Si può insegnare a Federer? Da Tiriac a Ljubicic, lo strano mestiere di coach (Clerici). Pennetta: “Lascio il tennis solo per me” (Piccardi). Flavia e Roberta sono tornate. Bari abbraccia le regine del tennis (Martina).

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Si può insegnare a Federer? Da Tiriac a Ljubicic, lo strano mestiere di coach (Clerici). Pennetta: “Lascio il tennis solo per me” (Piccardi). Flavia e Roberta sono tornate. Bari abbraccia le regine del tennis (Martina).

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Si può insegnare a Federer? Da Tiriac a Ljubicic, lo strano mestiere di coach (Gianni Clerici, La Repubblica)

Giunge notizia che Roger Federer ha ufficialmente ringraziato Stefan Edberg per avergli tenuto compagnia per due anni, nei quali lo svedese andava a rete per interposto Roger, o così dicono gli esperti. Ha anche dichiarato che, al posto di Edberg, verrà ad allenarlo Ljubicic. Era passata una settimana dacché avevo letto che lo stesso Ljubo avrebbe lasciato Raonic, che allenava, sin qui, insieme al suo ex-allenatore, Riccardo Piatti, il quale decideva di proseguire il suo cammino con Raonic. Simili notizie potrebbero sollevare nelle portinerie qualche polverone. Personalmente, preferisco sorprendermi per la presunta importanza che la parola coach sembra aver assunto da qualche anno nel tennis. Inizio a cercare il sostantivo coach su uno dei miei dizionari italo-inglesi, e ne devo consultare 3 prima di trovare, all’ultima riga di una colonnina, tennis-coach, istruttore di tennis. Nella originaria accezione, la parola “coach” sta a significare sia torpedone, pullman, sia maestro per dar ripetizione a un ragazzo ignorantello. Ma come si fa a considerare Federer e tutti i suoi colleghi sprovvisti di cultura specifica? Ricorderò allora che il coach, ora indispensabile al numero 500 del mondo, venne di moda negli Anni ‘60, quando giunse sulle coste tirreniche un genio, a nome Ion Tiriac. Tiriac portava con sé, oltre ad una valigia legata con lo spago, un genietto bizzarro, a nome Ilie Nastase, con il quale prese a giocare il doppio, e del quale divenne il tutore, dividendone a metà i premi vinti. Da Nastase, Tiriac, che ci litigò, passò a dirigere Vilas, e infine addirittura Becker. Per poi divenire un vero uomo d’affari, proprietario di una banca nel suo paese, e insieme proprietario del torneo di Madrid e di chissà che altro. Forse non soltanto per il suo esempio, le generazioni successive iniziarono a non sapere più privarsi di papà adottivi, di gente che per solito giungeva a partecipare ai premi e magari alle sponsorizzazioni dei loro figliocci. Mi si domanda: è indispensabile una figura simile? E, insieme: ti sei dimenticato del grande Harry Hopman, capace di allenare un’intera generazione di tennisti australiani, 15 vittorie in 18 anni di Davis? Rispondo. Hopman fu il primo a introdurre l’allenamento atletico nel tennis, prima di lui quasi ignoto, e non mancarono casi di suggeritori, magari non del tutto coach, come il sottoscritto giornalista, che offri delle dritte a Pietrangeli, Panatta, e al povero Gerulaitis, del quale fu palleggiatore. Non dovrebbe però essere obbligatorio, quando si è appreso a colpire la palla, e si diventa maggiorenni, assicurarsi la compagnia di un suggeritore, figura scomparsa in palcoscenico. Un palleggiatore, certo. Un fisioterapista, non meno certo. Ma uno che ti dica “oggi piove”, in uno sport individuale, non dovrebbe essere indispensabile. A meno che il Campione non sia diventato un Robot. Come temo.

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Pennetta: “Lascio il tennis solo per me” (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)

