ATP e WTA Miami, (s)punti tecnici: la standardizzata solidità di Novak Djokovic

(S)punti Tecnici

ATP e WTA Miami, (s)punti tecnici: la standardizzata solidità di Novak Djokovic

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Il torneo di Miami ci lascia una certezza, la superiorità di Novak Djokovic, e un timore, l’omologazione tecnica quasi irreversibile del tennis

La standardizzata solidità di Novak (e il rovescio di Carla)

Con la conclusione del combined di Miami, siamo giunti a un quarto della stagione 2015. Adesso si va per un paio di mesi sulla terra rossa, poi quattro-cinque settimane di erba, e poi di nuovo duro fino alla fine dell’anno. Ma è difficile aspettarsi di vedere cose diverse o più interessanti di quanto espresso finora dai giocatori di alto livello tra l’Australia e l’America, vale a dire veramente, ma veramente poco.

Le tre grandi (o meglio: importanti) finali giocate finora, cioè Melbourne, Indian Wells e Miami, hanno avuto lo stesso vincitore, il numero uno del mondo Novak Djokovic, che ha battuto due volte Andy Murray e una Roger Federer, rispettivamente numeri tre e due del ranking. Di questi match, l’unico che ha offerto qualche risicato spunto di interesse a livello tecnico-tattico è stata la partita con lo svizzero, per merito di quest’ultimo e della sua reazione d’orgoglio e classe, con la quale ha forzato Nole a un terzo set comunque poi portato a casa senza grossi sussulti dal serbo. Intendiamoci: il merito di Federer è stato solo l’aver rotto gli indugi quando ormai sembrava spacciato, mettendosi alla ricerca della verticalizzazione, dell’anticipo e dell’attacco a tutti i costi, movimentando così almeno qualche game di un confronto altrimenti bloccato, come sempre avviene, nello schema della pressione da fondocampo. Per il resto, pallate e basta (belle, tecnicamente eleganti, eccetera, ma sempre pallate sono) anche da parte di Roger.

Come Federer, anche Andy Murray un set a partita con Djokovic è riuscito a vincerlo, ma non avendo l’attitudine offensiva (più che le capacità vere e proprie, Andy in avanti non sarebbe affatto male, ma ce lo devono mandare a pedate a rete) di Roger, lo ha fatto sfruttando al massimo il suo gioco di rimessa, contrattacco se possibile, e solita pressione con i fondamentali da dietro, dando tutto dal punto di vista psico-fisico, e pagandola così carissima con i due 6-0 subiti nei parziali conclusivi sia agli Australian Open che a Miami.

Stranamente, i primi sei-sette game della finale di ieri sera hanno visto Andy e Nole mettere in campo un tennis molto più aggressivo del solito, il che ha prodotto qualche buona cosa in particolare con i passanti dello scozzese e i drop-shot del serbo, ma soprattutto un campionario di “orrori” sottorete davvero difficile da osservare a questi livelli. Da approcci sbagliati sia come scelta di traiettoria che come rotazione, passando per posizionamento e copertura della rete a dir poco approssimativi, finendo con volée tremebonde e appoggiate, così come smash non chiusi o addirittura sbagliati in modo imperdonabile. Esempio perfetto di questo, il secondo punto del match: seconda di Nole, Andy a rete dietro una buona risposta, passante alto, volée da chiudere appoggiata malissimo da Andy, pallonetto di Nole che segue in avanti, passante lento in recupero di Andy, da aggredire e fare un buco per terra, ma Nole volée ancor peggiore, messa di là senza senso, Andy recupera e spara addosso a Nole che blocca d’istinto riuscendo in un ulteriore pallonetto molto fortunoso, errore finale di Andy. Un punto che Becker ed Edberg avrebbero chiuso tre volte a testa in scioltezza, anche adesso a 45 anni suonati (e pure Mahut o Stepanek, senza scomodare i mostri sacri della volée).

