Vinci gigante, esperienza e orgoglio: è semifinale (Martucci). Vinci un giorno tra le stelle, l’America scopre l’Italia (Lombardo). Dietro l’impresa di Roberta c’è una volontà di granito (Giua). Fognini k.o. a New York, ma adesso non crocifiggiamolo (Semeraro)

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Vinci gigante, esperienza e orgoglio: è semifinale (Martucci). Vinci un giorno tra le stelle, l’America scopre l’Italia (Lombardo). Dietro l’impresa di Roberta c’è una volontà di granito (Giua). Fognini k.o. a New York, ma adesso non crocifiggiamolo (Semeraro)

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Vinci gigante, esperienza e orgoglio: è semifinale (Vincenzo Martucci, Gazzetta dello Sport)

Piccola Roberta Vinci, finalmente gigante: tocca per la prima volta le semifinali di uno Slam, porta la terza italiana fra le migliori quattro degli Us Open, dopo Sara Errani nel 2012 e Flavia Pennetta nel 2013. E ce la fa a 32 anni, così piccola di centimetri (163), ma assolutamente così forte dentro nel resistere e domare nel caldo-umido di New York, la meravigliosa atleta franco-bosniaca, Kiki Mladenovic. Ci riesce, dopo due ore e mezza di una partita a tratti drammatica, a dispetto dell’enorme pressione che ha sulle spalle: quella di una carriera senza eccelsi acuti in singolare, con la maledizione del numero 11 del mondo, senza bucare le «top ten», marchiata dal talento tennistico che non s’accompagna alla potenza e diventa volano del doppio. Specialità dov’è arrivata al numero 1 del mondo e ha vinto tutti gli Slam. Ma non le basta, non le pub bastare. Infatti, col fido allenatore Francesco Cinà, le ha provate tutte, fino ad aggrapparsi, da numero 43 del mondo, alla nuova racchetta — «La marca è top secret fino a lunedì» — come aveva fatto la Errani con la famosa «Excalibur». Bruciata dal divorzio delle «Cichi», come da ragazzina con quello da Flavia Pennetta, pugliese come lei emigrata al centro tecnico dell’Acqua Acetosa a Roma.

ESPERIENZA Che bello è approfittare finalmente dell’esperienza, mentre la Mladenovic è bloccata dalla tensione del primo, importante, appuntamento in carriera? Peraltro i quarti agli Us Open sul prediletto cemento che ne esalta la potenza, con l’uno-due, servizio-dritto. Robertina ne approfitta bellamente, con le stimmate dei due quarti (2012 e 2013) qui a Flushing Meadows. Così, scappa via veloce fino al 3-0 e, finché gambe e testa sono brillanti, tiene testa, gagliarda, ai 22 anni della bella atleta francese di ceppo serbo-bosniaca, dai genitori ex atleti pro, scatenati in tribuna. Fino al 6-3 in 28 minuti non c’è partita: l’italiana imbavaglia la francese, attaccandola e togliendole il tempo. Poi però la musica cambia: «Sul 2-1, quando ho perso a zero quel mio game, forse ho avuto paura che stava andando tutto bene, ho smesso di spingere e attaccare, ho fatto due passi indietro e la partita è diventato soprattutto un rimettere la palla in campo e aspettare che lei tirasse». La Mladenovic scalcia come una puledrina, alternando botte imparabili a errori grossolani, cede un break, fra doppi falli e folli smorzate, lo riconquista, vola 4-2, si rimangia tutto con 4 doppi falli tutti insieme, torna avanti 5-4 coi suoi fendenti micidiali, rintronata dal caldo, chiede soccorso al trainer — forse in modo malandrino per disturbare Roberta — sparacchia via risposte a go-go fino al 5-5, ma strappa il 7-5 complice la Vinci. Tutto in apnea, come farebbe la nostra Camila Giorgi: o la va o la spacca.

DOPPI FALLI Ma Roberta non ci sta, non può accettare un’altra bocciatura del destino, non dopo questo meraviglioso tabellone che le ha proposto a New York le morbide Vania King, Denisa Allertova, Mariana Duque Marino, cancellandole Suarez, Jankovic e Bouchard, e regalandole la promettente, ma acerba francese, oggi 43 del mondo, domani star. Questa è l’occasione della vita. Nel terzo set, Roberta soffre, sbuffa, arranca, e si gioca tutto nel fatidico settimo game, 26 punti in 15 minuti: «Doppi falli, vincenti, errori, è stato il game chiave, a me ha aiutato l’esperienza, per lei è stata la mazzata finale (…)

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Vinci un giorno tra le stelle, l’America scopre l’Italia (Marco Lombardo, Il Giornale)

