Il talento di Miss Sharapova (Buck). Ivanisevic, romanzo sull’erba (Crivelli).

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Il talento di Miss Sharapova (Buck). Ivanisevic, romanzo sull’erba (Crivelli).

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Il talento di Miss Sharapova (Tobias Buck, L’Espresso).

Maria Sharapova entra nella lobby dell’hotel indossando shorts giallo canarino e una maglia grigia, il volto arrossato da un’ora d’allenamento in palestra. “Ciao, sono Maria”; presentazione del tutto superflua, per una che è diventata una celebrità dalla sera al mattino quando, circa 10 anni fa, vinse il suo primo titolo a Wimbledon, a 17 anni. Da allora ha vinto altri 4 titoli del Grande slam ed è diventata una delle 10 tenniste al mondo che hanno vinto almeno una volta a Melbourne, Parigi, Wimbledon e New York. All’altezza dei suoi trionfi sportivi c’è forse solo il suo successo fuori dal campo, visto che da anni è la sportiva donna più pagata al mondo, con alcuni dei marchi più prestigiosi che pagano annualmente più di 20 milioni di dollari in cambio della sua immagine abbinata ai loro prodotti. La tennista ha una sua personale app in rete e sta mettendo in piedi un impero che va dalle caramelle ai vestiti ed è già presente in 30 mercati. Dopo la doccia, torna con una maglia nera, pantaloni grigi di cotone e scarpe da tennis nere. A 28 anni, Sharapova sa bene che le restano solo pochi anni per aggiungere coppe alla sua lunga serie di vittorie. I due ultimi titoli del Grande slam (entrambi a Parigi) li ha conquistati dopo essersi rotta la cuffia della spalla. Per 9 mesi non ha potuto giocare a tennis, ha dovuto saltare due tornei dello Slam ed è scesa al numero 126 della classifica mondiale – la sua prima volta oltre le prime cento dal 2003. Le ci sono voluti 3 anni per farcela nuovamente fino a una finale di Grande slam e 4 per vincerne finalmente una. “L’infortunio ha anche insinuato dubbi nel mio modo di giocare, basato sostanzialmente su forza e profondità dei colpi. Il servizio era difficile perché di colpo avevo perso velocità. Io non sarò mai più in grado di reggere un servizio come quello che avevo a 17 anni”. Sharapova ha quindi dovuto reinventare parti fondamentali del suo gioco scambiando la forza per un approccio più tattico. Il suo servizio ha perso potenza ma la tennista ha migliorato molto la battuta aggiungendo mosse nuove al gioco, come la palla corta. Nella maggior parte dei match, Sharapova ora tenta di occupare una posizione centrale appena davanti alla riga di fondo campo. Da qui può dettare lo svolgimento del gioco mandando la palla da una parte all’altra del campo e costringendo l’avversario a una disperata e stancante caccia finché lei non individua la possibilità di mandargli una palla fuori portata. La costante nel gioco di Sharapova – e la sua arma più potente di gran lunga sul campo – è la testa. Non mostra mai nervosismo. Non cede mai. Spesso gioca il suo tennis migliore, quello più difficile, proprio quando la pressione su di lei sembra al massimo. Corre dietro a palle che sa di avere poche possibilità di prendere ma, a volte, riesce a rimandare dietro la rete una palla impossibile, e il messaggio per l’avversaria è che di là c’è una pronta a lottare fino alla fine. “Nessuno come Maria ha una tale perseveranza, punto dopo punto e senza sosta”, dice di lei Chris Evert. “L’ho osservata molte volte, quando sta perdendo, è lì che tira fuori la forza di lottare. Riprende la partita meglio di nessun altro”. La determinazione di acciaio che contraddistingue gli atleti moderni suscita spesso la tentazione di risalire alle origini della predisposizione. Nel caso di Sharapova, la ricerca la riporta inevitabilmente all’infanzia. Nata a Nyagan, nella Siberia dell’Ovest, cominciò a giocare a tennis a quattro anni, nel 1987, dopo che i genitori si trasferirono nella cittadina di Sochi sul Mar Nero. Quando aveva sei anni, fu vista da Martina Navratilova durante un evento di tennis a Mosca. Ciò impresse una svolta decisiva alla vita della bambina, perché l’ex numero uno suggerì ai genitori di Sharapova di mandarla negli Stati Uniti perché ricevesse l’allenamento giusto. Arrivò negli Stati Uniti poche settimane prima