Un paio di break per ciascuno, sufficienti per capire che era meglio lasciar stare i sogni di gloria all’attacco e al volo, e i due finalisti sono immediatamente ritornati nella loro “comfort zone” tecnica, ovvero l’ossessiva ragnatela in pressione da fondo, e da lì non si sono più schiodati, salvo quando qualche palla che gridava vendetta se non seguita in avanti li ha costretti alla rete, e nonostante questo hanno ottenuto un 50% scarso di punti al volo, e lo ripeto, nella stragrande maggioranza dei casi erano discese “a chiudere” dietro botte quasi definitive, non certo discese “a giocarsela al volo” dietro approcci pensati per posizionarsi bene e poi trovare volée efficaci. Un tempo, limitarsi a bloccare una risposta al servizio mettendola di là era quasi sempre punto perso, le belve da rete che scendevano dietro quei servizi te la piazzavano tagliata sotto e profondissima, e poi passarli era un incubo. Oggi è paradossalmente diventata una soluzione molte volte vincente, perchè obbliga i picchiatori da fondo a venire avanti a tirar su un colpo basso e scomodo, destabilizzandoli e portandoli in una zona di campo non ben padroneggiata, per poi trovarsi spesso fuori posizione e in balia del successivo passante del ribattitore.

Djokovic è semplicemente più forte di Murray (e attualmente di chiunque) nello stesso, unico tipo di gioco, e come sempre avviene in questi casi, pur messo a tratti in difficoltà da uno scozzese che si è spremuto fino all’ultima goccia di energia, ha finito per prevalere alla distanza esattamente come a Melbourne. Ricordo di aver pensato, guardando dal vivo quella partita, che lo spettacolo della resistenza e dell’intensità fisica, atletica e mentale era certamente notevole, ma il fatto che fosse la sola discriminante, il che si capiva perfettamente fin dall’inizio, era un sintomo decisamente preoccupante per chi ama la tecnica e la strategia in tutte le loro declinazioni e varietà. Fondamentalmente, ce ne stavamo lì in quindicimila ad aspettare chi dei due avrebbe ceduto per primo, con la quasi certezza che sarebbe stato Murray, date le sovrumane doti psico-fisiche di Djokovic. Altri spunti di interesse o di incertezza, riguardo al tennis intendo, come avviene (avveniva?) quando un campione sorprende avversario e pubblico con una soluzione inaspettata, o una finezza di tocco, non pervenuti o quasi. Non credo che gli spettatori in tribuna a Miami, e l’ottimo NoMercy a cui tengo a fare i complimenti, abbiano avuto granchè di più dal match di ieri, e non riesco davvero a vedere come questo possa essere una buona cosa per il nostro sport.

Nole è il campione perfetto del power tennis moderno, fa esattamente quello che fanno tutti gli altri, e lo fa nettamente meglio, ma proprio questa sua superiorità, ultra-specializzata, nell’unico tipo di tennis vincente adesso, rende terribilmente evidente la sua disabitudine e le sue incertezze quando si ritrova dalla riga del servizio in avanti (beninteso, sempre relativamente stiamo parlando, è che da un numero uno tanto dominante non ci si aspetterebbero intere sequenze di volée quasi mai spinte e profonde, e diversi smash tirati in modo goffo a dire poco). Personalmente ammiro e apprezzo moltissimo Paolo Bertolucci al commento tecnico, ma non ho potuto fare a meno di sorridere all’ennesimo “impressionante!” o “fenomenale!” esclamati ieri sera per accelerazioni in anticipo belle, difficili, potenti, tutto quello che volete, ma sempre lì siamo, pallate dopo il rimbalzo. Se il mitico Paolone applicasse questo stesso metro di giudizio tecnico (a cui è obbligato dal tennis di oggi, purtroppo) commentando un Sampras – Rafter o un Navratilova – Graf d’annata, dovrebbe saltare in piedi gridando al miracolo trenta volte a set.

All’orizzonte non si vede nulla di diverso, i giovanotti rampanti, da Kokkinakis a Coric, da Kyrgios a Zverev, sono bravi e dotatissimi, ma rimangono dei picchiatori dalla riga di fondo. Un giorno qualcuno di loro raggiungerà e scavalcherà Djokovic, ma lo farà sempre nello stesso modo, quando Nole non sarà più in grado di reggere fisicamente o mentalmente. Oppure potrebbe farcela uno degli appartenenti all’unica altra “razza tennistica” attualmente competitiva, quella dei bombardieri servizio-dritto, altissimi e meno mobili, Raonic su tutti, e non cambierebbe granchè tecnicamente, salvo scambi più brevi. Difficile, a mio avviso (e non avete idea di quanto sarei felice di sbagliarmi), che un vero giocatore a tutto campo come Dimitrov o un talento sfrenato come Dolgopolov possano mai trovare la continuità per dominare il gioco, finchè le condizioni, superfici e corde in particolare, rimarranno quelle di adesso.

