Noi giornalisti, Panatta, Lo Monaco e tanti guai

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Noi giornalisti, Panatta, Lo Monaco e tanti guai

Una telecronaca non troppo felice può essere l’occasione per fare il punto su una professione nobile che sta diventando disadattata. Considerazioni dedicate a chi non si rassegna, a chi ancora pensa che il giornalismo abbia un’etica

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Alla fine degli internazionali di Roma, questa testata produsse un certo numero di articoli molto critici nei confronti degli organizzatori del torneo romano. Uno di questi, scatenò un discreto dibattito per via – anche – di qualche sintetica considerazione sul mondo dei giornalismo. Lunedì scorso, nelle consuete e apprezzate pagelle settimanali semi-serie di Antonio Garofalo, una voce era dedicata alla discutibile scenetta messa in cantiere da Adriano Panatta e Gianni Ocleppo durante la telecronaca della finale del Roland Garros.

La telecronaca di Panatta è sembrata così sui generis da indurre Claudio Giuliani a confezionare un divertente articolo sulla performance dell’ex capitano di Coppa Davis della nazionale italiana. Infine, per chiudere questa lunga premessa, abbiamo pubblicato il messaggio di precisazione che ci ha fatto pervenire Jacopo Lo Monaco, telecronista tra i migliori del panorama nazionale. Incidente chiuso dunque? Si, certamente, però il caso permette di approfondire qualche considerazione sulla professione giornalistica.

Scrivevamo, in maniera un po’ scorata e dietro il paravento di una citazione, che la professione del giornalista è appannaggio di 4 categorie di esseri umani: 1. il ricco (o di famiglia o per chiara fama), del tutto disinteressato all’aspetto economico della vicenda e del tutto inattaccabile dai terribili meccanismi della stampa contemporanea; 2. il dilettante, altrettanto disinteressato perché ha un altro lavoro e scrive, appunto, per diletto; 3. l’immensa pletora di ragazze e ragazzi che sono a diversi livelli della scalata verso il posto di lavoro. Questi si suddividono in due tipi (nel pezzo precedente un po’ ingenerosamente ci si riferiva solo ad uno di loro): quelli appassionati non tanto bravi che devono portare uno stipendio a casa; quelli che sono bravi ma che devono portare uno stipendio a casa. Nei fatti queste ultime due categorie finiscono con il non avere “un briciolo di spirito critico … non raccontano nulla, non spiegano mai: … proni al potere di turno” ben attenti a non disturbare il manovratore.

E se il manovratore di turno ti fa calare dall’alto due più o meno simpatiche canaglie, che trasformano un racconto in un florilegio di battute forse poco adatte a contesti salottieri – come se non ci fosse altra via che essere o politically correct o maleducati – il giornalista di turno abbozza, tollera, tace. Qui il problema ovviamente non è il bravo Lo Monaco. Non si pretende certo che minacciasse chissà quali ritorsioni, ma se neanche lui, che – come non troppo simpaticamente è stato fatto notare persino qui – è in ben altra posizione rispetto a quella di chi è in condizioni di ben diversa subordinazione, se neanche lui, si diceva, riesce a tirar fuori nient’altro che un messaggio di protesta ad una rivista, immaginate un po’ cosa potrà mai fare un giornalista molto meno à la page. Certo, non è escluso che in camera caritatis abbia fatto qualche rimostranza, ma è l’aspetto pubblico della vicenda che qui interessa: e pubblicamente il telecronista non ha fatto conoscere qualche sua presa di distanza.

Questa vicenda piccola e tutto sommato marginale non significherebbe granché se fosse isolata all’interno di un contesto virtuoso. Ma è in questo modo che si finisce con l’avere giornalisti una volta molto critici che improvvisamente tacciono se cambiano testata, facendo addirittura sparire i pezzi “imbarazzanti”; giornalisti che preferiscono un vorticoso giro di niente piuttosto che rischiare un parere nel timore di essere smentiti da chissà quale vittoria; giornalisti che mai criticherebbero un comportamento o – almeno quella, accidenti! – un’errata strategia di gioco nel timore di ritorsioni del numero 30 del mondo; e immediatamente pronti a scrivere appassionati editoriali garantisti in difesa di questo o quello, tralasciando il piccolo particolare di riportare le accuse ; giornali che finanziano tornei e che tutto vogliono tranne giornalisti che si mettano a criticare quel torneo.

Le vie d’uscita diventano grottesche e di piccolo cabotaggio. Si cita un sito web al quale si collabora, si accusano poveri appassionati di usurpare la professione in un assurdo scontro tra poveracci. Vicende piccole e marginali, con leggere deviazioni, compromessi tra uomini di mondo. È così la professione – o quello che è – si è spostata via via verso il basso. Del resto che il giornalismo sia “embedded” è noto in contesti ben più seri del nostro piccolo sport. E anche lì il tutto è arrivato a poco a poco, sostituendo grandi inviati con giornalisti compiacenti, che raccontano quello che serve al committente, rischiando meno la vita, per fortuna.

E così, grazie anche alla collaborazione un piccolo gesto non fatto, di una protesta neanche accennata, di una voce sempre più flebile, diventerà naturale darsi di gomito parlando di una omosessuale (o è già successo?), rinverdire stereotipi sul “maschio” e la femmina, sdoganare persino un po’ di razzismo. Subito pronti a definire smanìe da integralisti quello che loro sono incapaci di vedere o, per dirla con Barthes, a chiamare oscurità il loro essere ciechi.

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