Certi treni nella vita passano una volta sola e allora non importa come li prendi: bisogna saltarci su. Roberta Vinci a 32 anni e mezzo non avrebbe avuto un’altra occasione, un altro viaggio per arrivare là dove non era mai riuscita ad approdare. E così, contro la francese Mladenovic, una che ha una vita davanti, doveva farcela. E ce l’ha fatta. Roberta dunque è in una semifinale di uno Slam, un premio alla carriera, lei nata doppista e finita per essere campionessa in singolare, addirittura numero 11 nel 2013 e numero 1 del mondo in coppia con la Errani in quel sodalizio finito per chissà che cosa e che avuto la sublimazione a Wimbledon 2014, quando Errani-Vinci completarono il loro personale Grande Slam. Dall’altra parte della rete anche allora c’era (con la Babos) la Mladenovic, guarda caso. E caso vuole che Sara, ieri, fosse in campo nello stesso momento storico con la Pennetta in un match che ha portato le due in semifinale del torneo di doppio. Ma forse non è un caso che Roberta si sia goduta il momento da sola, dopo un match estenuante e – eufemismo – bruttino: «Ma era per tutte due la partita della vita».

La partita, appunto, si diceva: «Ero molto tesa all’inizio, non è facile giocare un match così. Mi sono concentrata sull’essere aggressiva, eravamo tutte e due molto nervose e molto stanche e il lungo game sul 3-3 nel terzo set in cui alla fine ho fatto il break alla fine ha deciso tutto. Sono felice e molto calma, in fondo con Sara ho vinto 5 Slam in doppio e so cosa si prova». Soprattutto Roberta sa come si gioca a tennis, più delle ragazze d’oggi a senso unico: così più la Mladenovic spingeva, più lei l’ha fatta finire fuorigiri e nemmeno il medical timeout chiamato dalla rivale nel secondo set (poi vinto dalla francese) ha sparigliato le carte. È dunque finita 6-3, 5-7, 6-4, perché – come ha detto Flavia Pennetta – «nell’era del tennis bum bum bum, c’è ancora qualcuno che sa metterti in difficoltà con l’intelligenza. Ad esempio Roberta». Che alla fine sapeva che avrebbe avuto da pensare a una delle Williams (che si sono incontrate stanotte) e che ora può tifare proprio Pennetta, volata nei quarti dopo il successo contro la Stosur.

Per lei è la sesta volta negli ultimi sette anni e non può essere un caso. È più che altro una dichiarazione d’amore per New York, perché «è una questione di odore, di ambiente, della vitalità che questa città ti trasmette. Intendiamoci: qui non ci vivrei mai, ma per giocare a tennis a settembre è il massimo». Insomma: il 6-4, 6-4 a Samantha è l’ennesima porta sul paradiso della Grande Mela, «e quello che sento qui mi capita solo in un altro posto: Acapulco». Dove magari vivere è un po’ meglio, ma si sa che la casa di una campionessa è il mondo (…)

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Dietro l’impresa di Roberta c’è una volontà di granito (Claudio Giua, repubblica.it)

Dopo il divorzio agonistico da Sara Errani, più d’uno aveva pensato che Roberta Vinci avrebbe ragionato su tempi e modi di un suo morbido addio al tennis che conta. A favore della pensione molto anticipata (Roberta è del febbraio 1983) c’erano solidi argomenti: la disabitudine al singolare trascurato negli ultimi due anni per perseguire con il massimo della concentrazione l’obiettivo di conquistare Wimbledon, l’unico Slam di doppio mancante nel palmarès comune; la certezza che nei tornei in coppia ogni possibile compagna non avrebbe retto il confronto costante con Sara. Sentivo e leggevo cose così all’inizio della primavera.

Una giocatrice che conosce bene Vinci dai tempi dei tornei giovanili mi disse allora: “Chi l’ha frequentata, ha viaggiato e passato giorni e giorni con lei sa che non mollerà. Anzi, questa nuova condizione da single la esalterà. Per Roby inizia una nuova fase di vita”. Ne sei sicura?, avevo ribattuto. “Assolutamente. Ho frequentato la sua famiglia, che non è ricca (dato da non sottovalutare nel tennis italiano ndr), e ti dico che solo con una volontà granitica poteva ottenere quel che ha ottenuto sia da sola sia con Sara”.

Aveva ragione: battendo oggi Kristina “Kiki” Mladenovic per 6-3 5-7 6-4 e raggiungendo le semifinali di Flushing Meadows, Roberta non ha più nulla da invidiare alle altre tre grandi della nazionale, Francesca Schiavone, Flavia Pennetta e Sara Errani. Come loro, entra nel virtuale Superclub che accetta solo chi ha giocato una semifinale dello Slam. Missione compiuta.

E’ stata lenta e faticosa la marcia di avvicinamento al risultato di oggi. Dalla fine di marzo Vinci ha ripreso a girare il mondo con soddisfazioni saltuarie – la finale a Norimberga a fine maggio, il cinquecentesimo successo in carriera, il quarto turno a Toronto il mese scorso – e fiducia incrollabile nel ritorno tra le migliori (con la vittoria di oggi scala 16 posizioni nel ranking WTA, da 43 a 26).

