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Il tennis e il torneo olimpico. Una relazione spesso forzata, tra lo sport professionistico per eccellenza e la rassegna a cinque cerchi, che rappresenta la gioia di rappresentare il proprio paese e rivivere nell’epoca contemporanea le gesta di quell’evento internazionale che in epoca antica era talmente forte e sentito da fermare le guerre. Un rapporto che sembrava aver trovato finalmente la sua definitiva consacrazione dalle ultime due edizioni, Pechino 2008 e Londra 2012. Nella capitale cinese arrivò la vittoria del n.1 del mondo Rafael Nadal sul cemento in quella che già era stata, almeno fino ad allora, la più grande stagione del maiorchino, capace per primo dopo Bjorn Borg di vincere nello stesso anno Roland Garros e Wimbledon e dopo aver compiuto quella che, volenti o nolenti, è stata la sua più grande impresa della carriera: aver superato Roger Federer nel suo giardino di casa, quei verdi prati di Church Road dove si era rivelato al mondo superando in cinque meravigliosi set Pete Sampras nel 2001 e dove veniva da cinque trionfi consecutivi. Ebbene Nadal, non ancora sazio, riuscì a far suo l’oro olimpico sulla superficie al lui meno congeniale, a dimostrazione di quanto tenesse alla competizione a cinque cerchi.
Nel 2012 a Londra arrivarono alle semifinali Roger Federer, Andy Murray, Novak Djokovic e Juan Martin del Potro. Ovvero le prime tre teste di serie e l’argentino, allora n.9 del mondo. Murray, spinto dall’entusiasmo del pubblico di casa, superò il n.1 ATP Novak Djokovic, incapace – sempre che fosse umanamente possibile – di replicare l’anno successivo un 2011 da favola, nel quale solo una semifinale monstre di Roger Federer al Roland Garros gli sbarrò la strada del titolo francese e del probabile Grande Slam. Lo svizzero, da par suo, giocò una sfida infinita contro del Potro, che si risolse solo 19-17 al terzo set, dopo quasi 4 ore e mezzo di battaglia tanto intensa quanto ricca di colpi di grande qualità. Insomma, un’edizione che sembrava segnare la svolta definitiva dei grandi del tennis nel loro rapporto con le Olimpiadi: il torneo della rassegna a cinque cerchi contava eccome e non c’era big che non si sarebbe speso al massimo per cingersi il capo dell’alloro di Olimpia e mettersi al collo la medaglia d’oro, per il prestigio personale e del suo Paese.
Ora, nell’immediata vigilia delle Olimpiadi di Rio de Janeiro 2016, il feeling tra tennis e Olimpiadi sembra quasi tornata indietro di 24 anni, all’epoca di Barcellona ’92, quando i quarti di finale registrarono la presenza di un solo top ten, Goran Ivanisevic (allora n.4 del mondo) e a trionfare fu l’elvetico Marc Rosset in finale sullo spagnolo Jordi Arrese. Non proprio due campionissimi, senza nulla togliere al loro ottimo torneo. Non si afferma nulla di originale, semplicemente si prende atto che la rinuncia di 9 dei primi 25 del mondo, di cui 5 top ten (da ultimo Wawrinka, che ha espresso parole di grande rammarico, non si sa fino a che punto davvero sincere) la dice lunga sulla nuova disaffezione dal torneo olimpico.
La frase che suonò il primo vero campanello d’allarme in tal senso la pronunciò Dominic Thiem nell’intervista concessa in esclusiva a Ubitennis lo scorso maggio, durante il torneo di Nizza, nella quale il talento austriaco si espresse con grande chiarezza e trasparenza: “Per me il tennis, nelle Olimpiadi, non conta davvero: le Olimpiadi sono atletica, nuoto… Per il momento non è di sicuro la mia priorità principale”. Nessuna concessione al motto decubertiniano, nessun interesse a vincere una medaglia per il suo Paese, solo il chiaro intento di non compromettere la seconda parte di stagione per un torneo che gli interessava meno di un ATP 250. Lì per lì poteva sembrare persino eccessiva la nettezza con cui Thiem bocciava il torneo olimpico: se il più celebre rappresentante dei protagonisti del prossimo decennio snobbava così le Olimpiadi, cosa aspettarsi da chi era abituato da anni a vincere gli Slam, come Nadal, Murray (peraltro già olimpionici), Federer e Djokovic?
Col senno dell’ultimo mese, però, la rinuncia in tempi non sospetti dell’attuale n. 10 del ranking risuona come leale e seria: a fronte di uno che dichiara apertamente che le Olimpiadi non lo interessano, abbiamo avuto forfait tardivi di altri campioni per motivi molto meno trasparenti. Fatta eccezione per John Isner, che già ad aprile aveva annunciato l’intenzione di concentrarsi sulla riconferma ad Atlanta e sulla preparazione per il cemento americano, molti, tra cui Tomas Berdych e Milos Raonic hanno rinunciato assai tardivamente per il rischio di contrarre in Brasile il virus Zika, manifestando profondo dispiacere e altrettanti dubbi sulla loro schiettezza (immaginatevi un virus analogo che minaccia un’edizione di Wimbledon o degli US Open: secondo voi avremmo assistito allo stesso numero di rinunce?). Altri, come il già citato Wawrinka e Alexander Zverev hanno rinunciato per problemi fisici dell’ultim’ora e altri ancora sono stati costretti a una rinuncia molto dolorosa per preservare il resto della loro carriera.
È il caso, come avrete già capito, di Roger Federer, che ha deciso di seguire scrupolosamente il parere dei medici e interrompere bruscamente l’intera stagione per dare tempo al ginocchio operato dopo l’Australian Open di ricostruirsi perfettamente, col chiaro intento di riprendere a giocare nel 2017 al top delle condizioni fisiche, sebbene con 35 primavere sulle spalle (che l’8 agosto 2017 diventeranno 36). Negli ultimi anni il fuoriclasse svizzero aveva in più occasioni manifestato il suo amore per le Olimpiadi, sin da quando nel 2012 dichiarò che il suo obiettivo per il resto della carriera era arrivare all’edizione di Rio 2016, suscitando non poche perplessità tra gli addetti ai lavori. Ora che il primatista Slam è riuscito a coronare il sogno di essere ancora competitivo a 35 anni, preferisce sacrificare Rio per allungare la carriera di almeno un anno, forse anche due. In una recente intervista, il capitano di coppa Davis e amico Severin Luthi ha dichiarato che “giocare a Rio sarebbe stato possibile per Roger, ma col rischio di compromettere il suo stato fisico nel 2017”.
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