Tutti hanno torto nel caso-Giorgi ma è Camila che si gioca la carriera

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Tutti hanno torto nel caso-Giorgi ma è Camila che si gioca la carriera

Dopo le dichiarazioni del Presidente della FIT, Angelo Binaghi, proviamo a fare un po’ il punto sul caso che vede coinvolte Camila e Sergio Giorgi. Una partita che rischia di essere senza vincitori e con tanti vinti

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L’annosa diatriba che sta coinvolgendo la Federtennis da una parte e la famiglia Giorgi dall’altra non sembra sul punto di concludersi ed è naturale provare una certa esigenza di verità. Si scandagliano fonti e testimonianze per cercare di riprodurre la versione dei fatti più veritiera possibile, nel caso dei giornalisti; o si ingurgitano ricostruzioni dei fatti, articoli di approfondimento e servizi televisivi allo scopo di identificare da che parte stia la ragione, nel caso dei semplici appassionati.

Una volta snocciolati i fatti il pericolo è di avventurarsi troppo nella partigianeria: si finisce col sostenere (legittimamente) una delle due parti dimenticando però (ingiustamente) le ragioni dell’altra, peccato non veniale in casi di difficile lettura come questi. Questo non è un inno al cerchiobottismo ma piuttosto un invito ad andare oltre la logica del “la colpa è di qualcuno a tutti i costi”, perché anche ove si riuscisse nell’intento rimarrebbe il non trascurabile problema di un talento tennistico che viene strumentalizzato, sballottato, preso a pretesto e certo non protetto.

Altrove la vicenda è stata analizzata più nel dettaglio e pare ruotare attorno all’esistenza di un contratto firmato dai Giorgi con la federazione azzurra: è questo contratto che renderebbe più grave (e punibile non solo sportivamente) la decisione di Camila Giorgi di non rispondere alla convocazione di mister Barazzutti. È un fatto che le cifre e i termini di questo contratto non siano stati rivelati ufficialmente dalle parti in causa, dunque quello che in proposito è trapelato non può esser dato come certo. Va precisato che si parla di violazione “più grave” perché esiste già un regolamento federale che impone ai giocatori di onorare, ovviamente, le convocazioni in nazionale; altrettanto ovviamente sono esistite – ed esisteranno – delle deroghe dettate dal buon senso delle quali le altre tenniste azzurre hanno in passato beneficiato. Quello che a Camila non è stato concesso, quindi, può essere legato tanto a un vincolo contrattuale “forte” quanto all’assenza di un vero rapporto tra il clan Giorgi e l’ambiente azzurro. Mentre appare molto meno solida l’ipotesi (peraltro non impeccabile dal punto di vista dell’etica sportiva) che alla tennista marchigiana sia stata negata la richiesta per non aver maturato sufficienti meriti sul campo, come ha paventato Sergio Palmieri. Le sole nove vittorie ottenute sulla terra battuta da Camila sono al contempo poche per esentarla dalla convocazione ma, a quanto pare, abbastanza da renderla elemento decisivo per la trasferta spagnola.
Ricapitolando: se contratto c’è o papà Giorgi ha deciso consapevolmente di non onorarlo puntando al muro contro muro oppure non si è premurato di leggerlo fino in fondo e si è reso conto troppo tardi di essere con le spalle al muro. Non si spiega però come mai la FIT non abbia divulgato i dettagli dell’accordo in modo da fugare ogni dubbio sul suo comportamento, apparso vagamente “punitivo” sin dalla decisione di diramare le convocazioni con largo (e sospetto) anticipo.

Torniamo però a Camila, che in tutta questa storia appare paradossalmente ai margini eppure è quella che rischia di pagare il prezzo più alto di tutti. Il papà dispone e decide per lei, il gruppo delle ragazze di Barazzutti non sembra averla mai aiutata troppo a integrarsi e i risultati nel frattempo latitano. Non si tratta solo della necessità di proteggere una ragazza che sembra fragile, introversa e schiava del suo talento, perché si potrebbe obiettare che questo non è il compito di una federazione sportiva, sebbene tra gli oneri federali non rientri neanche quello del giustizialismo. Anche ammettendo la negligenza contrattuale di Giorgi si fa fatica a credere che tutta la storia non si potesse gestire diversamente, minimizzando le conseguenze per Camila.