dei suo settimo compleanno per cominciare ad allenarsi alla Nick Bollettieri Academy in Florida. Non parlava inglese e il padre dovette accettare i lavori più strani per poterla mantenere (la madre arrivò solo due anni più tardi). “Mio padre a volte lavorava a due ore di distanza, non lo vedevo per settimane. Dormivo in collegio con altre bambine più grandi di me”, ma chi andasse a cercare indizi psicologici nell’esperienza della bambina russa sola, senza la mamma, che si temprava in un ambiente ostile e diverso, resterebbe però deluso. “Io stavo vivendo il mio sogno, mi piaceva giocare a tennis e lo facevo in una delle migliori accademie del mondo. Vedevo giocare Agassi, Monica Seles… Ho visto allenarsi i grandi campioni. Quando mi svegliavo al mattino non vedevo l’ora che suonasse la sveglia alle 6:30 per poter andare a lezione”. Per Sharapova la giostra si ferma dopo la lesione alla spalla. Per la prima volta trova il tempo per pensare a quale sarà la sua vita dopo il tennis. E così decide di reinventarsi come donna d’affari. Assieme a Max Eisenbud, l’agente che la segue da anni, nel 2012 sviluppa il progetto per una linea di dolciumi di fascia alta chiamati Sugarpova. Eisenbud riferisce che Sugarpova ha venduto 3,5 milioni di confezioni di caramelle nei primi due anni e ora è presente in 30 mercati. “La mia visione è che diventi un marchio di lifestyle”, dice Sharapova: una sorta di collezione di marchi e prodotti. Ambizioso ma non impossibile. Chiedo a Eisenbud perché Sharapova abbia così tanto valore per il mercato pubblicitario, rispetto a una Serena Williams che ha vinto qualcosa come 20 titoli del Grande Slam. “La risposta ovvia è che Sharapova è bella, perfetta per il marketing e ha vinto molto” risponde Eisenbud. “Quella corretta, invece, è che Maria è una donna d’affari molto avveduta e capisce il concerto di ricavo sull’investimento. Diversamente da altri atleti, capisce bene che se Porsche o Evian stringono con lei contratti milionari lei deve andare incontro ai loro obiettivi. Quando Maria partecipa a una sessione fotografica tutto deve essere perfetto. Non tralascia mai di chiedere se il cliente ha ottenuto tutto ciò che gli serviva o se vuole rifare qualche scatto. È speciale in questo”. Lei dice di non sapere assolutamente quando si ritirerà, ma insiste che l’idea non la spaventa. “Quando finirà non avrò rimpianti. Ho voglia di avere tempo per la famiglia”. Da due anni è la compagna di Grigor Dimitrov, tennista bulgaro ventitreenne. Lui è visto come uno dei principali talenti del campionato, anche se deve ancora vincere il suo primo titolo Grande slam. Se quest’anno Sharapova non dovesse vincere uno Slam non sarà per mancanza di volontà ma perché la carriera di Maria si è sovrapposta a quella di colei che probabilmente è la più grande tennista di tutti i tempi: l’eterna rivale Serena Williams. Sharapova batté Williams con tranquillità in quella speciale finale di Wimbledon nel 2004. Facendosi largo tra i giornalisti nel dopo match, l’adolescente Sharapova si girò verso Williams e disse: “So che ci saranno molte altre occasioni in cui c’incontreremo e batteremo. Ma – mi spiace – oggi dovevo vincere io”. Dal 2004, le due si sono confrontate in 16 occasioni e Williams ha vinto ogni volta. Il duello è stato così squilibrato verso la Williams che c’è chi non le considera rivali. Chris Evert non è d’accordo. “Per molti sarebbe una falsa rivalità”, dice, “ma non è così. Rivalità vuol dire versioni del gioco opposte. In questo caso i contrasti sono tanti, dal temperamento all’aspetto, allo stile di gioco. Tutti nel mondo del tennis ci chiediamo sempre, quando le guardiamo giocare, se quella sarà la volta buona in cui Maria può battere Serena. L ultimo match importante tra le due è stato all’Australian Open a gennaio. Ha vinto Williams, ma la partita (6-3, 7-6) è stata molto più serrata di altre e il secondo set si è trasformato in una lotta scatenata. Sharapova alla fine è stata sconfitta dalla potenza e dalla precisione del servizio della Williams, il meglio che il tennis femminile abbia mai visto. Ma se si chiede a Maria Sharapova “Pensa che un giorno batterà la Williams?” lei non esita un secondo a rispondere: “Assolutamente sì”.

