Djokovic è una certezza mentre le donne sono senza regina (Mancuso), Rod Laver il killer tranquillo che imitava la madre (Clerici), E Ljubicic pensò: dagli ex allievi mi guardi Iddio (Valesio)

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Djokovic è una certezza mentre le donne sono senza regina (Mancuso), Rod Laver il killer tranquillo che imitava la madre (Clerici), E Ljubicic pensò: dagli ex allievi mi guardi Iddio (Valesio)

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Rassegna a cura di Daniele Flavi

 

Djokovic è una certezza mentre le donne sono senza regina

 

Angelo Mancuso, il messaggero del 11.01.2016

 

Manca una settimana esatta all’inizio degli Australian Open e mentre nel circuito maschile si riparte dalle solite inattaccabili certezze con Djokovic dominatore incontrastato (il serbo ha strapazzato Nadal in finale a Doha concedendogli 3 game) e i rivali un paio di gradini sotto, a cominciare da Federer, che ha perso con un doppio 6-4 a Brisbane contro Raonic gettando la racchetta a terra, gesto di stizza per lui inusuale, tra le donne si respira un’aria frizzantina tra ritiri, dichiarazioni polemiche e dubbi sulle condizioni di Serena Williams. A Perth la n.1 ha dato forfait per un’infiammazione al ginocchio destro nel primo incontro, giocato metà del secondo, quindi ha salutato l’Hopman Cup. A chi sostiene che sia a corto di preparazione lei ribatte che ha affrontato carichi di lavoro così intensi da aver bisogno di qualche giorno per rifiatare. RIECCO VIKA Intanto si rivede la Azarenka, che fino a un paio di stagioni fa veniva indicata come l’erede di super Serena. Nel 2012 e nel 2013 è stata l’unica a mettere paura alla campionessa americana. Per arrivare a quei livelli e raggiungere la prima posizione mondiale è andata fuori giri, si è infortunata al piede e ha vissuto un periodo di crisi fisica e personale, con tanto di separazione dall’ex fidanzato Stefan Gordy, meglio noto come Redfoo, rapper idolo delle ragazzine. Che nell’off season Vika avesse fatto le cose per bene lo si era capito da un suo tweet il giorno di Natale in cui la si vedeva allenarsi insieme al fido sparring Sasha Bajin, “scippato”, proprio a Serena. A Brisbane la 26enne bielorussa è tornata a imporsi in un torneo a distanza di due anni e mezzo dalla finale di Cincinnati 2013 vinta contro la solita Serena, lasciando per strada appena 17 game in 5 incontri. Se fosse proprio la ritrovata tennista di Minsk la principale outsider in vista degli Australian Open, Slam in cui già trionfato nel 2012 e nel 2013. Del resto la Williams non è l’unica delle prime della classe a non passarsela granché. A Brisbane si sono ritirate Halep, Muguruza, Sharapova e Kvitova: 5 delle prime 6 del ranking fuori gioco. NEMICHE PER LA PELLE Non bastassero i ritiri ci si è messa la spagnola Muguruza, altra pretendente al trono di Serena, a buttare benzina sul fuoco. “Noi tenniste ci odiamo tutte — ha detto — e se qualcuna dice il contrario sta mentendo. Siamo sempre in competizione l’una con l’altra. Fra gli uomini è diverso: li vediamo chiacchierare, stare insieme e divertirsi, ma noi ragazze non ci sopportiamo”. Dichiarazione arrivate guarda caso mentre ritorna in auge la Azarenka, che non è esattamente la più amata tra le colleghe. Nei tornei è sempre sola, con l’inseparabile cuffia sulle orecchie, e ignora tutte. A rendere il circuito elettrico ha contribuito pure la nostra Sara Errani, che sempre da Brisbane, ha polemicamente twittato: “Quanti altri tabelloni avete intenzione di sballare?? #tantopersapere”, alludendo con irritazione al fatto che sia Halep che Sharapova non sono nuove ai forfait a tabellone compilato. Se i due ritiri fossero arrivati prima dell’inizio del torneo, la romagnola sarebbe diventata testa di serie, evitando così il primo turno con la Bencic, dalla quale è stata battuta all’esordio. L’estate australe si annuncia infuocata: c’è da scommettere che ne vedremo delle belle già a Melbourne.

 

Rod Laver il killer tranquillo che imitava la madre

 

Gianni Clerici, la repubblica del 11.01.2016

 