L’unico aspetto che differenzia appena un po’, in meglio, il circuito WTA da quello maschile, è che nonostante l’omologazione tecnica sia totale anche lì, la velocità di palla è fisiologicamente minore, il che concede qualche spazio anche alle giocatrici non “sparapalle” tipo Radwanska oppure, come l’ottima finale conquistata a Miami dimostra, tipo Carla Suarez Navarro (qui l’analisi del suo rovescio), ragazze che cercano la manovra e gli angoli piuttosto che le botte a tutti i costi. Ma alla fine, sono solo buone prestazioni e qualche acuto, i titoli pesanti rimangono appannaggio di Serena (o se non c’è o sta male, Sharapova, Halep, Kvitova, Azarenka, tra un po’ forse Bouchard, Muguruza, eccetera).

Tra i maschi ormai lo svolgimento tattico di un match si decide nella maggior parte dei casi secondo la percentuale di prime palle di servizio, perchè il primo dei due che riesce a mettere i piedi entro la riga di fondo (il battitore se va la prima, il ribattitore se può aggredire la seconda) comincia a tirare manate in progressione, e il punto è quasi sempre suo. Tra le ragazze, oltre a questo, la semplice capacità di sviluppare gioco in lungolinea e non solo attraverso la potenza sulle diagonali (Halep e Pennetta ottime in tale senso) diventa una dote in più estremamente importante, e poco comune, tanto da destabilizzare gli schemi di molte avversarie, ma di verticalizzare e giocare al volo con continuità non se ne parla nemmeno.

Come detto, poco rispetto a tutto quello che il tennis potrebbe (dovrebbe!) essere e offrire, davvero poco. L’impoverimento tecnico c’è, ed è evidentissimo a chiunque segua il nostro magnifico sport da abbastanza tempo, come avevamo provato ad analizzare con AGF qualche mese fa (prima parteseconda parte). Ma come sempre è avvenuto in passato, possiamo e dobbiamo sperare in un “punto di rottura” che porti a qualcosa che potremmo definire “decrescita sostenibile” nel gioco, con il ritorno all’utilizzo di tutte le zone di campo, e di tutti gli stili tecnici, perchè non c’è peggior nemico dello spettacolo (e quindi, nel lungo periodo, del valore economico di uno sport) dell’omologazione e della ripetitività. Sinceramente, quando una finale di Wimbledon viene giocata in modo identico a una finale del Roland Garros, e a maggior ragione in modo identico a qualsiasi match sul cemento, è il momento di porsi degli interrogativi su dove stia andando il tennis. Sempre che non sia ormai troppo tardi.

One-Handed Backhand Appreciation Corner

Tutto, purtroppo, come previsto: finale maschile tra le due migliori Nemesi Bimani del momento, e le briciole per i Guerrieri della Luce, con l’unica consolazione dei buoni progressi del Picchiatore Austriaco Dominic, che potrà regalarci qualche soddisfazione in futuro.

L’impresa Leggendaria arriva dal tabellone femminile, dove la mai abbastanza venerata Jeanne D’Arc della presa Eastern, Carlita “che la Forza ce la conservi” Suarez Navarro, è giunta gloriosamente in finale, prima monomane in fondo a un grande torneo dai tempi di Schiavone a Parigi. La Pantera Nera Serena non le ha lasciato scampo, ma gli applausi degli Illuminati del Lato Chiaro sono tutti per lei.

L‘inverno sta arrivando, e come i Guardiani della Notte noi rimaniamo a sorvegliare la Barriera del Talento a una mano, sapendo di combattere una guerra già persa contro i Bruti Bimani che incalzano sempre di più. Guerra persa, ma non ancora, non del tutto, e certamente non fino a che l’ultimo di noi avrà ceduto e si sarà accasciato esanime: solo allora la nostra Guardia sarà conclusa, ma non importerà più a nessuno, perchè il Buio sarà comunque calato ad avvolgere ogni cosa.

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