obiettivo Wimbledon. Fuori subito le prime due teste di serie Edberg e Becker per mano di due teenager, rispettivamente Sergi Bruguera e Goran Ivanisevic, in finale – la prima slam per entrambi – arrivarono i secondi favoriti del seeding: ebbe la meglio l’underdog, il trentenne Andres Gomez sul ventenne Andre Agassi. Il mancino ecuadoriano perse però il suo feeling con la palla nei mesi successivi, chiudendo l’anno con 12 sconfitte consecutive. Nel 1991, a Madrid, vinse il suo terzo match in stagione, ma si infortunò alla coscia al turno successivo e fu quella la motivazione per cui rinunciò al Roland Garros. Tuttavia, secondo il suo ex coach Colon Nuñez fu il mediocre stato di forma di Andres la ragione principale che portò alla decisione del forfait. “L’infortunio è stata l’ultima goccia” le parole di Nuñez riportate dal Tampa Bay Times. “Non ha retto alla pressione come avrebbe potuto. Ora sta lavorando con un preparatore atletico, cercando di tornare in forma. Di sicuro possiede ancora il talento”. Agassi tornò in finale, ma fu nuovamente sconfitto, quella volta da Jim Courier.
1970, 1982 e 1991. Non succedeva da trentadue anni che il campione in carica del Roland Garros non tornasse a difendere il titolo. Allora, magari non da così tanto ma certo dopo parecchio tempo, l’imminente Open di Francia 2023 sarà un torneo… aperto.
E quello del 2024? “Dipende…”.
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WTA Pechino, il tabellone: Sabalenka e Rybakina nella parte alta. Swiatek e Gauff al debutto in Cina
I quattro bye del torneo sono stati assegnati alle quattro semifinaliste del Toray Pan Pacific Open: Pegula, Maria Sakkari, Veronika Kudermetova e Anastasia Pavlyuchenkova.

È stato sorteggiato il tabellone del China Open, l’ultimo evento WTA 1000 della stagione in programma da sabato 30 settembre. Tra conferme e attesi ritorni si rivedono tutte e quattro le prime teste di serie del ranking, a partire dalla numero 1 al mondo Aryna Sabalenka, assieme a Iga Swiatek, Coco Gauff e Jessica Pegula. Swiatek e Gauff sono pronte a fare il loro debutto in Cina. I quattro bye del torneo sono stati assegnati alle quattro semifinaliste del Toray Pan Pacific Open: Pegula, Maria Sakkari, Veronika Kudermetova e Anastasia Pavlyuchenkova.
Nella prima parte di tabellone svetta Aryna Sabalenka, al suo primo torneo come nuova numero 1 del mondo. Assieme a lei, in questa porzione di tabellone, troviamo la campionessa di Wimbledon 2022 Elena Rybakina, la campionessa di San Diego Barbora Krejcikova, e la quindicesima testa di serie Beatriz Haddad Maia. Sabalenka aprirà il suo torneo contro la rediviva Sofia Kenin. Kenin ha già vinto quest’anno su Sabalenka, battendo l’allora numero 2 nel secondo turno di Roma.
Nella seconda parte di tabellone troviamo la testa di serie numero 4 Jessica Pegula insieme alla testa di serie numero 7 Ons Jabeur. La tunisina ha vissuto una settimana intensa a Ningbo, dove ha raggiunto la sua prima finale da Wimbledon e la prima su un campo in cemento dagli US Open del 2022. Grazie al Bye Pegula inizierà il secondo turno contro Donna Vekic o Anna Blinkova. Oltre a loro le teste di serie numero 12 Petra Kvitova e Jelena Ostapenko, testa di serie numero 13.
La terza porzione di tabellone vede protagonista la campionessa degli US Open Coco Gauff, che giocherà il suo primo evento da campionessa major. La numero tre del mondo affronterà Ekaterina Alexandrova al primo turno. In questa sezione ci sono anche la campionessa di Guadalajara Sakkari e Kudermetova, che hanno dei bye al primo turno. Nella parte bassa, al suo debutto nel torneo, la numero 2 del mondo Iga Swiatek guida l’ultimo quarto del tabellone. Con lei c’è anche la campionessa di Wimbledon Marketa Vondrousova e le uniche due ex campionesse presenti nel sorteggio, Caroline Garcia (2017) e Victoria Azarenka (2012). La Swiatek aprirà contro la spagnola Sara Sorribes Tormo.