Sulla copertina di un mio vecchio libro c’è Rod Laver, insieme a qualcuno che, con il braccio, sta imitando la traettoria di una palla. Mi dava retta. Aveva stima di uno che aveva addirittura giocato con i Mousquetaires, e ammirato Budge, l’unico prima di lui a vincere un Grand Slam. Di quel ( mio ) libro, amava il fatto che l’avessi scritto per insegnare il gioco a mia figlia, che era stata, a nove anni, l’editor di una delle 12 edizioni de Il Tennis Facile. E poi, invece di fare la tennista, aveva scelto di diventare commediografo, uno dei più noti della Francia contemporanea. « Perché non lo traduci in inglese? Lo mostrerei a mio figlio », aveva detto Rod, non rendendosi conto della difficoltà nel farsi tradurre di chi scriva in un misterioso dialetto neo-latino. Ma uno capace di vincere non uno, ma due Slam, impresa sin qui realizzata soltanto da lui, di altro non può occuparsi se non della propria attività. Non la chiamo lavoro poiché non sono mai riuscito a considerare il tennis un lavoro, sebbene temo che lo sia diventato, con tutti gli obblighi complementari che hanno costetto i campioni a emulare divi e uomini pubblici. Mentre scrivo di Laver, ho sotto gli occhi un magnifico libro di uno dei miei più cari amici, Bud Collins, un tipo che non vale meno di Damon Runyon o Paul Gallico. L’ho preso dai miei scaffali molto tempo dopo che aiutai Bud nello scegliere il titolo The Education of a Tennis Player”, titolo che mi ricordava l’Education Sentimentale di Flaubert, che stavo leggendo e che gli avevo suggerito nel 1971. Perché the Education? Ma perché, se nei successi recentemente annotati di Frank Sedgman (La Repubblica, 5 gennaio 2016 ) c’era stato quel grande Maestro di Hopman, Harry aveva spostato la sua scuola in America, e Laver aveva incontrato, bambino, un altro Chirone, Charles Hollis. Questo insegnante non è passato alla storia del tennis come Hopman, ma a sentire Laver lo avrebbe più che meritato. Era nato, Rod, da una famiglia di proprietari di bovini, a Langdale, un villaggio non lontano da Brisbane. Era tanto vasta, la sua famiglia, da formare con i parenti una squadra di cricket dilettantistico, dove il piccolo si inizia allo sport. I Laver si spostarono poi a Rockhampton, dove il papà aprì una macelleria, e i tre fratelli e una sorellina si misero subito a costruire un campo in terra, simile a quello che avevano avuto, nella fattoria. Lo dotarano addirittura di luci serali, e, sotto quelle luci, si vide apparire Hollis, il Maestro. «Rod non ha il sangue caldo come te e gli altri figli» disse a Papà Laver. «Ha la calma della mamma. Se riesco a mettergli adosso il killer istinct diverrà qualcuno. «Insieme al cosiddetto killer istinct, la capacità di vincere, Hollis insegnò al piccolo Rod un rovescio lifta-to che nessuno dei campioni mancini aveva mai posseduto, e lo convinse che dieci prime palle di battuta valgono più che tre aces e un doppio errore. Passiamo, anche per ragioni di spazio, al 1956, quando un giovanissimo Rod di 18 anni affrontò il suo primo viaggio fuori dall’Australia. Scoprì che «l’erba di Wimbledon è la migliore del mondo» e che quella di Forest Hills (New York, dove si giocavano i Campionati d’America ) «nemmeno adatto a una mucca, per il rischio che la poverina ci si rompa una zampa». E scopri anche che «sulla terra il tennis è un altro sport, ogni punto è come la guerra, e ne venite sporchi come foste caduti in una buca». Assistette, Rod, al match di Forest Hills nel quale Lew Hoad persela possibilità di fare Grand Slam, battuto nella finale del Quarto Torneo dal suo fraterno amico e partner di doppio Ken Rosewall. E tornò a casa sognando di superare i suoi celebri corn-pagni di squadra. Saltiamo qui gli anni dedicati alle prime esperienze, e ritroviamoci al primo dei due Grand Slam, lasciando la parola a Rod, in un’intervista qui pubblicata il 17 Gennaio del 2011. «All’inizio degli Anni Sessanta mancavano al tennis dilettantistico, il nostro, Kramer, Gonzales, Segura, e i Twins, i Gemelli Stregoni, Rosewall e Hoad : tutti prof. Il rischio più grande che incontrai nel 1962 fu al quarto turno del Roland Garros, contro il tuo finto compatriota Martino Mulligano, australiano quanto me. In un match in cui non sbagliava mai, Mulligan arriva a match point a 5-4 al quarto, 30-40. Contraddico il mio Maestro Hollis, cerco l’ace, e lo sbaglio. Vado a rete sulla seconda? Vado, pregando gli Dei. E riesco a spa-stare fuori Mulligan, e gli chiudo l’an *** golo, per far punto in volée di rovescio. Sono salvo». «Ma ti rimaneva sulla strada un altro australiano», gli dissi, alludendo a quel Neal Fraser con cui mi dilettai di giocare spesso, terminata la sua carriera. «A 5-4 al quinto, sempre per lui, al Roland Garros, Fraser fu vittima di una crisi di prudenza; ne approfittai, così come contro Emerson, anche lui troppo cauto, quando condusse due set a uno, e 3-0. Forse ebbe ragione Hollis. Mi aiutò la testarda calma di mia madre». «Ma ci fu poi un match a New York, la quarta fermata, anche quello in salita». «Fu con Manolo Santana, l’inventore del lob liftato. Manolo an-db avanti 16-14 – allora non c’era tie-break – e 5-1 nel secondo, dove ebbe set point a 5-4. Fortuna? Chissà». «Poi vennero 5 anni di professionismo, 20 Slam visti da lontano, nei quali avresti molto probabilmente battuto il record di Federer, che appare, a chi non conosce il tennis, il primo di ogni tempo, con 17 Slam. Ma veniamo al tuo secondo Slam. Fu più difficile del primo?». «Non credo. Gonzales, Kramer, Hoad e Rosewall, che mi batterono spesso tra i Pro, erano invecchiati. ll match più pericoloso fu probabilmente nel torneo d’avvio, che si giocava a Brisbane, e non a Melbourne, come adesso. Su un campo insaponato per la pioggia chiesi di calzare le spikes, le scarpe con i chiodi, dopo aver perso un secondo set infinito, 20 a 22,ma riuscii a raggiungere il quinto, e lo vinsi, nonostante quell’anno Tony Roche mi abbia battuto 4 volte. Sai, tra mancini è dura». «Ma poi ci fu l’indiano sconosciuto, a Wimbledon». «Non del tutto sconosciuto, Premjt Lall, che condusse due set a zero, e, se ricordi, sbagliò sulla palla break del 3 pari uno smash infantile. Disse poi che l’aveva causato l’improvvisa sensazione di potermi battere, che l’aveva sconvolto. Sensazione che non sfiorò Stan Smith, giunto vicinissimo a eliminarmi nel quinto set». «Mi ricordi lo US Open» dissi. «La quarta stazione dev’essere la più emozionante. Da Crawford a Hoad l’hanno mancata». «Allo US Open il quinto set contro Gorman fu meno emotivo delle telefonate di mia moglie Mary, americana di Newport, che stava partorendo e mi voleva con lei, mentre a New York diluviava, e la finale veniva di continuo rinviata».

