Lo Tsitsipas furioso. Scoppia, doma Rublev. E' finale con De Minaur. Chung re un anno fa, detronizzato dai troppi infortuni (Crivelli). Fed Cup, finale senza stelle tra le ceche e gli Usa (Cocchi). La resa dei conti è tra De Minaur e Tsitsipas (Semeraro). Federer: "Io oltre i limiti". Djokovic: "Ho rimesso a posto tutto il puzzle" (Marcotti). Il tennis delle vecchie speranze (Medina)

Rassegna stampa

Lo Tsitsipas furioso. Scoppia, doma Rublev. E’ finale con De Minaur. Chung re un anno fa, detronizzato dai troppi infortuni (Crivelli). Fed Cup, finale senza stelle tra le ceche e gli Usa (Cocchi). La resa dei conti è tra De Minaur e Tsitsipas (Semeraro). Federer: “Io oltre i limiti”. Djokovic: “Ho rimesso a posto tutto il puzzle” (Marcotti). Il tennis delle vecchie speranze (Medina)

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Lo Tsitsipas furioso. Scoppia, doma Rublev. E’ finale con De Minaur (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Per quest’anno serve ancora l’invito, ma Tsitsipas e De Minaur a Londra ci andranno presto, e non solo per ricevere il premio di giocatore maggiormente migliorato e giocatore emergente dell’anno. Intanto, onorano e illuminano la seconda edizione delle Next Gen con una finale tra il numero uno e il numero due, anche se il greco deve battagliare due ore e otto minuti per disinnescare il servizio-dritto di Rublev, un match così intenso che Stefanos a un certo punto perde la testa e spacca le cuffie per il coaching. E poi chiamatela esibizione di lusso. EREDI Nella sfida scioglilingua tra De Minaur e Munar (infatti il primo giorno allo speaker è scappato un De Munar, riferendosi allo spagnolo), per tanti scambi è sembrato di fare un balzo indietro nel tempo, oppure di maneggiare un videogame di tennis con i grandi degli ultimo quindicennio. Insomma, uno Hewitt contro Nadal 2.0. Non a caso, Lleyton è il mentore dell’australiano, tanto da ospitarlo spesso a casa nelle more dell’attività e Rafa sta allevando Jaume nella sua Accademia di Maiorca, isola natale di entrambi. Un match tiratissimo, che al netto di qualche errore di esperienza e gioventù conferma la crescita impetuosa di due ragazzi che a giugno, è bene ricordarlo, giocavano ancora (e vincevano) i Challenger di Nottingham e Caltanissetta. Ricordi di un passato che non tornerà più: De Minaur ha guadagnato 177 posizioni (da 208 a 31) in dieci mesi, Munar è numero 76 e a Milano ha mostrato di aver già appreso una delle doti più spettacolari del suo maestro di Manacor, la tigna di non mollare mai nemmeno quando la testa è sotto l’acqua. GAMBE Vince Alex, il figlio di un uruguaiano e di una spagnola nato a Sydney ma residente ad Alicante, dove si allena da cinque anni, perché per il momento è un progetto più affinato e completo con un’innata capacità di coprire il campo e di aprirselo con accelerazioni micidiali dopo una costante pressione da fondo, sostenuta da gambe eccezionali. L’aussie dallo spirito latino arriva a malapena al metro e ottanta, perciò ha costruito sulla corsa, la velocità degli spostamenti e le qualità difensive la piattaforma tecnica per aprire il cuore di Rafter già nel 2016, quando pronosticò per lui la top ten in cinque anni (e potrebbe essersi sbagliato per difetto) e l’ammirazione di Murray, espressa in un tweet a gennaio durante la finale che il ragazzino perse a Sydney: «Se rinasco, vorrei crescere come De Minaur. Che attitudine, è un piacere vederlo giocare». E del resto lo chiamano Demon, per la velocità con cui fulmina gli avversari e perché non lascia nessun punto senza combattere: «E pensare che a 15 anni – ha rivelato – ero piuttosto goffo e con i piedi troppo grandi». TESTA Accanto al fisico, però, sta sviluppando una mentalità e un atteggiamento che lo distinguono di molto dai bad boy suoi connazionali Tomic e Kyrgios. In campo non è mai sopra le righe, dimentica subito errori e prodezze per focalizzarsi immediatamente sul punto successivo. Dopo un primo set in cui Munar lo irretisce senza fargli leggere le traiettorie del servizio e pizzicandolo con il dritto incrociato, lasciandosi andare a esultanze decisamente mutuate da Nadal e che già hanno scatenato i fan sui social, Demon passo dopo passo diventa padrone della partita, disegnando il campo con geometrie perfette e parabole profondissime. Ma quando arriva il momento di chiudere, quattro match point nel sesto game del quarto set, Alex cincischia, soprattutto su una facile volée di rovescio, e finisce per regalare il parziale al maiorchino minore. Bravissimo Munar a non cedere, straordinario lui a ricomporsi e a chiudere finalmente al sesto match point con enorme forza mentale. Merito dello psicologo, cui non ha esitato a affidarsi fin da quando si allena in Spagna: «Dovendo affrontare parecchie situazioni difficili, parlare con lui fa una grande differenza. Infatti lo sento molto spesso». Il Demone non scherza