I dubbi sulla gestione della querelle aumentano alla lettura delle dichiarazioni rilasciate da voci “ingombranti” nell’indotto federale, da Sergio Palmieri a Nicola Pietrangeli e soprattutto da Angelo Binaghi, che si è lasciato scappare qualche parola di troppo. Le dimissioni di Ray Moore hanno dimostrato che le parole a volte non sortiscono minore effetto rispetto alle azioni, e quando si ricopre un determinato ruolo (operativo o anche solo mediatico) non ci si può trincerare dietro il diritto di esprimere la propria opinione senza curarsi delle conseguenze. Adesso con quale stato d’animo Camila potrà disputare l’unico torneo importante rimasto entro confine se colui che lo gestisce l’ha definita “un corpo estraneo al mondo del tennis”? E come potrà programmare il ritorno in azzurro se il tennista italiano più vincente della storia non si è preoccupato troppo prima di ritenerla “squalificata come persona”?

La situazione sembra andare addirittura oltre l’evidenza che esistano figlie e figliastre, perché più che mancare un trattamento di favore qui la linea di condotta sembra essere addirittura punitiva. Non può e non deve reggere l’alibi dei risultati sportivi ancora deludenti di Camila, sia perché (come è stato già detto) questa presa di posizione contravviene in pieno al principio secondo cui tutti all’interno di una federazione tutti devono avere le medesime possibilità, sia perché all’età di venticinque anni né Francesca Schiavone né Roberta Vinci avevano raggiunto un livello superiore a quello attuale della marchigiana, Sara Errani aveva appena compiuto il salto di qualità raggiungendo la storica finale di Parigi e Flavia Pennetta era invece l’unica con best ranking alla posizione 16 e tre titoli in palmares prima dei 24 anni ad aver fatto sensibilmente meglio.

Alla federazione va sicuramente riconosciuta un’attenuante: la difficoltà di dialogare con un personaggio autoritario e spigoloso come Sergio Giorgi. Un atleta alla soglia della maturazione sportiva, di solito, è seguito da uno staff professionale che si occupa tanto degli aspetti tecnici quanto dei rapporti con l’esterno. Nel caso di Camila abbiamo un solo nome, totalizzante, “gravato” dall’affetto paterno oltre che dagli oneri manageriali e che mal digerisce la presenza di sua figlia in un’ambiente (quello della nazionale) nel quale non vede per lei prospettive di crescita. Difficile ora stabilire un confine: papà Giorgi sta difendendo sua figlia dall’ostilità delle sue colleghe o quest’ostilità è figlia delle sue eccessive ingerenze nella carriera della figlia? Certo il tennis rimane sport individuale, ma è evidente che un clima del genere non può che spezzare le velleità di successo di Camila già messe a dura prova da limiti tecnico-tattici che la gestione del padre non ha saputo ancora superare. Da qui le voci (non così infondate) che vedrebbero la venticinquenne lontana dall’Italia nei prossimi anni, sia come sede d’allenamento – le probabilità di rivederla a Tirrenia sembrano ormai minime – sia come federazione d’appartenenza, sebbene non possa disputare incontri ufficiali con una casacca che non sia quella azzurra.

Messa com’è messa ora l’Italia potrebbe perdere la futura seconda singolarista dei prossimi anni, considerando l’ormai imminente ritiro di Roberta e sperando che Sara Errani si tenga a galla ancora per qualche anno. Papà Giorgi potrebbe perdere una cospicua somma di denaro, se è vero che esiste questo prestito da restituire. A Camila potrebbe però toccare la sorte peggiore: perdere definitivamente la fiducia nei propri mezzi e la possibilità di ambire ai traguardi che il suo enorme talento balistico meriterebbe.

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