Nei turni precedenti degli UsOpen ha eliminato con notevole sicurezza King, Allertova e Dunque-Marino e ha avuto un pizzico di fortuna, che prima o poi tocca a tutti, con la rinuncia di Eugenie Bouchard negli ottavi di finale. Poi l’ostacolo psicologicamente non facile costituito da “Kiki” Mladenovic, 22 anni, WTA 40, mai affrontata in singolare ma coprotagonista di due match forse decisivi nello sviluppo della crisi tra lei e Sara: l’anno scorso in luglio era in campo con l’ungherese Timea Babos nella storica finale di doppio vinta dalle azzurre (6-1 6-3) a Londra; quest’anno all’inizio di febbraio in coppia con Caroline Garcia aveva inferto alle pluridecorate italiane l’umiliante e decisiva batosta (6-1 6-2) in FedCup a Genova. Due match che hanno segnato la fine del ciclo straordinario delle “Chichis”.

Quello di oggi non è stato un match da incorniciare ma da ricordare per intensità e incertezza. Molto tesa, così come la francese, Roberta ha saputo gestire le emozioni prima e meglio dell’avversaria. Il coach Francesco Cinà e il capitano azzurro Corrado Barazzutti, incollato sulla seggiola nell’angolo italiano, le hanno consigliato di fare semplicemente la sua partita, non risparmiando sul rovescio in back che è il suo marchio di fabbrica e che Mladenovic, come tutte le ragazze abituate al tennis di potenza, controlla a fatica. Ha cercato di variare il più possibile il ritmo per non dare punti di riferimento e d’appoggio all’avversaria. Ha servito con efficacia e non ha quasi mai perso la misura del campo. Ha sbagliato meno (25 errori contro 64) prendendosi pochi rischi (da qui la differenza nei vincenti: 51 a 22 per Kiki). Per una che sa stare sotto rete come poche altre colleghe, non avere attaccato di più ha sottratto parecchio allo spettacolo, però è servito a non farle mai perdere di vista il risultato. Primus, vincere. Avrebbe potuto chiudere la partita già al secondo set. La paura del grande risultato l’ha frenata. Poi ha giocato un terzo set quasi perfetto (…)

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Fognini k.o. a New York, ma non crocifiggiamolo (Stefano Semeraro, lastampa.it)

Ora evitiamo di dare la colpa alla ormai famosa ‘macumba di Nadal’ – tutti quelli che lo hanno battuto quest’anno, a eccezione di Djokovic, hanno poi perso al turno successivo – , perché il malocchio onestamente c’entra poco. Ma non crocifiggiamo neppure Fabio Fognini, che agli Us Open dopo tre belle vittorie culminate dal partitone contro Nadal ieri ha perso in tre set (6-3 7-6 6-1) negli ottavi contro Feliciano Lopez. Che ha quasi 34 anni ma è un ottimo giocatore, n.19 del mondo dopo essere stato anche n.12 (e quindi meglio classificato del n.32 Fognini), e che da mancino ottimo battitore e amante della rete e degli attacchi in controtempo e senza peso possiede le qualità perfette per dare fastidio a Fabio. Avevo scritto due giorni fa che per fermare un Fognini finalmente lucido e in palla anche sul cemento sarebbe servito un Arsenio Lupin, e purtroppo Feliciano ha impersonato alla perfezione il ladro gentiluomo, rubando tempo e spazi all’avversario.

Fabio, certo, avrebbe potuto fare qualcosa di più nel secondo set, quando si è trovato avanti 4-1 e ha poi giocato male il tie-break, e anche nel terzo, quando si è arreso troppo in fretta. La sua però più che una prova del nove fallita – Lopez, va ripetuto, è tutt’altro che un giocatore scarso – è un’occasione perduta di mettere la ciliegina sulla torta di un bel torneo. Una partita mal giocata contro un avversario di valore, non una partita buttata. Fabio, che ha anche chiamato il fisioterapista e sicuramente ha patito la tensione e la stanchezza della maratona contro Nadal, nell’ultimo Slam dell’anno ha dimostrato di saper finalmente (e si spera definitivamente) controllare i nervi e di essersi convinto di poter ben figurare anche fuori dall’amata terra battuta. A New York in tutta la storia del tennis italiano solo Corrado Barazzutti, nel 1977, è riuscito ad approdare nei quarti, Fabio è diventato comunque uno dei cinque capaci di conquistare gli ottavi (oltre a Barazzutti gli altri sono Panatta, Pozzi e Sanguinetti). Tante volte lo abbiamo criticato, anche aspramente, ma il “tiro al Fognini” è uno sport inutile e un po’ maramaldo e visto come era iniziata la sua estate sul ‘duro’ (due primi turni) la sua prestazione a Flushing va considerata positiva, oltre che confortante in vista di una trasferta di Coppa Davis molto delicata in Siberia, dove dal 16 al 18 settembre l’Italia si giocherà la permanenza nella serie A della Coppa (….)

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