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Coppa Davis, Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è innocente
Se Jannik ha nella propria scala degli obbiettivi le ATP Finals al di sopra della Coppa Davis gliene possiamo fare una colpa?

Premessa: Fino a pochi giorni fa la rinuncia di Jannik Sinner alla convocazione in Nazionale per il round eliminatorio di Coppa Davis era un argomento di discussione confinato agli appassionati di tennis. Nelle ultime settimane tuttavia abbiamo assistito ad una vera e proprio campagna mediatica da parte della Gazzetta dello Sport, che ha dedicato ampio spazio alla vicenda; il culmine è stato raggiunto sabato scorso, quando la copertina di Sportweek – l’inserto settimanale della rosea – era proprio dedicato a Sinner. Il titolo era eloquente: “Perché il numero uno del nostro tennis ha sbagliato a dire di no alla Coppa Davis”.
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Ci siamo sentiti allora in dovere di ragionare un po’ sulla vicenda e nel seguente articolo potrete trovare le ragioni della difesa. Abbiamo immaginato insomma di trovarci in un’aula di tribunale e vestire i panni della difesa (speriamo che alla fine non ne venga fuori solo una d’ufficio).
Cari lettori, innanzitutto partiamo da un fatto abbastanza curioso che tutti avrete potuto notare: la “rosea”, solita dedicare un trafiletto in prima pagina al vincitore di Wimbledon che impallidisce di fronte a qualsiasi rumor di calcio mercato estivo, ha deciso di dedicare ampio spazio alla vicenda. Per vedere nuovamente Sinner su una copertina di Sportweek come minimo sarebbe necessario una vittoria Slam.
Pertanto, la prima richiesta che vi facciamo è quella di astrarvi dal clamore mediatico che impera in questi giorni è che appare decisamente orientato. Non facciamo dietrologia sui motivi di tali scelte editoriali, semplicemente vi chiediamo di liberare la mente delle impressioni e dei pregiudizi che potreste aver maturato in questi giorni e di dedicare 3 minuti del vostro tempo per seguire quelli che sono i fatti.
È davvero una colpa la sua?
Jannik Sinner quindi lo dobbiamo considerare colpevole? E se sì, di quali colpe si sarebbe macchiato?
Se le parole hanno un significato, allora tutti potremo concordare che nella lingua italiana si parla di colpa per indicare: “ogni azione che per qualsiasi motivo è riprovevole o dannosa, causando un pregiudizio mediante la violazione di obblighi di varia natura, anche morale”
Perdonate la pesantezza della definizione ma a volte un po’ di precisione è opportuna per organizzare un’argomentazione.
Nella definizione procedente di colpa sono due gli elementi che reggono il periodo:
- Una valutazione ex post: c’è colpa quando esiste un’azione che produce degli effetti dannosi.
- Una valutazione ex ante: c’è colpa quando ci si discosta nell’agire da uno standard morale
I rischi della sua assenza
Sotto il primo punto, valutazione ex post, analizzando i fatti, chi scrive considera che gli effetti della rinuncia alla chiamata in nazionale sono stati principalmente:
- Aumentare le probabilità di eliminazione da parte della nazionale italiana. Poiché Sinner era il nostro miglior giocatore, non aver potuto disporre del suo apporto avrebbe potuto portare la squadra azzurra all’eliminazione dal torneo.
- Incrinare potenzialmente il clima e la coesione di squadra in quanto Jannik ha anteposto le proprie esigenze di programmazione alla chiamata in Nazionale.
Tralasciamo per un attimo il fatto che la Davis sia una manifestazione che in questo momento sta attraversando un periodo di appannamento e di rinnovamento, che non assegna punti ATP e che ha perso di appeal. Tralasciamo che spesso e volentieri i migliori giocatori al mondo hanno declinato cortesemente più di una convocazione in nazionale, quando confliggeva con le loro esigenze di programmazione. Tralasciamo quindi che in questo momento storico la Coppa Davis è generalmente più attraente per quei tennisti che si trovano in posizioni di rilievo ma comunque fuori dalla top 20 e che il richiamo comincia a farsi sentire solo nelle fasi finali. Tralasciamo tutti questi elementi di contesto e concentriamoci sui punti richiamati in precedenza.
Rispetto al punto 1. – inficiare le possibilità di qualificazione della squadra italiana – il danno era da considerarsi oggettivamente modesto alla data in cui Jannik ha espresso il proprio rifiuto.
Il Canada era privo dei sui migliori giocatori, la Svezia non era un avversario temibile e il Cile poteva contare solo su un buon Jarry. Oggettivamente la qualificazione, giocando in casa anche con i vari Sonego, Musetti e Arnaldi era data pressoché per scontata.