Chung re un anno fa, detronizzato dai troppi infortuni (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Maestrino dagli occhiali blu, dove sei? Appena un anno fa, Hyeon Chung si iscriveva nel suo piccolo alla storia del tennis sigillando con la solidità e la concretezza di un gioco senza fronzoli e appoggiato su due gambe di caucciù la prima edizione delle Next Gen Finals. Milano ai suoi piedi come era già successo, absit iniuria verbis, anche a Federer, che proprio in città conquistò il primo successo in carriera. INFORTUNI Un trionfo contro pronostico, quello del soldatino coreano, ma confortato da una continuità e da una tenacia che solo gli infortuni avrebbero potuto annacquare. Appunto. Dopo tre mesi in volo, sulle ali della vittoria italiana, culminati nella semifinale degli Australian Open persa proprio contro Federer e i quarti a Indian Wells e Miami, tanto da salire addirittura al numero 19 del mondo, Chung è ricaduto, suo malgrado, nell’antico vizietto. Già nel 2016 aveva perso quattro mesi di attività tra la primavera e l’estate per un infortunio muscolare all’addome, saltando Parigi e Wimbledon. Doppietta negativa ripetuta quest’anno a causa di una caviglia infiammata con versamento di liquido che l’ha obbligato a un piccolo intervento chirurgico. E quando è rientrato, a luglio a Atlanta, il suo rendimento non ha mai toccato i vertici di inizio stagione, tra l’altro con costanti problemi di vesciche ai piedi. L’ultima sua immagine è il ritiro (guarda caso) contro Fognini nei quarti a Stoccolma un mese fa. Le cronache lo danno a Seul a allenarsi, la classifica resta eccellente (numero 25) ma in avvio di 2019 gli scadono cambiali pesantissime. MILIONARI Le Next Gen, in ogni caso, restano una benedizione per quasi tutti i protagonisti. Per dire: con il montepremi accumulato fin qui nelle partite di questa edizione, De Minaur, Tiafoe e Rublev hanno superato il milione di dollari guadagnati in stagione, diventando rispettivamente il 55°, 56° e 57° giocatore a riuscirci nel 2018 (nel 2013 furono appena trenta). Ma dietro un mondo che inizia a essere dorato, si muovono migliaia di ragazzi che trovano un muro invalicabile nel passaggio dai tornei juniores al professionismo. Per questo l’Itf, che gestisce tutta l’attività giovanile, nel 2019 lancerà l’Itf World Tennis Tour: la novità più grande è che i tornei da 15.000 dollari, il gradino più basso del professionismo, non daranno più punti Atp o Wta, ma una classifica che servirà a accedere ai tornei di livello superiore. Nei tornei da 15 e 25.000 dollari ci saranno poi posti riservati ai migliori juniores. Chi non supererà lo scoglio dei tornei Itf, non avrà perciò punti Atp. L’obiettivo è di ridurre la pletora di semiprofessionisti che non riescono a mantenersi con il tennis.