In fondo, la felicità è fatta di cose semplici: la pianta di basilico sul balcone, il materasso nuovo, il cappuccino al bar, la replica del trofeo dell’Open Usa appena sdoganata («L’hanno mandata a Brindisi, dai miei. E arrivata in una cassaforte blindata. Enorme, maestosa, fichissima!»). Vista da quassù, dal settimo piano del luminoso appartamento affacciato sul quartiere Tarradellas, la vita è meravigliosa. Flavia Pennetta la condivide con Fabio Fognini, il collega ligure che due Natali fa le chiese se un’amicizia decennale saldata dal tennis fosse pronta al grande salto. E lei, con gioia, rispose. «Con Fabio abbiamo cinque anni di differenza: 33 io, 28 lui. All’inizio tutti mi dicevano: ma che ci fai con quel ragazzino, ti stuferai in fretta. Invece…». Invece un sentimento attecchito per gioco, in due stagioni di grande tennis culminate con il fantasmagorico Slam per cui Flavia si dà ancora i pizzicotti, è diventato qualcosa di grande, che nel 2016 arriverà davanti all’altare. Dei dettagli del matrimonio non è questo il momento di parlare. Qui, nel tepore dell’inverno spagnolo e di un nido che parla di Fabio e Flavia in ogni soprammobile, importa precisare che il ritiro annunciato a New York contestualmente al sollevamento della coppa («L’avrei detto anche se avessi perso da Roberta, che in semifinale era stata super contro Serena Williams»), un esercizio di stile di rara bellezza che ha pochi eguali nello sport, non è trattabile. Questa, da compagna e futura moglie e madre, è la nuova vita di Flavia Pennetta. Punto. «La luce mi si è spenta dentro progressivamente, senza un clic preciso. Al tennis per quindici anni ho dato tutta me stessa. Ho il gomito dolorante, la spalla distrutta, il polso operato. Però non ho rimpianti: rifarei ogni cosa. Ormai la decisione è presa, indietro non si torna. Né per soldi né per noia né per i Giochi di Rio. Se un po’ mi conoscono, non proveranno a farmi cambiare idea. Sono io che lascio il tennis, non il tennis che lascia me. Sono salita in cima alla montagna e adesso mi godo il panorama». Due sono gli snodi fondamentali nell’ultima parte di storia di questa ragazza: aver centrato l’inseguimento di una vita («Se riguardo le foto di New York mi vedo raggiante, con le stelline negli occhi. Mi ero immaginata che avrei fatto le capriole. Invece no: ero più felice dentro che fuori. A qualcuno sono apparsa fredda. Ero pacificata») e l’amore. Come Fabio ha cambiato Flavia, e viceversa, è una dinamica causa/effetto simile alla volée che segue a rete un servizio potente e angolato. Per fare punto, basta mettere lì la racchetta. «Lui non parla, fa. E io ho imparato a decifrare il suo linguaggio non verbale. Mi sono scoperta più paziente, più dolce, più donna. Fabio, che era un vulcano in eruzione, è cresciuto e si è accettato. Certo ogni tanto prende ancora a testate il muro, però vedo che il cambiamento, faticosamente, entra in lui. Non gli farò mai da coach né da manager: terremo privato e lavoro ben distinti. Ma dalla trasferta in Sudamerica, il prossimo febbraio, lo seguirò. Da fidanzata». Corteggiata da mezza Italia, Flavia ha rifiutato tutti gli impegni a lunga scadenza. «No, non sono già incinta. Semplicemente, dopo una carriera scandita da impegni, viaggi e orari, mi piace svegliarmi senza sapere cosa fare. Poi, certo, il progetto con Fabio prevede anche i figli. E senza aspettare troppo. Vediamo dove sarò tra nove mesi…». Sta per infilarsi in un turbinio di feste e premiazioni (il 16 al Quirinale da Mattarella) ma pensiero e cuore restano ancorati su questo divano scelto con Fabio insieme a tutto il resto, quando c’era da dare la caparra per comprare casa insieme e Flavia, clamorosamente, vacillò: «Non era un investimento economico. Era un seme. Mi presero mille paure. Un’ora al telefono con mia madre: mami, che faccio? E lei, saggia: amore, ti vedi con lui tutta la vita?». Ovvio, ma con una precisazione: «Smetto di giocare a tennis per me, non per Fabio. Non farò mai più la cavolata di annullarmi per un maschio. E già successo: la lezione l’ho imparata». Piccole donne crescono, nel solco del proprio destino. «Se c’era un disegno prestabilito, me lo sono meritato: ho resistito agli sgambetti della vita e ora m’invento un futuro tutto mio». Con Fabio.

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Flavia e Roberta sono tornate. Bari abbraccia le regine del tennis (Gino Martina, Corriere del Mezzogiorno)

Il loro lungo abbraccio sotto rete a Flushing Meadows, la sera del 12 settembre, ha fatto il giro del mondo e, soprattutto, dei maxi schermi di tutta la Puglia. Flavia Pennetta, battendo l’amica di sempre, era appena diventata campionessa degli Us Open. Roberta Vinci, invece, era già stata con sacrata il giorno prima la più popolare tennista italiana, dopo aver sconfitto la numero uno Serena Williams, in una semifinale che rimarrà nella memoria di tutti e che, proprio ieri, è stata scelta come partita dell’anno, dalle testate specializzate: Usa Today e Tennis Channel. Le due ragazze torneranno ad abbracciarsi questa sera, perché saranno le ospiti d’onore del Galà dello Sport Coni, allo Showville di Bari, dove riceveranno il premio «Radice di Puglia», dedicato ai personaggi e ai successi del movimento sportivo regionale. È la prima volta che le due fuoriclasse, cresciute prima da sole nei circoli tennistici di Brindisi e Taranto, e poi assieme in quello di Bari e federale a Roma, tornano nella loro regione, dopo quell’impresa unica: la finale tutta italiana in uno Slam. Con il governatore della regione Puglia Emiliano, saranno presenti alla cerimonia il presidente del Coni regionale, Elio Sannicandro e il segretario generale Coni, Roberto Fabbricini.

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