Sotto questo punto di vista pertanto il danno arrecato da Sinner sembrava essere molto relativo. Se le probabilità di passare il turno con Jannik a Bologna avrebbero sfiorato la certezza matematica, anche senza il ragazzo di San Candido l’Italia rimaneva comunque nettamente la favorita per il passaggio del turno.
Il rischio di eliminazione c’è stato
Sfortunatamente con la sconfitta contro il Canada siamo arrivati a un passo dall’inferno e si è scatenata la solita caccia al colpevole per trovare un capro espiatorio; e allora non deve stupire che mentre Sonego e Musetti combinavano la frittata contro il Canada, il primo pensiero di tanti, Gazzetta inclusa, era quello di cercare il colpevole altrove.
All’indomani della sconfitta con il Canada allora la colpa di Jannik ha assunto ben altre proporzioni come se la squadra azzurra fosse un’armata Brancaleone come la Grecia, a cui se togliamo Tstsipas resta solo qualche buon seconda categoria.
Ma ribadiamo, il girone di Bologna sembrava benigno e la vittoria del Canada contro gli azzurri era data tanto a poco da tutte, ma proprio tutte, le agenzie di scommesse. Per cui sotto questo profilo, la colpa che poteva essere additata a Sinner va calcolata rispetto al momento in cui ha annunciato il proprio forfait ed è senz’altro lieve.
Per quanto riguarda il punto 2. – incrinare il clima di coesione di squadra – il discorso è probabilmente più complicato. Il fatto che Sinner sia considerato da tutti il miglior tennista italiano in circolazione al momento è opinione condivisa. E storicamente è un fatto che le star delle rispettive Nazionali abbiano sempre goduto di trattamenti di favore. Vi immaginate forse un pacioso Severin Luthi cazziare Federer e Wawrinka quando non si presentavano?
Non stupisce allora che anche per Jannik valgano logiche simili e che la Federazione e il capitano Volandri non abbiano nessun interesse ad entrare in rotta di collisione con la loro star.
Certo è che in Davis, Jannik ancora non ha dimostrato acuti pesanti tali da giustificare tale status. Sinner ha vinto 6 dei 7 match giocati finora in Davis con la nuova formula, ma il match più difficile è stato contro Marin Cilic, un buon giocatore, ma che nel 2021 non era certo il temibile top ten del 2017 e del 2018.
Insomma, a Jannik è stato fin qui concesso credito illimitato, che però a questo punto dovrà per forza ripagare a Malaga. In un’ipotetica semifinale contro Djokovic, Sinner dovrà dimostrare di meritare i galloni di leader, altrimenti poi sarà difficile tenere a bada i legittimi mugugni degli altri ragazzi che invece a Malaga la squadra ce l’hanno portata e che magari finiranno con l’essere esclusi dal team. Intendiamoci, non è che pretendiamo una vittoria su Nole, ma almeno una partita maiuscola, quello sì. Pertanto, sotto questo secondo punto, il giudizio è sospeso.
A giudizio di chi scrive il problema potrebbe porsi in futuro qualora Sinner continuasse a richiedere un trattamento di favore senza però trascinare la squadra con le sue vittorie nei match che contano, quelli che decidono poi se si vince o si perde il trofeo. A quel punto probabilmente ci si aspetterebbe da Volandri una programmazione e un impegno da parte dei propri uomini che richieda un’adesione completa al team, e non solo quando si allineano gli astri o quando c’è odore di trofeo.
In sintesi, se parliamo di colpa sotto il profilo di danno provocato, a Sinner si può imputare ben poco; ribadiamo, considerare a inzio settembre prima dell’avvio del girone Jannik come essenziale alla qualificazione sarebbe sembrato quasi offensivo nei confronti degli altri singolaristi, che sono tutti ampiamente nei primi 100 al mondo.
L’aspetto morale
Passiamo adesso a considerare la questione sotto un punto di vista morale, la componente che abbiamo chiamato ex ante della definizione di colpa.
In tal caso i termini del problema – come impostato dalla Gazzetta – possono essere inquadrati a piacimento. Basta qualche piccolo espediente retorico per presentare la vicenda sotto la giusta angolatura e smuovere le passioni.
Ad esempio, una delle obiezioni mosse a Jannik è quella di essere stato egoista e di essersi dimostrato insensibile alla chiamata della Nazionale. In tal caso però il contesto è importante per emettere un giudizio.