Fed Cup, finale senza stelle tra le ceche e gli Usa (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Si chiama 02 Arena, proprio come l’impianto che ospita le Finals maschili che partono domani a Londra, ma è a Praga dove oggi e domani scatta la finale di Fed Cup tra la Repubblica Ceca e Stati Uniti. Sul veloce indoor di questo campo le padrone di casa non hanno mai perso: hanno infatti sconfitto la Serbia nel 2012, la Germania nel 2014 e la Russia nel 2015. La Repubblica Ceca punta ad aggiudicarsi, contro le campionesse in carica, il sesto titolo nelle ultime otto edizioni. Il bilancio dei precedenti però vede gli Usa in vantaggio per 10 a 2. NIENTE STAR Una finale povera di grandi nomi visto che entrambe le squadre devono fare a meno delle loro stelle. Gli Stati Uniti sono arrivati senza le Williams, ma anche Stephens, Keys e Vandeweghe hanno dato forfeit lasciando spazio a Kenin e Riske come singolariste. Le padrone di casa hanno dovuto registrare il forfeit di Petra Kvitova, fermata dall’influenza, e di ‘Karolina Pliskova anche lei fermata qualche giorno fa da un malanno


La resa dei conti è tra De Minaur e Tsitsipas (Stefano Semeraro, Il Corriere dello Sport)

Fra le tante finali possibili, a Milano oggi andrà in scena quella più giusta: Stefanos Tsitsipas contro Alex De Minaur, il Profeta contro il Demonio, i due meglio classificati nel ranking mondiale dei Next Gen di quest’anno. A Londra, dove domani iniziano le Atp Finals, il 20enne Tsitsipas è stato premiato come tennista più migliorato dell’anno (era numero 91 a inizio 2018, oggi è numero 15), al 19enne De Minaur, numero 31, è andato il riconoscimento di miglior debuttante. Gli otto Maestri londinesi in smoking ieri si sono scattati un selfie nella metropolitana, ed è lì che si celebrerà il vero galà di fine anno, ma c’è una nuova linea tutta tennistica che unisce presente e futuro del circuito, e la fermata che precede la 02 Arena è quella di Rho Fiera. RISERVA. Tsitsipas, la riserva dello scorso anno, nella seconda semifinale ha impiegato 5 set e tre tie-break da brivido, punteggiati di qualche errore e troppo nervosismo – vedi la cuffia audio distrutta dopo il secondo break, con annesso infortunio all’indice destro e warning – per sbarazzarsi di Andrey Rublev, n.68 Atp, finalista lo scorso anno. Un passaggio di consegne, ma molto meno facile di quanto ci si aspettava (4-3 3-4 4-0 2-4 4-3). Ma già la prima semifinale fra i due gemelli diversi Munar e De Minaur era stata una battaglia e al quinto set e all’ultimo nervo (3-4 4-1 4-1 3-4 4-2). Il pupillo di Nadal contro l’erede di Hewitt, la stessa idea (non mollare mai) messa sul campo con due stili diversi: più da terraiolo adattato quella di Munar, che in qualche recupero con annesso pugnetto agitato in aria è sembrato davvero la carta carbone (destrorsa) di Rafa. Più leggero ma soffocante, in puro stile Hewitt, quello di Alex il Demonio, una faccetta da elfo che ricorda il vecchio Rosewall e i piedi sempre piantati nei dintorni della riga di fondo. Munar è entrato meglio nel match, vincendo al tie-break (7-5 con ace finale) un primo set tiramolla, poi è andato sotto nettamente nel secondo e nel terzo. Nel quarto, schiacciato a fondo dal ritmo infernale del piccolo diavolo, Munar si è affacciato sul baratro di quattro match point sul 3-2 per l’avversario, ma li ha annullati tutti con ‘garra’ assoluta (e un po’ di fortuna) poi ha pareggiato il conto con un secondo tie-break, fra errori millimetrici e scambi interminabili e spettacolari, spesso in un duello sottorete. De Minaur, apparentemente freddo fuori ma incandescente dentro, si è coperto la testa con l’asciugamano durante il cambio campo («ero arrabbiatissimo con me stesso, dovevo ritrovare la concentrazione») e quella manciata di secondi si è resettato alla perfezione. Ha ricominciato a sventagliare palline negli angoli, si è fatto annullare anche il quinto matchpoint, ma ha poi chiuso al sesto per 4-2, evitandosi il brivido di un terzo tie-break. «Di finali quest’anno ne ho perse parecchie (nei due Atp 250 di Sydney e Washington e nei due Challenger di Surbiton e Alicante, ndr), questa volta voglio vincere». BAGNO. Interviste, bagno ghiacciato, massaggiatore, un’occhiata alla partita fra Tsitsipas e Rublev, poi a nanna. Oggi alle 21 per il Demonio c’è un Profeta greco da stregare.