 

E Ljubicic pensò: dagli ex allievi mi guardi Iddio

 

Piero Valesio, tuttosport del 11.01.2016

 

E’ probabile che la signorina ritratta nella foto qui a fianco un molo lo abbia rivestito nei palesi miglioramenti offerti da Milos Raonic ieri contro Roger Federer. Non foss’altro perché circondarsi di bellezza (o almeno di tale parere erano molti nella Grecia antica) qualche benefico effetto sulla bellezza del proprio tennis forse è destinato a provocarlo, almeno e medio-lungo termine. Per la cronaca la signorina in questione si chiama Danielle Knudson ed è la fidanzata del succitato Raonic che ieri, vendicando la sconfitta dell’anno scorso, si è aggiudicato il titolo di Brisbane sconfiggendo il grande svizzero. Battute a parte pelò non è certo Danielle ad aver trascinato Milos, ai progressi sopra citati. Nel finale di stagione 2015, poche settimane addietro Raonic, dai più identificato come dei legittimi pretendenti ad un posto dei Fab Four del prossimi domani, quale che sia la definizione che assegneremo a chi si permetterà di insidiare i dominatori di oggi, era sembrato rinunciatario, vittima dei guai fisici che lo avevano perseguitato per tutto l’anno e lontano dall’essere in grado proporre un gioco che infastidisse Federer. Ieri i ruoli si sono ribaltati. Al di là di quanto tale risultato (insieme al travolgente successo che Djokovic ha ottenuto ai danni di Nadal) ci dica oggi sulla stagione che 6 iniziata (praticamente nulla ma ne riparleremo) la curiosità non è scaturita tanti dai giocatori in campo quanti dai membri del loro staff. A Brisbane Raonic, negli anni scorsi seguito dal croato, ha maltrattato Roger Federer, suo attuale “protetto” L’amicizia e la stima profonda che legga Riccardo Piatti e Ivan Ljubicic è nota et arcinota. Proprio Ljubo è stato colui che più di altri si è occupato di Raonic negli anni passati. Solo che poi i casi della vita lo hanno portato a prendere il posto don Stefan Edberg come nume tutelare di Fede-rer mentre Piatti, ora affiancato da Carlos Moya, è rimasto nel team di Raonic. A Brisbane, in sostanza, Ljubicic ha visto i frutti del lavoro svolto con il canadese: solo che quei frutti (delle noci di cocco vista l’efficacia del servizio di Milos e del uso gioco a volo) si sono abbattuti su di lui. Mentre il suo attuale protegè ha giocato inalino assai e a quei progressi non ha saputo opporre una degna resistenza. Casi della vita certo; che potranno essere comodamente smentiti nei mesi a venire. Ma salta agli occhi come il team di Piatti stia diventando un po’ come un circuito parallelo i cui membri si danno battaglia pur partendo dalle medesime origini. Quello dei coach è un modo strano o almeno molto particolare in cui per tentare di farsi largo bisogna avere almeno una buona idea oltre ad una competenza assoluta. E non mancano coloro i quali non avendo le buone idee e fors’anche non una competenza lunare almeno fingono bene di essere in possesso di entrambi gli strumenti. Questi ultimi sono una sparutissima minoranza, sia chiaro: Piani, Moya e Ljubicic percorrono un’altra orbita. Il loro duello “familiare” potrebbe diventare uno dei temi leggeri più stuzzicanti del 2016

 

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