In primo luogo il tennis è uno sport individuale, che viaggia a ritmi spesso estremi, nel quale la gestione fisica è fondamentale. Se Jannik ha nella propria scala degli obbiettivi le ATP Finals al di sopra della Coppa Davis gliene possiamo fare una colpa? È un desiderio legittimo, semmai valeva la pena essere coerenti e comunicarlo chiaramente. Un po’ come Roberto Mancini che legittimamente ha scelto la strada di allenare la Nazionale saudita per una motivazione chiaramente economica ed è stato crocifisso sulla pubblica piazza. La dinamica era simile, e così come a Sinner, al Mancio può solo essere imputato di non avere rivendicato con maggiore forza la propria scelta senza trincerarsi su questioni secondarie.
In secondo luogo, mantenendo il paragone con l’ambito calcistico, quello più noto ai più, andrebbe anche ricordato che Jannik non ha disatteso una chiamata alla fase finale dei Mondiali. Il paragone più consono sarebbe quello di una mancata risposta ad una convocazione per una gara di qualificazione contro la Macedonia. Poi se la squadra incappa in una giornata dannatamente storta contro un avversario mediocre e si fa fregare, la colpa davvero è degli assenti?
Infine, sempre per restare nel campo dei giudizi morali, un ulteriore aspetto che potrebbe aver svolto un effetto moltiplicatore è quello relativo alla figura di Jannik. Sarà politicamente scorretto dirlo, ma Sinner con i suoi modi puliti, poco empatici e le origini altotesine – piaccia o meno – scatena in tanti (fortunatamente non in tutti eh!) una discreta antipatia e al ragazzo non gli si perdona quindi il minimo sgarro. Allora se Sinner si sfila e rifiuta la convocazione non è solo colpevole, è über-colpevole.
Ma pure su queste dinamiche, il povero Jannik che colpa ne può avere? Perché di questo stiamo parlando, Jannik è responsabile delle proprie azioni, non di altro. Se poi oltre a giocare bene a tennis si pretende che frequenti pure un corso di dizione questo è un altro discorso. Ma che rasenta la follia.
In conclusione per farla breve, il can can mediatico sollevato dalla Gazzetta è più che altro una panna montata che trova scarso fondamento nei fatti. Insomma a giudizio di chi scrive Jannik – seppure in modo silenzioso e senza rivendicarlo esplicitamente– dà l’impressione di sapere che il suo status all’interno della squadra è privilegiato. Malaga in questo senso sarà un crocevia importante, avrà i fari di tutti puntati addosso e sarà vietato sbagliare. D’altronde, come si dice, oneri e onori vanno di pari passo.
Coppa Davis
Coppa Davis, Jannik Sinner “caso Nazionale”: per me è colpevole
Immagine, uguaglianza e spirito di squadra: perché pensiamo che Jannik Sinner abbia sbagliato a rifiutare la convocazione in Coppa Davis

“Sfortunatamente non ho avuto abbastanza tempo per recuperare dopo i tornei in America e purtroppo non potrò far parte della squadra a Bologna. È sempre un onore giocare per il nostro paese e sono convinto di tornare in nazionale al più presto. Un grosso in bocca al lupo ai ragazzi, ci vediamo” recitava il tweet di Jannik Sinner.
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Immagine pubblica, modelli e confronti
Nonostante la chiusura con un cuore e la bandiera italiana e il durissimo match allo US Open perso con Zverev dopo 4 ore e 41 minuti, a molti la decisione non è affatto piaciuta, una motivazione giudicata insufficiente, una scusa. Tra le critiche, ha ventidue anni, c’era più di una settimana per recuperare, e allora Djokovic, che di anni ne ha trentasei e a New York ha disputato tre match in più, eppure ci sarà? Il confronto a prima vista impietoso in realtà dimentica che Novak gioca un circuito a parte in cui si presenta quando gli fa comodo (come le regole gli permettono). Nole era ancora nella fase di riposo post-Wimbledon quando Jannik vinceva Toronto, lo slam americano è stato il suo decimo torneo dell’anno (diciassettesimo per Sinner) e avrebbe poi saltato l’intera tournée asiatica.