Federer: “Io oltre i limiti” (Gabriele Marcotti, Il Corriere dello Sport)

A Londra per inseguire il centesimo alloro in carriera. Inizia domani, contro il giapponese Kei Nishikori, la corsa di Roger Federer alle Atp Finals. All’appuntamento finale della stagione, il 37enne svizzero dovrà ribaltare i favori dei pronostici, che indicano nel numero 1 al mondo, Novak Djokovic, il tennista da battere. Nel 2018 Federer ha già vinto quattro tornei, compreso il ventesimo Slam, ma giura che la cifra tonda non diventerà mai un’ossessione. LE SUE ASPETTATIVE. «Non importa dove vincerò il mio centesimo titolo, conta solo riuscirci – le parole del nr 3 al mondo – Spero che accada al più presto, ma vincere qui significherebbe solo vincere un grande torneo». Che il campione di Basilea ha già vinto sei volte (record). «Amo giocare questo torneo, è sempre stato così fin dalla prima volta che mi sono qualificato nel 2002. A quel tempo era il massimo che avessi raggiunto in carriera, essere tra i migliori otto al mondo». Nonostante l’empatia straripante con il pubblico della O2 Arena, l’ultimo trionfo di Federer sotto la cupola di Londra risale ormai al 2011. Sette anni di digiuno, che – secondo alcuni – suggeriscono la crescente stanchezza dello svizzero a questo punto della stagione. «Ma non penso che sia una questione fisica. Merito piuttosto dei miei avversari che nei singoli match hanno giocato meglio. E poi quando giochi al meglio dei tre set, non basta neppure essere dominante, perché le partite girano molto velocemente». Positivo il bilancio del 2018, con 46 vittorie e solo 8 sconfitte, che gli hanno garantito il pass delle Finals per la sedicesima volta consecutiva. Se il centesimo titolo in carriera è l’obiettivo più vicino, il record di tornei vinti da Jimmy Connors (106) non è poi così lontano. «Avrei firmato subito dodici mesi fa per una stagione come questa. Per non parlare di due anni fa quando ero infortunato. Ma anche cinque anni fa non avrei mai sperato di essere a questi livelli a 37 anni. Ho vinto uno Slam, ho giocato tante volte bene. Purtroppo Wimbledon e gli US Open non sono andati bene come sperato, ma sono state le uniche delusioni della stagione. Ho giocato molto bene in Australia e vinto il mio torneo a Basilea, è stata una stagione solida, senza grandi infortuni, che resta la cosa più importante. Spero solo di non andare in vacanza con tre sconfitte». Contro il primo avversario di domani, Nishikori, non perde da quattro anni: sei vittorie di fila, 7-2 il parziale. FUTURO FINALS. Per il decimo anno consecutivo (e fino al 2020), dunque, è Londra ad ospitare le Atp Finals, ultimo torneo della stagione. Ma già si comincia a pensare a quale sarà la prossima sede, una volta terminato l’attuale contratto. Sono almeno quaranta, Londra compresa, le città che hanno avanzato la propria candidatura per ospitare l’evento conclusivo della stagione. Se Djokovic ha auspicato un cambio di sede, Federer vota la continuità. ‹Dipende molto dalle alternative. Ma se la gente qui continua a venire in gran numero a vederci, non vedo perché dovremmo cambiare. A meno che si presenti un’altra città con una proposta ancora migliore. Londra ha trovato la formula vincente e la gente è competente. Dopo Parigi-Bercy, è anche conveniente logisticamente. Ricordo quando si giocava ad Houston e a Shanghai, non era facile con gli spostamenti». Ma da perfetto ambasciatore del suo paese, Federer lascia aperta la porta del cambiamento, senza schierarsi troppo apertamente per una soluzione. «In ogni decisione la prima cosa da tenere in considerazione è la promozione del tennis, cosa sia meglio per il tour».