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Ivanisevic, romanzo sull’erba (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport).

Il destino fa strane evoluzioni, e Goran Ivanisevic lo sa bene. Prima ti volta la faccia, ti tradisce, ti lascia a terra distrutto, con un senso di vuoto e di ingiustizia che pensi di non poter colmare mai. Ma quando d’improvviso ti restituisce ciò che ti aveva tolto, è come se il cielo avesse voluto finalmente lanciarti uno sguardo compiacente e si fosse ricordato di te e dei tuoi meriti, riempiendoti il cuore. Che la finale di Wimbledon del 2001 possedesse qualcosa di magico e inesplorato era chiaro fin dal giorno in cui stava andando in scena: un lunedì. Era già accaduto che l’epilogo del torneo più famoso del mondo si prolungasse dalla domenica al giorno successivo a causa delle bizze del meteo londinese, ma non era mai successo che cominciasse proprio di lunedì, dopo due settimane di pioggia padrona. Per i puristi quella resta anche l’ultima, genuina e vera rappresentazione del romanzo secolare del tennis sull’erba, la sfida tra due giocatori sempre alla ricerca della rete, cultori del servizio e soprattutto della volée. L’avversario di Goran, infatti, è l’australiano Pat Rafter, un altro specialista come lui. La partita che inizia alle 12 del 9 luglio rappresenterà l’apoteosi di un campione che solamente un disegno beffardo e profondamente scorretto della sorte avrebbe potuto privare di un trionfo sui prati di Church Road: “A Wimbledon avevo sempre fatto grandi battaglie ed ero sempre arrivato secondo. La gente mi rispettava, ma non era abbastanza. Stavolta no, non poteva succedere ancora”. Il croato, sul Centrale, si era già scottato tre volte all’ultimo atto: nel 1992 contro Agassi, nel 1994 e nel 1998 contro Sampras. In particolare, contro Agassi, si era suicidato con due doppi falli nel decimo gioco del quinto set, dopo aver dominato per lunghi tratti e anche la finale del ‘98 gli aveva lasciato grandi rimpianti, perché avrebbe potuto trovarsi avanti due set a zero. “La mia vita non è mai stata facile, ho dovuto sempre soffrire. Il mio problema, in fondo, è sempre stato che in ogni partita avevo 5 avversari: l’arbitro, la folla, i raccattapalle, il campo e me stesso. Non c’è da meravigliarsi se qualche volta uscivo di testa”. Nella storia del torneo, solo Ken Rosewall ha perso quattro volte all’epilogo senza mai alzare la Coppa. E così, quando sull’8-7 40-30 per lui nel quinto set, al primo match point, Goran sbaglia di nuovo due servizi consecutivi, la maledizione comincia a riprendere forma. Altro doppio fallo sul secondo match point, lob vincente dell’australiano sul terzo. Sul quarto, poi, la prima continua a non entrare: “Mi sentivo le braccia pesantissime, ma mi sono detto: ok, metti questa palla, non importa dove, magari sbaglia lui. E l’ha fatto. Non riuscivo a crederci”. Una liberazione, finalmente, e nella stagione più difficile perché Ivanisevic, dopo gli anni 90 in cui è arrivato fino al numero due del mondo (condito dalla famosa frase “dicono che ho sprecato in parte il mio talento, ma preferisco essere stato il secondo dietro Sampras che il primo davanti a un nugolo di pallettari”) in quel 2001 è un giocatore assai prossimo al tramonto, che per avvicinare l’erba di Wimbledon, da 125 del ranking, dovrebbe passare attraverso le qualificazioni. Al Queen’s, il tradizionale appuntamento che precede il terzo Slam stagionale, esce addirittura al primo turno sconfitto dal nostro Cristiano Caratti, non esattamente un mostro dei prati. Ci pensano gli organizzatori a toglierlo dall’imbarazzo, attribuendogli una wild card per i meriti del passato. Per i bookmaker, tuttavia, non bastano i ricordi per riservargli una quota che gli conceda qualche speranza: alcune agenzie di scommesse, addirittura, lo danno 150-1, come uno dei tanti peones della racchetta. Ma le due settimane di Goran diventano un’epopea da tramandare ai posteri: dal secondo turno in poi, in sequenza, batte avversari che sono tutti tra i primi 40 del mondo. Si inchinano, nell’ordine: lo spagnolo Moya, l’americano Roddick, il britannico Rusedski, il russo Safin nei quarti e l’altro inglese Henman in una semifinale che, per i tormenti del meteo, dura addirittura tre giorni. Prima dell’ascesa al cielo contro Rafter, nonostante una spalla dolorante per l’umidità: “Preferivo il caldo, e invece c’era freddo. Presi delle pastiglie, mi feci fare dei massaggi, avrebbe potuto farmi male per sempre però non quel giorno, accidenti”. Così Goran, il giocatore con un colpo solo (come lo aveva definito McEnroe), diventa il primo invitato della storia a vincere il torneo: “Ho scalato l’Everest. Ogni minuto di quelle due settimane è stato indimenticabile, In quel momento non sapevo più che cosa fare, l’intera carriera m’è passata davanti, insieme alle tre finali perse su questo campo. La premiazione è stata una sorpresa, le altre volte andavo per primo, per il piatto, stavolta invece ero il secondo e potevo alzare il trofeo con tutti quei grandi nomi scritti sopra. Li avevo sempre visti baciare e alzare la Coppa, e io ho sempre pensato di meritarmela. Incredibilmente, ci sono riuscito nell’anno in cui sono arrivato a Londra quasi da turista. Non poteva succedermi niente di più bello, è stato il giorno più indimenticabile della mia vita”. Il giorno dopo, ritornato a Spalato con il jet privato di Bernie Ecclestone, il boss della Formula Uno, Goran è travolto dall’affetto di 150.000 tifosi, che in pratica paralizzano la città. Perché se vinci nel tempio, nel luogo che più di ogni altro separa le vite normali dalla leggenda, nulla sarà più lo stesso: “E’ così bello toccare la Coppa che a quel punto non me ne fregava niente se non avessi mai più giocato e non avessi più vinto una partita. Quella era la fine del mondo, davvero. Il sogno si realizzava: da quel punto in poi, qualunque cosa avessi fatto nella mia vita, ovunque fossi andato, sarei stato il campione di Wimbledon”. Scusate se è poco.

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