Nonostante tutti i distinguo elencati, pensiamo (questa e ogni altra prima persona plurale da intendersi come opinione di chi scrive) che Jannik abbia sbagliato a chiamarsi fuori. Non perché l’Italia abbia rischiato l’eliminazione (quello che è successo dopo il rifiuto qui non ci interessa) e nemmeno, a prescindere da quanto detto, dalla presenza di Djokovic. Questo secondo motivo ha invero una sua validità, poiché la percezione spesso conta quanto e più di una realtà articolata. E la percezione di molti appassionati e addetti ai lavori si è risolta in un pollice verso. In alcuni casi superando il limite (sempre a nostro avviso), con frasi come quelle apparse su Sport Week della Gazzetta: “E se Jannik Sinner, il Peccatore, chiedesse scusa del suo peccato? Non all’Italia o agli italiani ma a se stesso”.
Parliamo della programmazione sportiva di un giovane atleta, non di rappresentanti delle istituzioni che calpestano la Costituzione. Perché finché si scherza sul cognome di Jannik è un conto, ma usarlo impropriamente (Sinn in tedesco significa senso, non peccato) per montare quella che sa di stantia retorica cattolica, anche no. Al contempo, troviamo ragionevole il concetto di fondo.
Tornando alla percezione, all’immagine pubblica – oltre all’innegabile fatto che un top player è anche un modello per giovani e giovanissimi –, non possiamo non rilevarne l’importanza per un professionista, anche in forza della correlazione tra apprezzamento dei tifosi e sponsor, tanto che valutazioni commerciali possono mettersi di traverso con quanto hanno in mente coach, fisio e preparatori atletici. Citiamo solo i recenti casi di Matteo Berrettini, ancora non in condizione al Boss Open di Stoccarda, e di Emma Raducanu, che ha saltato la BJK Cup (se non rimandato gli interventi chirurgici) in favore del Porsche Tennis Grand Prix di… Stoccarda. A proposito di Berrettini, l’assenza bolognese di Jannik è stata ancor più rumorosa per la presenza in panchina di Matteo: “Il suo è stato un comportamento da leader” ha commentato il presidente della FITP Angelo Binaghi.
Uno per tutti, tennis per uno
A favore della scelta di Sinner, l’obiezione per cui il tennis è uno sport individuale: il giocatore rappresenta sé stesso e decide il meglio per la propria carriera. Forse a un calciatore del Napoli non importa della propria carriera solo perché durante quei novanta o quaranta minuti passa (o non passa) la palla a un compagno libero? Calciatori, cestisti, pallavolisti, tutti possiedono verosimilmente il cosiddetto “spirito di squadra”, caratterizzato dal senso di appartenenza, dalla condivisione degli obiettivi, dalla cooperazione. Però, la squadra che si nutre di questo spirito è l’Inter, è la Virtus, è il Modena Volley, non la nazionale. Dopotutto, se il pallavolista gioca lo stesso sport che si tratti di Serie A o Mondiali, lo stesso vale per il tennista in un torneo individuale o in un incontro a squadre: Musetti era in campo da solo allo US Open ed era in campo da solo a Bologna in Davis. E, probabilmente, rappresenta più l’Italia uno dei nostri tennisti in giro per il Tour che un club del pallone in Coppa dei Campioni. Non si chiama più così? Sta’ un paio d’anni senza seguire il campionato e ritrovi un altro mondo.
Al passo con i tempi
Senza dunque grosse differenze a seconda che in campo ci siano uno o più atleti, la convocazione dovrebbe in ogni caso essere percepita come un onore: scelto per rappresentare tutti i giocatori, dagli amatori a salire, e, in ultima analisi, il Paese stesso di fronte al mondo. Se l’obiezione è, sai che sorpresa, sono il più forte di tutti, in genere le primedonne non riscuotono i favori del grande pubblico. Ma ci torneremo.
Prima è necessario considerare anche la possibile diversa percezione di questo onore tra le nuove generazioni. Perché il fatto che le critiche più aspre siano arrivate da Adriano Panatta e da Nicola Pietrangeli, il capitano della “Squadra”, quella che ha vinto la Coppa Davis nel 1976, fa nascere questo dubbio. Qui però si corre il rischio di generalizzare, di nascondere “tutte le facce dietro una sola, che è quella dei sondaggi di opinione: i giovani qua, i giovani là, i giovani un gran paio di maroni” (citazione a memoria di Ligabue, 1995) e non possiamo fare molto più che interrompere l’allenamento dei ventenni con cui condividiamo la palestra per scoprire che preferirebbero giocare nel Milan (o quella che è) che nella Nazionale. Resta vero, e lo riconoscono gli stessi Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli, che il calendario e le priorità sono cambiate rispetto a quei tempi. Quando c’era ancora la mezza stagione, signora mia.