Djokovic: “Ho rimesso a posto tutto il puzzle” (Gabriele Marcotti, Il Corriere dello Sport)

Come in una staffetta. Un passaggio del testimone, da Roger Federer a Novak Djokovic, votato dalla maggior parte dei suoi colleghi per il premio “Comeback Player of The Year”. Inevitabilmente. Un ritorno in cielo, quello del campione serbo, stupefacente. Per rapidità, imprevedibilità, efficacia. Prima degli Internazionali d’Italia aveva vinto solo sei match, e ne aveva persi altrettanti. Dopo Roma il bilancio è impressionante: 43 vittorie in 48 incontri disputati. Un record che gli ha regalato due Slam e due Masters 1000. E che lo ha riportato dal gradino numero 22 del ranking mondiale al tetto del mondo. Dove festeggerà il Natale, a prescindere dall’andamento di questa settimana alla O2 Arena. «Come per gli Slam, il numero 1 del ranking è il massimo per noi tennisti. Dunque non posso che essere estremamente orgoglioso di chiudere la stagione così. Ovviamente è un risultato ancora più speciale per quello che ho vissuto negli ultimi quindici mesi. Dopo l’operazione al gomito in febbraio, sembrava piuttosto improbabile poter essere in questa posizione alla fine dell’anno. Non solo per la classifica ma per come stavo giocando. Ma ci ho sempre creduto, non ho mai pensato che fosse impossibile. Sapevo che avevo bisogno di un po’ di tempo. Gli ultimi sono stati cinque mesi perfetti, mi dispiace solo di aver ottenuto la matematica certezza di chiudere l’anno da n.1 dopo l’infortunio di Rafa (Nadal – ndr)». Un Natale da re come gli era capitato già altre quattro volte (l’ultima nel 2015), e che lo porta a raggiungere Federer e Jimmy Connors, tutti però dietro al solo Pete Sampras (6 volte primo d’inverno). Ma Nole non è stato l’unico del team Djokovic ad aver ricevuto un premio: il suo allenatore, Marian Vajda, è stato votato “coach dell’anno”. E dire che Vajda è tornato nel box del campione di Belgrado solo ad aprile. «Marian è molto più di un coach per me, è un amico, un membro della mia famiglia, qualcuno su cui posso sempre fare affidamento. Anche quando per dodici mesi non abbiamo lavorato assieme, siamo sempre stati in contatto. Il nostro rapporto va oltre il tennis, parliamo di tutto, della vita e dei nostri affetti privati. Gli devo molto perché ha accettato di tornare nel team dopo la fine del rapporto con Roddick, quando sentivo di aver bisogno di ritrovare le basi del gioco». Ma anche quell’equilibrio interiore smarrito da troppe distrazioni. Dentro, ma soprattutto fuori dal campo. «Dopo aver vinto il Roland Garros, nonostante abbia sempre amato questo sport, il tennis era diventato solo fatica. Non riuscivo emotivamente a trovare nuovi traguardi, avendo vinto tutti tornei principali. Devo ringraziare anche Martina Navratilova con la quale ho parlato a lungo di questo momento, che prima o poi passano tutti. Le motivazioni possono anche venire da fuori, nel mio caso la nascita di mio figlio che mi ha trasmesso tanta energia. Negli ultimi mesi tutti i pezzi del puzzle si sono incastrati. E non solo come tennista, ma anche come marito e padre penso di aver dato il mio meglio. Ma se questo continuerà non lo posso sapere, non ho la sfera di cristallo”.


Il tennis delle vecchie speranze (Giulia Medina, Il Foglio)

E’ un destino feroce e ingrato quello che costringe a vivere all’ombra dei giganti. Il sole non splende mai. Annunciando il suo ritiro Michael Jordan disse: Non invidio quelli che arriveranno dopo di me”. Era sincero, gli sembrava di sentire tutti i paragoni ingombranti a cui avrebbero sottoposto i suoi eredi. Il basket senza di lui non sarebbe stato lo stesso. Se ne sarebbero fatti una ragione: la vita continua, lo sport anche. Dieci anni fa, alla fine della stagione, i tre tennisti più forti del mondo erano Rafa Nadal, Roger Federer e Novak Djokovic. Cosa è cambiato rispetto ad allora? Niente, praticamente niente. I padroni del campo e della classifica sono ancora loro. Il futuro rimane a guardare, non era pronto due anni fa, non lo è nemmeno adesso. Nel 2008 l’età media dei top 10 era di 23,9 anni. Il giocatore più anziano del gruppo, James Blake, aveva 29 anni e sapeva che il suo tempo stava per scadere. Era pronto a cedere il posto ai giovani. Nel 1998 il numero uno al mondo era Pete Sampras, 27 anni, dopo di lui c’erano Marcelo Rios e Alex Corretja, 22 e 24 anni; l’età media era di 25 anni. I 30 anni facevano paura, rappresentavano un ultimatum, l’inizio del tramonto, il momento in cui il corpo presenta il conto e la schiena dichiara la propria resa. Oggi è cambiato tutto: fra i primi dieci al mondo, sette giocatori sono over 30. Il più anziano di tutti, a 37 anni, è Roger Federer, che due settimane fa a Basilea ha conquistato il novantanovesimo titolo in carriera. “È divertente – ha commentato lo svizzero a fine partita – L’anno scorso vinse il coreano Chung Hyeon. Dissero che era nata una stella. Ma di lui si sono perse le tracce. Nessuno sa quello che può ancora succedere”. Beati gli ultimi, ma mica tanto, chissà se riusciranno mai a diventare primi. Qui si fa la storia, loro non la stanno giocando. Sono giovani e belli, hanno muscoli e ossa baciate dai vent’anni, mostrano i denti, non sono capaci di mordere. La sorpresa di fine stagione è stata la finale giocata dal ventiduenne russo Karen Khachanov contro Novak Djokovic al torneo di Parigi Bercy, ultimo Master 1000 del 2018. Ha vinto Khachanov, non ci avrebbe scommesso nessuno. La Next Gen, se la Natura non comincia a fare il suo dovere, rischia di diventare Ex Gen. Federer, Djokovic e Nadal sono un miracolo per chi li guarda, una condanna per chi è costretto a vivere alle loro spalle. Per tutti sono esempi da seguire, modelli da imitare, poster appesi in cameretta. Ma con tutto il rispetto e la riverenza di cui sono capaci, il pensiero delle giovani promesse è: “Quand’è che andrete in pace e lascerete vincere un po’ anche noi?”. Nell’attesa, nel 2017, la Atp ha creato un nuovo torneo che si sta giocando in questi giorni a Milano: le Next Gen Atp Finals, riservato ai migliori under 21 del mondo. L’anno scorso, nella prima edizione, ha vinto il coreano classe 1996 Chung Hyeon. Sembrava che fosse nata una stella, dopo quel titolo e le semifinali agli Australian Open nel gennaio scorso, di lui si sono perse le tracce. Quest’anno i migliori otto sono: Stefanos Tsitsipas, testa di serie numero uno e grande favorito per la vittoria, Denis Shapovalov, Alex De Minaur, Frances Tiafoe, Taylor Fritz, Andrey Rublev, Jaume