Restando in tema di (bei?) tempi andati, c’è poi la scusante “non è più la Davis di una volta”, quindi a chi importa se ci va o no. Perché regga, però, non può essere immaginata, vale a dire che il tennista di turno lo deve dichiarare, “questo formato è una schifezza, rifiuto di esserne parte”. Novantadue minuti di applausi, poi succeda quel che succeda.
Regole: per molti ma non per…
Dallo Statuto FITP 2023: “Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della FITP, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo conferito” (art. 10, c. 2). La violazione della norma prevede che siano “puniti con sanzione pecuniaria e con sanzione inibitiva fino ad un massimo di un anno” (Regolamento di Giustizia, art. 19, c. 1). In caso di sanzione definitiva, stessa punizione per il coach (c. 3).
Ammettiamo di non aver letto l’intero Statuto neanche ai tempi dell’esame da ufficiale di gara e non possiamo quindi escludere l’esistenza di un’eccezione. Il riferimento è alle parole “assolutorie” di Angelo Binaghi: “Se l’obiettivo continua ad essere, e deve continuare ad essere, quello di vincere gli Slam – il giorno in cui questo mostro che si chiama Djokovic che tra tre, quattro anni avrà circa quarant’anni e giocherà un po’ meno – bisognerà farsi trovare pronti […]. Dunque, in questi casi bisogna fermarsi.”.
Una disparità di trattamento che non può e non deve essere legittimata, non solo in quanto l’uguaglianza di fronte alle regole è un principio basilare, bensì perché rischia di minare il citato spirito di squadra e la passione per la rappresentativa azzurra, arrivando a far percepire il “giustificato” come una primadonna che impone e antepone i propri capricci ai compagni.
Tra l’altro, se il metro di giudizio che vogliono vendere è “chi potrebbe vincere Slam fa quello gli pare”, sarebbe quantomeno opportuno che venisse delegato uno bravo a fare previsioni, dal momento che Simone Bolelli, nel 2008 oggetto di pubbliche ire binaghiane per il suo “no” alla convocazione, uno Slam l’ha poi vinto. Mentre Sinner (con quelli della sua generazione) è stato invero certificato dal proclama federale al pari dei componenti della Lost Generation e degli Original Next Gen: tennisti che per vincere titoli pesanti altro non possono fare che attendere il ritiro dell’essere mitologico chiamato Big 3, pur rimasto con una sola testa.
Fraintendimenti faziosi
Anche se non dovrebbe esserci bisogno di chiarirlo, tifare per la nazionale o sentirsi onorati di vestirne i colori nulla ha a che fare con il peggior lato del nazionalismo, che invece di bearsi dell’unicità della propria nazione la ritiene superiore a tutte le altre, quel nazionalismo che ha portato alle relative dittature del secolo scorso e alla seconda guerra mondiale, quell’ideologia che ora ritrova nuova linfa anche grazie alle risposte ignoranti (al)le sfide della globalizzazione e del nuovo millennio. No, sperare che la rappresentativa del proprio Paese vinca i mondiali di pallavolo, gli ori alle Olimpiadi, la Coppa Davis, così come credere che Jannik abbia sbagliato a rifiutare la convocazione, non c’entra nulla con quanto sopra e con il Deutschland über alles urlato dagli spalti a Zverev (gran presenza di spirito da parte di Sascha nella reazione, peraltro).
Perché, parlando con un amico, una persona può scherzare sul proprio figlio, definirlo anche un po’ scemo, ma mai accetterebbe che a chiamarlo così fosse l’altro. Allo stesso modo, quando Pietrangeli parlando “in generale” ha avuto quell’uscita infelice, quel “se non sei fiero di giocare per il tuo Paese fatti fare un certificato medico fasullo” all’interno di un discorso altrimenti sensato – condivisibile o meno, siamo qui per questo –, noi possiamo spingerci nella satira dicendo che quel certificato è forse il vero simbolo dell’italianità. Ma se ce lo rinfacciassero un francese, un russo, un americano, beh, non gliele manderemmo a dire.
In conclusione, a dispetto degli infiniti episodi di becera quotidianità, non viviamo nel caos e accettare con entusiasmo la convocazione significa anche rappresentare un ideale di cooperazione alla cui altezza nessuno di noi è in grado di vivere. Per questo, pur rifiutando la dicotomia innocentisti/colpevolisti, soprattutto nella parte in cui si addossano colpe, riteniamo che Jannik abbia sbagliato. E che Volandri sbaglierebbe se lo chiamasse per la fase finale di Malaga. Poi, il 2024 è un altro anno.