Munar, Hubert Hurkacz e l’azzurro Liam Caruana (che è numero 622 al mondo ed è entrato nel tabellone principale grazie a una wild card che spetta di diritto al paese che ospita il torneo). Le Next Gen Finals sono un modo per sperimentare le nuove regole che il tennis sta pensando di adottare in futuro: set più brevi, di 4 game con tiebreak a 7 punti sul 3 pari, killer point al posto dei vantaggi sul 40 pari, no let rule (abolizione della regola del nastro sul servizio), tempi di riscaldamento più brevi e minor tempo di recupero tra un punto e l’altro (25 secondi tassativamente scanditi da un orologio a bordo campo). È sempre tennis, ma sta cercando di adattarsi ai nuovi ritmi e ai tempi rapidi della televisione e dello spettacolo. Nessuno dei giocatori si è lamentato, il nuovo format aumenta la dose di imprevedibilità, ma è una questione di abitudine: alla fine vince sempre il migliore. E i migliori, fuori da Milano e da un torneo creato ad hoc, non sono loro. Soltanto due degli otto giocatori hanno già vinto qualcosa, Tsitsipas a Stoccolma e Tiafoe a Delray Beach, Florida. Entrambi i giocatori hanno conquistato un Atp 250, il gradino più basso dei tornei professionistici. Alla loro età Rafa Nadal aveva già vinto due volte il Roland Garros. Lo spagnolo nel 2004 portava i capelli lunghi e indossava maglie smanicate. Aveva lo sguardo da adolescente indemoniato, i venerati maestri della terra rossa si trovarono costretti a stringergli la mano e ad accomodarsi all’uscita, furono loro i primi a soprannominarlo “il cannibale” e non avevano torto. Quanto avrebbe potuto vincere se non avesse incontrato Federer e Djokovic a ostacolargli il cammino? È un discorso che vale anche al contrario. In tre hanno conquistato 51 titoli del Grande Slam in 15 anni. Da dieci stagioni la vetta del mondo è una questione che riguarda soltanto loro. Cosa ne è stato degli altri? Dimitrov, Kyrgios, Nishikori e tutte le altre vecchie speranze sono state travolte dalla forza della leggenda. Gioventù bruciata: sono arrivati, hanno visto, hanno perso. Il tennis non aveva bisogno di loro. E adesso? I nuovi ventenni vivono di luce riflessa, giocano portandosi addosso il peso di un’eredità che non saranno in grado di sostenere. Il passato è stato immenso, è ancora presente, il futuro è fragilissimo. Alexander Zverev, il giovane più promettente, a 21 anni è il numero 5 del mondo. Quest’anno, com’era già successo nel 2017, non ha partecipato al torneo di Milano perché è impegnato nelle Atp Finals (quelle vere, senza limiti di età) che cominciano domani a Londra, tra i migliori otto giocatori al mondo. Zverev e Dominic Thiem sono gli unici “ventenni” ad avere ottenuto la qualificazione, tutti gli altri, Djokovic, Federer, Cilic, Isner, Anderson e Nishikori, hanno più di trent’anni. In questa edizione faranno il loro debutto nel torneo Isner e Anderson, classe 1985 e 1986. Björn Borg decise di abbandonare il tennis a 25 anni. Era il 1980 e lui aveva appena perso la finale degli Us Open contro John McEnroe. Undici titoli del Grande Slam vinti, 6 Roland Garros e 5 Wimbledon, gli potevano bastare. La sua vita è continuata, il tennis anche. Ma quelli erano altri tempi, erano altre teste, era un altro sport

 

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